martedì 12 febbraio 2019

Da Hegel a Rifkin, com'è cambiato il concetto di ricchezza e povertà.

A ragione il secolo XVII può essere considerato lo spartiacque tra Vecchio e Nuovo Mondo. Uno dei segni di questo cambiamento è dato dall'aumento demografico come, d'altronde, lo era stato per i secoli XI e XII quando l'Occidente era stato interessato da momenti di forte vivacità economica e di relativa prosperità. Ma mentre nei secoli precedenti l'aumento era stato relativo, in questo secolo si assiste ad una vera esplosione demografica, tanto che in quasi tutti i Paesi europei si registra il raddoppio della popolazione. Questo cambiamento è, tra l'altro, il risultato delle modificazioni che nel Settecento subiscono le strutture agrarie a seguito delle importazioni di piante dalle colonie quali il mais e le patate, con le quali era possibile realizzare maggiori rese produttive attraverso una più efficace e razionale organizzazione del lavoro. Questa nuova situazione aveva prodotto uno sconvolgimento nei vecchi assetti sociali, necessitando i proprietari di una maggiore libertà di movimento, di un cospicuo investimento di capitali e di molto spirito di inizativa. Sono queste le premesse di una nuova stagione politica alla cui base sta la rivendicazione di una maggiore libertà dell'iniziativa privata e del diritto di proprietà, che si conclude con la privatizzazione dei demani pubblici e di una razionalizzazione dei sistemi di coltivazione, innovazioni che da un lato migliorarono il sistema alimentare delle popolazioni e dall'altro incrementarono il commercio mondiale.
Il processo di trasformazione dell'agricoltura costituisce, così,  la premessa di una radicale e quanto mai sconvolgente riorganizzazione della società. Ne sono convinti sostenitori i fisiocrati, i quali nel processo di sviluppo dell'agricoltura individuano quel sistema di riproduzione del surplus capace di incrementare la produzione. Le loro idee costituiscono i presupposti culturali e programmatici del pensiero illuminista e pongono le basi di quella rivoluzione che, puntando sull'abbattimento di tutte quelle leggi, privilrgi e vincoli propri del sistema feudale, crea le condizioni dello sviluppo del profitto, del commercio e dell'avvento del capitalismo. Da queste premesse nasce e si sviluppa la Rivoluzione Industriale. L'inghilterra è il Paese dove questa rivoluzione si sviluppa fino a produrre tali rivolgimenti sociali ed economici, che il ruolo politico della nobiltà, compresi i privilegi, ne risultano irrimediabilmente compromessi, mentre consente alla borghesia di promuovere, prima nelle campagne e poi nelle città, un nuovo sistema di produzione, che sfruttando le conquiste del progresso scientifico e massimizzando il profitto attraverso la divisione del lavoro, rivoluziona l'insieme dei rapporti sociali e pone le basi per la conquista del potere politico. la borghesia agraria e commerciale investe ora nell'industria, utilizza nuove fonti di energia, i vecchi attrezzi di lavoro vengono sostituiti dalle macchine, le nuove tecnologie accrescono il ritmo di produzione della ricchezza. Nuovi attori entrano sulla scena di questo grande palcoscenico che è costituito dal mondo moderno della produzione. I proprietari delle manifatture e delle fabbriche, la borghesia capitalistica, gli operai specializzati, i lavoratori comuni al limite della sussitenza, i disoccuipati proiettati verso una prospettiva di abbrutimento e di disperazione. E' la società commerciale, nella quale Hobbes valuta l'uomo per ciò che vale e dove Smith giudica ciascuno ricco o povero a seconda della capacità di soddisfare i propri bisogni, una società dove gli uomini sono condizionati da una molteplicità di bisogni artificiali e dove la divisione del lavoro permette soltanto di produrre una piccolissima parte di beni necessari a soddisfarli, per cui una persona è ricca o povera nella misura in cui riesce ad acquistare il lavoro degli altri. Lo scambio e la divisione del lavoro costituiscono i mezzi per aumentare la ricchezza sociale. Per Smith lo scambio consente l'armonia e la mediazione dei molteplici interessi sociali, potendo, infatti, scambiare i propri beni con quelli degli altri (il di più rispetto alle proprie necessità) ciascuno può aumentare il proprio benessere e, nel contempo, ampliare la propria gamma di bisogni. Il lavoro, dunque,crea e produce la ricchezza, è il mezzo universale che permette lo scambio, la moneta con la quale è possibile acquistare ogni cosa. Inoltre, il lavoro permette di produrre il sovrappiù che reinvestito dal capitalista permette di espandere la produzione e di trarre, detratto il costo del salario e delle materie prime, il giusto profitto. L'economia politica classica considera il profitto un reddito particolare, qualcosa di diverso dalla rendita parassitaria o di posizione di cui beneficia la nobiltà. Questo reddito infatti non è diretto al consumo, bensì alla produzione e ciò non fa che incentivare l'occupazione di tanti operai, i quali, a loro volta, producono altro sovrapiù che investito espande la produzione, aumentando il benessere e la ricchezza universale. Il processo produttivo assume, così,  un carattere circolare che, secondo la teoria di Ricardo, produce per la produzione e non per il consumo, anzi quest'ultimo costituisce solo un elemento funzionale del processo. Ad una società di consumatori, secondo Smith, si sostiuisce ora una società di produttori e la produzione diventa il fine dell'azione sociale, si consuma per produrre, si affermano nuovi valori morali: l'operosità, il risparmio. Si condanna l'ozio, il vizio, il consumo fine a se stesso.
Lo stesso Smith, però, si accorge che il sistema da lui stesso teorizzato, è causa di conseguenze gravissime per la comunità e non solo perchè il capitalismo è causa di una nuova e più crudele condizione di emarginazione, di povertà e di una enorme massa di disoccupati, ma anche perchè a tutti quegli operai legati al lavoro particolarizzato delle fabbriche, a causa dell'affermarsi della divisione del lavoro, che restringe l'attività dell'uomo a poche operazioni, non resta altra prospettiva che una vita di miseria fisica e spirituale: "L'uomo che trascorre l'intera sua vita nel compiere poche e semplici operazioni, i cui effetti sono, peraltro, sempre gli stessi o quasi, non ha occasione di esercitare la propria intelligenza o la propria capacità inventiva nel cercare espedienti per superare delle difficoltà che egli non incontra mai. E' così che smarrisce l'abitudine ad esercitare la propria facoltà e diventa, in generale stupido e ignorante" (Adam Smith, "La ricchezza delle Nazioni", Editori Riuniti, Roma 1969). Sono gli operai dell'industria, quelli che lavorano duramente nelle miniere, nelle aciaerie, sono i contadini che la rivoluzione agraria ha espulso dalle campagne e gli artigiani vinti dalla concorrenza delle prime macchine a vapore, uomini, donne e fanciulli "alla mercè dei padroni che li tenevano rinchiusi in edifici isolati, lontani da testimoni che si potessero commuovere per le loro sofferenze, erano sottoposti ad una schiavitù disumana. La giornata lavorativa era limitata soltanto dal completo sfinimento delle loro forze, e durava quattordici, sedici e anche diciotto ore. I capireparto, il cui salario dipendenva dal lavoro eseguito nei settori che dirigevano, non permettevano momenti di pausa. Nella maggior parte delle fabbriche, dei quaranta minuti concessi per il principale o meglio l'unico pasto, venti circa erano dedicati alla pulitura delle macchine. Il lavoro continuava ininterrotamente giorno e notte. In questo caso venivano formati dei gruppi che si davano il cambio: "i letti on si freddavano mai". Gli infortuni erano molto frequenti soprattutto al termine delle giornate più dure, quando i bambini, stremati, si addormentavano sul lavoro: le dita strappate, le membra maciullate dagli ingranaggi non si contavano più". (Paul Mantoux, "La rivoluzione industriale", Einaudi, Torino, 1971).
La fabbrica costringe il lavoratore a mantenere un rapporto costante soltanto con la macchina in una catena di atti sempre uguali, dove risulta impossibile un qualsiasi movimento di vita di relazione. La particolarità del lavoro, è vero, aumenta la specializzazione dell'operaio, ma è anche vero che lo estranea dal contesto sociale in cui egli opera, impedendogli il godimento di una vita vissuta con gioia: "In ogni società progredita e civile questa è la condizione nella quale non può che necessariamente cadere il povero lavoratore, e allora la maggior parte del popolo, se il governo non si dia la pena di impedirlo." (Adam Smith, "Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni" Milano, Isedi, 1973).
Questa drammatica complessità del mondo moderno della produzione è colta pure da Hegel: "Il decadere di una grande massa al di sotto della misura d'un certo modo di sussistenza, il quale si regola da se stesso come il modo necessario, per un membro della società, e con ciò il decadere alla perdita del sentimento del diritto, della rettitudine e dell'onore di sussistere mediante propria attività e lavoro, genera la produzione della plebe, produzione che in pari tempo porta con sè d'altro lato una maggiore facilità di concentrare in poche mani ricchezze sproporzionate," (Hegel, "Lineamneti di filosofia del diritto" Laterza, Bari 1991). Hegel si rende conto che il mondo della produzione non è sempre il mondo dell'armonia e del benessere e avverte che la classe legata al lavoro è quella che più subisce il contraccolpo di azioni estranee, lontane e incontrollabili e perciò proiettata alla miseria più grave. La povertà è causa di irrequietezza e, quindi, produttrice di odio e di ribellione. Hegel avverte, dunque, la contraddizione e i pericoli che l'eccessiva ricchezza e povertà producono all'interno della società civile senza, tuttavia, trovare una via d'uscita: "Vien qui in evidenza che malgrado l'eccesso della ricchezza la società civile non è ricca abbastanza, cioè nelle risorse ad essa peculiari non possiede abbastanza per ovviare all'eccesso della povertà e alla produzione della plebe." (Ibidem,§ 245). Hegel percepisce, altresì, che "la dipendenza di grandi rami dell'industria da circostanze estere e contaminazioni remote, che gli individui...non possono abbracciare nella loro connessione, rende necessaria una previdenza e guida generale" (Ibidem, § 236).
Di fronte all'accumularsi di una enorme ricchezza nelle mani di pochi e il manifestarsi di una povertà estrema che, per varie cause, non è possibile ricomporsi nella naturale dialettica della società civile, i due filosofi che più di ogni altro hanno teorizzato il liberismo economico, avvertono con grande onestà intellettuale la necessità di un intervento dello Stato (la Polizei in Heghel) qualora le contraddizioni del sistema portano all'estrema consuguenza dell'odio e della ribellione. Si dia da fare lo Stato, allora, con interventi pubblici, dall'illuminazione delle strade, agli ospedali, alle scuole "l'autorità generale prenda su di sè il posto della famiglia presso i poveri" (Ibidem, § 241)
Dalla rivoluzione industriale alla Rivoluzione informatica passano tre secoli e anche se la situazione odierna, per quanto riguarda la condizione di grandi masse popolari, non è per nulla paragonabile a quella descritta da Paul Manteaux, non c'è dubbio che un clima di grande incertezza e preoccupazione pervade l'Europa, centro e crogiolo di avvenimenti che, nel bene e nel male, hanno segnato i destini del mondo.
Oggi in Europa ci sono 36 milioni di disoccupati, in Italia la disoccupazione raggiunge il 12% della popolazione attiva e supera il 20% nel Mezzogiorno. Il 3% della disoccupazione è disoccupazione strutturale, il restante 9%, depurato dalla disoccupazione endemica da sottosviluppo, è la conseguenza del progresso tecnologico e della rapidità con cui l'innovazione pervade le strutture produttive che crea un forte tasso di produttività accompagnata da alti livelli di disoccupazione. Il fenomeno non è affatto nuovo se Keynes nel 1932 poteva affermare: "...siamo colpiti da una nuova malattia, di cui alcuni lettori possono non conoscere ancorail nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: la disoccupazione tecnologica. Ciò significa che la disoccupazione dovuta agli strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo sempre più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera." (AA.VV. "Disoccupazione di fine secolo", Bollati Boringhieri, Torino, 1997). L'avvento della tecnologia informatica e la rapidità delle innovazioni accompagnate da misure di ordine organizzativo e gestionali, hanno prodotto un fenomeno del tutto nuovo: la crescita dello sviluppo senza occupazione. La fine del lavoro è il titolo del libro di Jeremy Rifkin (Baldini e Castoldi, 1995, Milano) nel quale il leader dei verdi americani si spinge a sostenere che il lavoro finisce e non ritorna, come gli alberi della foresta brasiliana, una volta tagliati non crescono più.
Ma questa prospettiva appare per il momento lontana e la situazione è ben altra, visto che per per effetto della globalizzazione si assiste ad una crescita del lavoro in tutto il mondo tranne che in Europa, dove i vincoli sul piano sociale, contrattuale, legislativo, costituiscono dei limiti allo sviluppo capitalistico rispetto a Paesi ove la crescita del sistema capitalistico avviene sulla base di un modello senza regole e senza vincoli. Risulta allora evidente la contraddizione tra uno sviluppo compatibile con le scelte di civiltà acquisite in anni di lotte durissime e uno sviluppo caratterizzato dalla concorrenza, dall'assenza di regole, di condizioni e di garanzie che costituisce il modello a cui tende il "pensiero unico" dei grandi circoli finanziari mondiali.
Si ricostituiscono così quelle condizioni originarie dello sviluppo capitalistico caratterizzato dalla concentrazione di grandi ricchezze nelle mani di poche persone a fronte di una crescente massa di cittadini condannati al non-lavoro. I rimedi proposti rimangono comunque quelli della liberazione del mercato del lavoro dalla "rigidità" imposta dai numerosi vincoli di tipo normativo e contrattuale, il ricorso ad una maggiore flessibilità del  mercato del lavoro, che significa più libertà per le imprese di potere licenziare e disporre della manodopera secondo le proprie esigenze, senza che esista la pur minima garanzia di un aumento dell'occupazione. Ciò dimostra, dopo secoli di discussioni, che il mercato non è in grado da solo di risolvere la contraddizione tra soddisfazione dei bisogni fondamentali dell'uomo e disoccupazione. Ma questo era stato pure il dilemma non risolto di Smith ed Hegel, che pure erano tra i più qualificati sostenitori del libero mercato.