martedì 8 maggio 2012

Una provincia in… standby!

La scorsa settimana la Camera di Commercio di Ragusa ha presentato il 10° rapporto sull’economia della provincia. Si tratta di una iniziativa molto meritevole, perché la raccolta dei dati è fatta con criterio scientifico e mette a disposizione degli osservatori cifre e dati che parlano di noi senza la mediazione della politica politicante, cioè di quell’insieme di organismi votato ormai all’autoreferenzialità, divenuti luoghi ormai dove ognuno c’è per se stesso e dove s’è persa la relazione autentica con coloro che si ha la pretesa di rappresentare.Ho colto l’impressione che il nostro territorio non è un camposanto, di certo non gode buona salute. Ma in tempi di crisi e di grandi difficoltà, reggersi in piedi magari leccandosi qualche ferita, è una cosa straordinaria. L’idea che se ne può ricavare è che ci troviamo davanti un territorio in standby. Secondo l’Unioncamere, infatti, la provincia di Ragusa si colloca in un’area intermedia tra le aree di marginalità e quelle in fase di crescita, esattamente tra quelle in cui lo sviluppo si è bloccato e dove persiste una difficoltà a creare le condizione per ripartire. Confrontando i dati con quelli del censimento dell’agricoltura appare rafforzato il dato che vede un arretramento della piccola impresa agricola a fronte di un aumento significativo dell’impresa di capitali in agricoltura. Nell’ultimo decennio, infatti, molti piccoli coltivatori hanno dovuto abbandonare la terra a causa degli alti costi di produzione, ma anche per il venire meno di quel fenomeno tipico dell’area iblea costituito dall’impresa di tipo familiare ove il diretto coltivatore poteva fare affidamento sull’apporto dei propri congiunti nelle fasi marginali dell’attività di impresa. Ad avvantaggiarsi di questa situazione è stata la società di capitali che ha potuto procedere ad una serie di accorpamenti fondiari riducendo i precedenti proprietari a lavoratori salariati ai quali vengono affiancati lavoratori di provenienza extracomunitaria. Ciò malgrado, la piccola impresa diretto coltivatrice, inferiore ai due ettari, costituisce ancora il 51,4% del totale delle imprese occupando solo il 6% della Superficie Agraria Totale, ma perde lungo il decennio 2000/2010 ben 9.000 unità.C’è, dunque, una trasformazione in atto che riguarda sostanzialmente la zona costiera trasformata. E’ in quest’area che si stanno verificando processi di radicale cambiamento accompagnato da profonde lacerazioni del tessuto sociale. Da un lato nasce e si rafforza l’azienda con caratteristiche neo capitaliste, la quale può contare su: manodopera salariata a basso costo, accesso al credito privilegiato, accesso ai contributi comunitari,  capacità di interlocuzione con la Grande Distribuzione Organizzata, capacità di sfruttare l’innovazione tecnologica e la ricerca, capacità di operare in un contesto internazionale, capacità di promuovere sistemi di reti interni ed esterni. Dall’altro lato esiste un universo polverizzato di micro imprese agricole, che  sostanzialmente resiste con grandi difficoltà a causa degli elevati costi unitari di produzione (per ammortamenti, energia, materie prime, previdenza, assicurazioni, credito, trasporti, provvigioni), dell’incertezza che caratterizza l’andamento dei prezzi di vendita dei prodotti, del cambiamento climatico artefice di nuovi e più devastanti fenomeni atmosferici, del verificarsi di eccedenza dell’offerta di prodotti, della concorrenza straniera, dell’incapacità ad accedere all’innovazione tecnologica ed alla ricerca. Un comparto che si difende in modo disperato, lo si evince dalla classe di età dei titolari che per il 25% si colloca oltre la fascia dei 70 anni. Si tratta di coltivatori che hanno i figli alle proprie dipendenze che possono così beneficiare più facilmente di sussidi di disoccupazione e altre piccole agevolazioni. Un altro aspetto è costituito dalla diminuzione del possesso della terra, infatti i proprietari diminuiscono di oltre il 40%, mentre aumentano i conduttori in affitto (+115%) o con terreni ricevuti in comodato d’uso (+355%). Inoltre, risulta rilevante l’indebitamento verso gli istituti previdenziali e verso le banche. Se ai dati agricoli si sommano le difficoltà del settore industriale più importante che è quello dell’edilizia, dove sono stati licenziati oltre 2000 operai e più di 500 aziende risultano non operative, la disoccupazione giovanile e quella femminile in particolare, allora il quadro economico è quello di una provincia che lotta tra un processo di recessione sempre più marcato da un lato e, dall’altro, tra speranze di cambiamento che, comunque, non si fondano su un progetto di società capace di dare lo startup. Una situazione in bilico, una situazione in standby. Ripercorrendo la storia di questa crisi, che è anche la storia di questa provincia degli ultimi 30 anni, mi sono convinto che le radici più profonde di queste difficoltà possono essere ritrovate in un deficit di senso che viepiù ha preso le forme di una degenerazione del legame sociale, che è stato fondamento di quello che, nel tempo, è stato spiegato come una “diversità ragusana”. Mi riferisco alla dissociazione che si è prodotta nel tempo tra le istanze economiche primarie e le forme organizzate della società, le prime completamente pervase dalla cultura dei consumi hanno finito per abbandonare qualsiasi ipotesi di  consolidamento e allargamento della struttura economica riversando le proprie risorse in investimenti di tipo edonistico o cumulativo conservativo; i partiti e le grandi organizzazioni di massa hanno cessato, ormai da tempo, di essere centri produttori di senso essendo cresciuta, piuttosto, una classe dirigente orientata al perseguimento di fini personali tendenti al consolidamento della propria carriera perdendo, nel corso degli anni, quella funzione profetica che aveva caratterizzato la classe politica nata nel primo dopoguerra e cresciuta nel crogiuolo delle lotte bracciantili per la conquista della terra. Ora se, allora, nel dopoguerra, la crisi era fondamentalmente di tipo dialettico, proprietà assenteista verso braccianti senza terra, superata grazie al passaggio della proprietà da una classe all’altra ( fondamentale la parola d’ordine del PCI in controtendenza agli orientamenti nazionali: la terra si acquista e non si conquista) realizzando di fatto una rivoluzione moderna, oggi la crisi è di carattere entropico  determinata principalmente da un collassamento delle strutture economiche più piccole a causa dal fatto che i piccoli produttori non conoscono i meccanismi con cui rapportarsi con il fenomeno della globalizzazione, c’è dunque un deficit di conoscenza che avrebbe dovuto essere colmato da nuove forme organizzative capaci di riordinare i processi produttivi per essere nel mondo, ma è qui che la politica ha fallito il proprio compito storico interrompendo di fatto quel processo originario di riscatto che aveva determinato la “diversità ragusana”. Come sostiene Stefano Zamagni: “..non si esce da una crisi entropica con aggiustamenti di natura tecnica o con provvedimenti solo legislativi e regolamentari – pure necessari – ma affrontando di petto, risolvendola, la questione del senso. Ecco perché sono indispensabili a tale scopo minoranze profetiche che sappiano indicare alla società la nuova direzione verso cui muovere mediante un supplemento di pensiero e soprattutto la testimonianza delle opere”. Queste minoranze profetiche non possono essere confuse con quelle che aspettano con ansia il treno per Sala d’Ercole o per Palazzo Madama per sfuggire alle loro responsabilità storiche, le minoranze profetiche sono quelle che nascono dalle lotte e restano nel convento a seguire la massima  “ora et labora”, indispensabile per dare lo startup per un nuovo rinascimento ibleo.

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