domenica 16 dicembre 2012

Scuola, l'okkupazione che vorrei


Se le nostre scuole fossero permanentemente “occupate” dagli studenti forse si potrebbe scrivere un capitolo nuovo nella storia della scuola italiana. Certo non mi riferisco alle “okkupazioni” di cui si parla in questi giorni, cioè momenti di espressione della protesta e del disagio che in questo momento vivono milioni di giovani, di genitori, di famiglie. Penso, piuttosto, ad una scuola come ad uno spazio fisico da vivere sempre, uno spazio senza tempo, senza campanelle, uno spazio da condividere con tutti, con i  propri compagni, con gli insegnanti, i propri amici, la propria famiglia. Uno spazio da vivere come un’estensione della sfera affettiva familiare proiettata verso la società, dove potere sperimentare la dimensione della propria crescita senza i traumi del taglio netto del cordone ombelicale che lega i giovani alla famiglia, alla scuola, alla società, al lavoro. La scuola, cioè, come luogo di felicità e non come luogo di espiazione, di ansia, di frustrazione o, come a volte accade, di isolamento e solitudine, come luogo dove sperimentare percorsi di solidarietà e di condivisione, necessari in una società pervasa dall’ideologia del merito e della competizione. La mia personale storia scolastica credo che sia paragonabile a quella che ha sperimentato la gran parte delle persone della mia età, ma io ho avuto la fortuna di frequentare la scuola di “donna Pippinedda”, una sorta di scuola materna “ante litteram” che una coppia senza figli decise di istituire a casa propria, probabilmente per soddisfare l’istinto materno represso di una donna straordinaria che non poteva avere figli. Quella di donna Pippinedda era una scuola senza regole particolari, dove non si pagava alcuna retta, dove non c’erano programmi ministeriali, c’era soltanto lo spirito creativo e l’amore, grande, di Pippinedda per i bambini. In quella scuola non vigeva la regola che i bambini dovessero restare separati dalle bambine, per cui tutti potevano sperimentare il gioco in comune senza alcuna malizia o pregiudizio, non c’erano orari da rispettare per cui le famiglie erano libere di riprendere i figli in qualunque momento senza l’obbligo di rendere alcuna giustificazione, e ciascuno poteva verificare autonomamente il livello di beneficio che traevano i bambini frequentando quella scuola così insolita. Tra i  giochi che ricordo con immagini mentali vivide e per nulla offuscate dal tempo c’è quello che consisteva nell’aiutare Pippinedda, da tutti chiamata zia Pippina, a “fabbricare il pane”. Non era una cosa semplice, eppure Pippina riusciva a coinvolgere tutti affidando a ciascuno un compito particolare, che cambiava ogni qualvolta il gioco si ripeteva, per cui c’era chi aiutava a “scaniare” l’impasto della farina con l’acqua, il lievito e il sale sulla “sbrivola”; chi con pezzetti di pasta “scaniata” formava i “pupiddi”, chi, infine, porgeva il pane lievitato per essere cotto nel forno, precedentemente riscaldato con piccoli tronchi di legno e “magghiola”. Poi, quando finiva il lavoro “duro”, Pippina ci riuniva in cerchio e, dopo una rapida distribuzione di piccole formelle di marmellata di cotogne, cominciava a raccontare “i cunti”, un garbuglio di personaggi e di fatti capace di risvegliare qualunque sentimento ed espressione, dalle risate a  squarciagola fino alle lacrime e ai singhiozzi, fino a mezzogiorno quando Pippina ci lasciava  liberi di giocare per preparare la minestra per tutti. Mi ricordo che la mattina mi alzavo prestissimo, preso dall’ansia di andare a “scuola”, ma prima passavo a prendere la mia compagnetta preferita, Olga, che abitava dirimpetto la mia casa; la tenevo stretta per mano e mi sentivo responsabile della sua incolumità. Ero felice di andare a “scuola” e le giornate, anche quelle calde d’estate, correvano veloci; quella “scuola” era il luogo non solo della nostra crescita, era soprattutto il luogo della relazione, dell’empatia tra di noi e tra ciascuno di noi e la “maestra”, l’amore di Pippina si respirava nell’aria. Quando arrivò il primo giorno della prima elementare, in classe mi ritrovai con un altro bambino proveniente dalla “scuola” di Pippinedda, fu una gioia indicibile, eravamo gli unici felici mentre tutti piangevano e si attaccavano alle gonne delle madri; da quel giorno, per noi, la scuola divenne un’altra storia. Da allora ho sognato la scuola come un luogo aperto, dove potere interagire, sperimentare,  collaborare con gli insegnanti, da vivere sempre, da eleggere come luogo in cui sperimentare la libertà e la responsabilità, dove coniugare impegno e svago, dove potere utilizzare tutti gli strumenti secondo una logica di bisogni individuali entro una prospettiva di crescita comune e solidale, dove potere liberamente tracciare i confini delle proprie naturali vocazioni senza subire il pregiudizio e la fatale predeterminazione del proprio futuro. Oggi gli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione ci consentirebbero di costruire una scuola diversa, non che quella di prima fosse necessariamente sbagliata, ma oggi occorre una scuola per i tempi che viviamo, occorrono dei “luoghi” ove ai giovani sia data la possibilità di sperimentare il proprio percorso di emancipazione dalla famiglia per “migrare” verso una società che è in fase di cambiamento e dove non è assicurata nessuna certezza circa la propria futura collocazione se non in rapporto alle esperienze e ai vissuti che ciascuno potrà realizzare in questi nuovi “luoghi della conoscenza”, aperti alla contaminazione con il territorio, pronti a “incubare” pure necessità e bisogni espressi dalla società, dall’economia, dall’ambiente. Gli insegnanti sono pronti, sono pure loro figli di quest’epoca e ne sono interpreti, ma va ripensato fino in fondo il loro stato giuridico e la loro centralità nel contesto di una società il cui processo di cambiamento, incentrandosi sulla conoscenza, rende fondamentale la figura dell’insegnante per l’avvenire di ogni paese. Giovani ed insegnanti, pertanto, entrano da protagonisti in qualunque ipotesi di riforma, perché prima che di risorse economiche, ancora prima di una qualunque “spending review”, occorre stabilire che tipo di società vogliamo costruire, a quali bisogni occorre dare risposte, definire le priorità, chi e come deve farsi carico dei processi di riorganizzazione amministrativa e didattica, a quali valori si dovrà fare riferimento, soltanto dopo, e non prima, potrebbe essere necessario mettere mano ai “cordoni della borsa”, e chissà che pure si potrebbe risparmiare qualcosa.

venerdì 14 dicembre 2012

Accattoni d'Italia!


Ma che Paese è l’Italia raccontata sui giornali  e sui media di tutto il mondo! Me lo chiedo da più giorni perché le cronache non finiscono mai di stupire. Oggi ho appreso del lager siciliano dove la mafia usava cremare i cadaveri dei propri nemici,  nello stesso forno dove cuocevano il pane che vendevano ad ignari clienti. Ma che persone sono queste? Peggio delle bestie feroci, incapaci di sentimenti, vivono in un completo stato di animalità o, forse, peggio, perché gli animali esprimono pure sentimenti di affezione e di solidarietà. Ma come possiamo ancora tollerare tutto ciò nella più assoluta indifferenza, notizie che ci scivolano addosso come  pioggia  a lavare i nostri sensi di colpa!

Berlusconi ritorna e l’Europa vive un sussulto. Ancora lui, le sue storie, i suoi affari, i suoi intrighi, i suoi amorazzi, mentre il Paese precipita nella povertà, nell’arretratezza culturale e civile, nella corruzione e nella dissolutezza dei comportamenti della sua classe dirigente. Al Sud come al Nord, la corruzione dilaga e non c’è freno che possa arginare il fenomeno, interi parlamenti regionali sotto la lente dei magistrati per reati miserabili, per accattonaggio, perché non può definirsi diversamente la pratica di giocare ai video-games, di comprare il cappuccino con i soldi dello Stato! E’ il risultato di quella promessa rivoluzione liberale annunciata in parlamento con tanto di spargimento di spumante e mortadella:  liberi di fare, liberi di rubare!

La trasmissione Report affonda il bisturi nella piaga della formazione professionale siciliana, ne emerge un sistema di intrallazzi, di compiacenze, una parentopoli che ingloba un indegno sistema di relazioni che costa ai siciliani 500 milioni di euro l’anno senza produrre nulla. E il deputato, compiaciuto,esclama: “Siamo presenti nel settore perché facciamo politica. Creiamo una rete di attività che permette di creare una rete di consenso. È normale”. Vergogna! Certo, forse è normale in un Paese sottosviluppato, non in una Regione dove il Presidente ha promesso la rivoluzione della dignità. Ma la rivoluzione è il presupposto di un mutamento radicale che comporta la rottura di un modello precedente e il sorgere di un nuovo modello, ivi comprese le classi dirigenti, altrimenti è solo miseria culturale e morte civile.

martedì 4 dicembre 2012

Bersani, le favole,la sinistra e i disconnessi virtuali


Bersani ha vinto le primarie del centrosinistra. Credo che si tratta di un risultato importante per il centrosinistra e per l’Italia. Adesso il Paese ha un sicuro punto di riferimento, in altri tempi si sarebbe detto dell’immaginazione al potere, nel nostro caso che la serietà ha avuto la possibilità di imporsi su una politica imbastita di effimere parole d’ordine (che brutta parola la rottamazione!) e di incomprensibili propositi. Il significato della vittoria di Bersani è tutto racchiuso nelle uniche parole con contenuto di senso che ha proferito nel suo discorso di ringraziamento: “Io non vi racconterò favole”. Ecco, queste parole segnano il dopo del berlusconismo, un’era, cioè, caratterizzata dalle favole, che ha estraniato il Paese dai processi complessi che hanno caratterizzato il mondo, lasciando che la borghesia italiana, quella dell’italietta di sempre, continuasse a pensare  che  non fosse successo nulla, che nulla potesse intaccare i propri privilegi, esattamente come i nobili dell’ancien regime che continuavano a mangiare broche mentre il popolo moriva affamato. Per ciò mi sono chiesto a chi Bersani non dovrà raccontare le favole. Sicuramente non ai ceti produttivi, operai, artigiani, piccoli imprenditori, insegnanti, impiegati, pensionati, gente, cioè, che alle favole non crede più da tempo, che pensa proprio che non è più tempo di favole, oggi, che la crisi si è abbattuta solo ed esclusivamente sulle loro spalle. Né hanno bisogno di sentire favole le giovani generazioni, quelli che oggi hanno quarant’anni e che sono cresciuti nutriti dalle favole e dalle balle di Berlusconi. Quella di Bersani, allora, è la fine delle favole per tutti, per i furbi che continuano a godere dei servizi dello Stato senza pagare le tasse, per coloro che al merito  hanno preferito la raccomandazione, ai partiti che hanno occupato lo Stato pensando di essere essi stessi la democrazia, alle imprese che hanno pensato di sfruttare il territorio contro ogni logica di tutela e di salvaguardia degli equilibri naturali, quelli che pensano “consumo, ergo sum” credendo che le risorse siano inesauribili. Bersani sa pure che la favola della “mano invisibile” che regola il mercato e accontenta tutti, riesumata da Reagan e dalla Thatcher verso la fine del secolo scorso, non regge di fronte alle sfide della globalizzazione. Sa pure che il liberismo ha fatto il suo tempo, che capitalismo e comunismo, come si sono sviluppati nel secolo breve, hanno esaurito tutto il loro potenziale entro l’esperienza industrialista, che oggi occorre con coraggio percorrere nuove vie non solo per rispondere alle sfide della globalizzazione, ma per fronteggiare l’emergenza ambientale e l’esaurimento delle risorse naturali, dal petrolio all’acqua. I giornali ogni giorno ci raccontano di fabbriche che chiudono, di disoccupazione in costante aumento, di giovani che interrompono gli studi, di persone “per bene” che affollano nelle grandi città le mense della caritas. Proprio oggi a Genova, dove mi trovo per motivi familiari, una persona di buon aspetto, sicuramente non un barbone, mi ha fermato chiedendomi con educazione: “Signore, per favore, può darmi un euro, non mangio da giorni”. Ho sentito forte una commozione come non l’ho mai provata. Su Repubblica oggi ho letto che nel mezzogiorno d’Italia oltre trecentomila ragazzi sotto i 18 anni non si sono mai connessi ad internet, non hanno mai visto un cinema, non hanno mai letto un libro. Li chiamano i “disconnessi virtuali”, sono i nuovi poveri che si aggiungono ai “poveri vergognosi” come si chiamavano nel medioevo i nobili decaduti allo stato di povertà. Gli italiani hanno saputo esprimere il meglio delle proprie capacità nei momenti più drammatici, per questo motivo “l’hortus conclusus” del centro sinistra costituisce un limite forte per un’operazione politica di grande respiro, quando è più logico pensare ad un Patto per l’Italia capace di portare il Paese oltre il berlusconismo, oltre l’idea tutta provinciale e autarchica dell’italietta che riesce a risolvere da sola tutti i propri problemi con la speranza di rimanere fortificati ciascuno entro il proprio recinto fatto di effimere certezze. Per questo motivo Bersani è il politico che meglio di chiunque altro interpreta i segni del tempo che viviamo, per la sue caratteristiche, il suo modo lento, di mediare, mettere insieme, convincere, essere, insomma, inclusivo nel momento in cui c’è bisogno di gioco di squadra, qualcosa di più di un  personale protagonismo senza speranze. Lui che dice di non raccontare favole sa bene che, continuando di questo passo,  lor signori  rischiano di perdere la brioche e pure la testa.

sabato 10 novembre 2012

Tutti pazzi per Obama


Una lacrima sul viso, quella del presidente degli Stati Uniti Barak Obama,  ha fatto il giro dei giornali e delle televisioni di tutto il mondo. Debbo essere sincero, questa lacrima è la cosa che mi ha colpito di più di queste lunghe e appassionanti elezioni americane. Perché un uomo che piange, in una società ancora così sessista e arcaicamente tradizionale, costituisce veramente un segno dei tempi, è una rivoluzione. In altre epoche, non tanto remote, si sarebbero mobilitati i servizi segreti per impedire al pubblico di vedere l’immagine di un capo che piange e, probabilmente, l’opposizione, e non solo, ne avrebbe chiesto l’ impeachment per eccesso di debolezza d’animo! Invero, questa lacrima testimonia tutta la forza di Obama, un uomo che riesce ad emozionarsi nell’esprimere il proprio riconoscimento a tutte quelle ragazze e a quei ragazzi volontari che avevano seguito con grande spirito di sacrificio un intero anno di campagna elettorale, testimoniando in questo modo di essere un uomo capace di sentimenti, di umiltà, di condivisione. E, in fondo, è questo che i cittadini vorrebbero dai propri politici, e forse è più importante dei risultati che un politico può realisticamente conseguire. Mi hai detto che ci avresti provato, ci hai provato ma non ci sei riuscito, però mi hai detto la verità, e questo mi basta. Per questo motivo la gente d’America si è mobilitata, quell’America che qualche decennio fa, nei manuali di scienza della politica, veniva ricordata per la disassuefazione al voto, mentre oggi fa la fila per votare Obama. E Barak si emoziona quando parla della sua gente e dimostra di credere fino in fondo alle cose che dice e promette. Al giornalista che lo intervista qualche ora dopo il suo primo discorso da vincitore che gli chiede quali sono le priorità del suo secondo mandato, Obama risponde categorico e senza incertezze: “La scuola e job,job,job – lavoro,lavoro,lavoro!”. Nient’altro è così urgente e fondamentale del suo programma di governo se non come trovare i mezzi per realizzare questi suoi propositi:”Sarà necessario che i ricchi come me paghino più tasse per consentire ai meno abbienti di accedere a quegli strumenti che costituiscono i presupposti della libertà, del sogno americano”. Questi strumenti sono l’istruzione ed il lavoro, senza questi requisiti, nella società della conoscenza, non si va da nessuna parte e senza l’introduzione di seri principi di uguaglianza non si trovano le risorse per raggiungere lo scopo. Barak sa che in Parlamento non ha la maggioranza dei deputati e dei senatori per potere procedere sulla via di queste riforme fondamentali e apre all’opposizione:”Facciamo queste riforme insieme, sono aperto a nuove idee, altrimenti ci aspettano anni di grandi difficoltà”. Anche in questo caso il Presidente testimonia un grande senso di realismo, ma anche di fermezza: “Altrimenti le detrazioni fiscali di cui godono i ricchi dovranno essere soppresse”. Si riferisce, in questo caso, al grande regalo concesso da Bush alle classi americane più ricche che usufruiscono ancora di notevoli benefici fiscali, probabile causa della grande depressione economica che sta attraversando l’America. Certo è che con Obama è stato introdotto in America il concetto di Socialismo dei ricchi, una cosa assurda per i grandi teorici del liberismo economico, cioè promuovere grandi investimenti statali per salvare le grandi banche e le grandi imprese  dal fallimento, ma ciò, se non altro, ha dimostrato che la politica serve proprio a questo: rendere possibile ciò che la teoria ritiene impraticabile. Però a differenza di ciò che accade in Italia, Obama da un lato ha concesso gli aiuti alle imprese, come una boccata di ossigeno, ma dall’altro canto ha preteso che i soldi dello Stato fossero restituiti. E ciò lo sa bene il nostro Marchionne che ne è stato un beneficiario per la ristrutturazione della Chrysler, soltanto che con Obama fa l’amerikano, mentre con Monti vuole fare l’indiano come quanto prometteva venti miliardi di investimenti in Italia magari dietro inconfessabili contropartite. Insomma, Obama sarà pure un ricco capitalista, ma certamente è un uomo che ha compreso appieno il suo tempo, che sa interpretare i bisogni di una società in trasformazione e che deve tracciare un nuovo orizzonte per quello che per lunghi anni è stato il sogno americano. Lo fa con sincerità, con garbo, con sentimento, con onestà e anche con molta autorevolezza. Forse sono questi i motivi per cui in Italia tutti sono pazzi per Obama.

mercoledì 31 ottobre 2012

Le sfide di Crocetta tra ipotesi di sviluppo e timori di immobilismo

Le elezioni regionali del 28 ottobre scorso consegnano ai siciliani un risultato di grande sconvolgimento del panorama sociale e politico dell’isola. L’elezione di Rosario Crocetta costituisce senza alcun dubbio una rottura significativa con una prassi consolidata che ha visto susseguirsi alla Presidenza della Regione, tranne qualche eccezione,  personaggi del blocco di potere dominante, cioè il blocco affaristico-mafioso-clientelare. L’irrompere sulla scena politica siciliana di quello che, a ragione, è stato definito il ciclone Grillo, costituisce, altresì, un altro elemento di rottura rispetto all’atteggiamento, spesso corresponsabile, che larga parte del popolo siciliano ha conservato nei confronti della propria classe dirigente. Parlare di una presa di coscienza popolare del declino di una Regione, che della propria autonomia ha fatto una fiera prerogativa, e dell’esigenza di avviare una nuova fase di riscatto e di libertà, è ancora troppo presto, ma non c’è alcun dubbio che queste elezioni hanno creato uno spartiacque tra il prima e il dopo di questa stagione elettorale. La presenza di Grillo, sottovalutata fino alla vigilia da tutte le forze politiche in campo, ha sparigliato le carte della politica siciliana e reso definitivamente  impraticabile quel nuovo connubio che fino a pochi mesi prima aveva caratterizzato il nuovo blocco di potere tra  MPA-PD-UDC, anche se durante la campagna elettorale molti dei protagonisti si sono affannati a riproporlo come possibile rimedio rispetto alla palesata impossibilità, rilevata attraverso i sondaggi, di dare vita ad una maggioranza organica di governo, giusto sull’esempio delle larghe intese che sostengono il governo Monti. Malgrado, però, queste novità e questi stravolgimenti, le elezioni non hanno sciolto tutti i nodi lasciati in eredità dal precedente governo Lombardo, per l’impossibilità di costituire un governo al quale affiancare una organica maggioranza parlamentare. Anzi, ad un’attenta lettura dei risultati, la composizione dei seggi in larga parte rappresenta proprio il vecchio blocco di potere, anche se in qualche caso rinnovato negli uomini ma non certo nella volontà di favorire il rinnovamento delle istituzioni. Crocetta, dunque, dovrà muoversi necessariamente al di fuori degli schemi classici e formare un governo capace di raccogliere consenso innanzitutto fuori dall’istituzione, nell’opinione pubblica, per condizionare l’assemblea regionale e puntare su una forma di trasversalità capace di privilegiare cambiamento e innovazione a discapito della fame di potere dei partiti e dei loro interessi clientelari e mal affaristici. Un governo, perciò, di competenti, di persone oneste e senza “storie” di cui vergognarsi, non necessariamente di appartenenza, privi di vincoli verso consorterie e massonerie di vario genere. Lo vuole il popolo siciliano, ma è anche una necessità dovuta alla contingenza di una Regione che si trova sull’orlo di un baratro economico, una Regione alla quale non solo manca l’autorevolezza di una classe dirigente all’altezza della situazione, ma che si trova anche priva di un progetto di futuro. La recente campagna elettorale è stata caratterizzata da troppi slogans e da pochi proponimenti, dall’assenza di idee credibili e spendibili, dalla mancanza di autorevolezza senza la quale qualunque progetto resta solo un buon proposito senza quella spinta motivazionale capace di conquistare il cuore di un popolo sofferente. Con lo zainetto sulle spalle, dalle nostre parti si può andare solo a raccogliere “babbaluci”, non basta l’audacia di un rottamatore, l’arroganza giovanilistica e inconcludente a mobilitare le masse. A chi rimprovera i cittadini di non essere stati lungimiranti per avere disertato le urne facendo, così, perdere l’opportunità di eleggere un deputato locale, occorre rinfacciare come il familismo amorale, fenomeno di cui si sono occupati autorevoli studiosi come Alberto Alesina e Andrea Ichino, trova indulgenza soltanto in quelle plaghe sottosviluppate economicamente e culturalmente, non certo nell’area iblea, dove, fortunatamente, alligna la fierezza di quelle genti che hanno saputo determinare il proprio destino grazie alle proprie capacità, all’intelligenza e all’ansia di libertà che le ha animate.  Sono le scelte da intraprendere che  caratterizzerà il nuovo governo della Regione Sicilia, ed i tagli non possono che essere un corollario necessario e irrinunciabile dell’azione di Governo, perché solo dai tagli possono arrivare le risorse per pagare il debito e rilanciare lo sviluppo. Non è più, dunque, rinviabile il nodo della  Formazione Professionale, per la quale la Regione spende oltre 500 milioni di euro l’anno per mantenere un apparato clientelare di nessuna utilità per i disoccupati; il nodo della forestazione, altro carrozzone clientelare svicolato da qualunque ipotesi di sviluppo produttivo del territorio; il pesante carrozzone burocratico della Regione dove maggiormente si alligna l’intreccio clientelare-affaristico-mafioso; la sanità sulla quale pesano interessi trasversali di casta che alimentano la spesa senza contropartite in termini di efficienza ed efficacia dei servizi resi ai cittadini; i fondi europei, bloccati da interessi clientelari e mafiosi, utilizzati finora in minima parte e solo per favorire un dilagante malcostume dal quale nessuna istituzione, anche la scuola, risulta ormai estranea. Da questi comparti, oltre che da un rinnovato rapporto tra Stato e Regione, possono venire le risorse da destinare ai territori e ai ceti produttivi per rilanciare l’economia. Ma qui è necessario allontanare i centri di spesa dalla Regione. Occorre una riforma dell’istituzione  regionale che la privi da qualunque attività di gestione, se non per quelle altamente qualificate (quali grandi  infrastrutture, gestione delle calamità naturali ecc.), per dare più risorse, più mezzi, più autonomia ai territori, riservando ad essa compiti legislativi e di controllo. La ridefinizione delle provincie può essere l’occasione per fare scelte coraggiose e innovative in direzione del decentramento, basterebbero tre o quattro macro aree su cui disegnare il nuovo assetto amministrativo cui far corrispondere altrettanti progetti di sviluppo in sintonia con le vocazioni territoriali, senza attardarsi su inutili quanto stereotipate posizioni di retroguardia a difesa dell’assetto istituzionali esistente. Dieci proposte di legge per cambiare la Sicilia che il nuovo governo dovrebbe sottoporre all’Assemblea Regionale entro i primi cento giorni, oppure il ritorno alle elezioni.  Su un’ipotesi del genere si scommette il futuro della Sicilia per evitare la più gattopardesca delle soluzioni: l'inciucio. Crocetta, rivoluzionario bon grè mal grè .

      



                            
                                


mercoledì 17 ottobre 2012

Dopo lo "sbarco" di Grillo la Sicilia potrebbe non essere più la stessa


Dopo lo “sbarco” di Grillo, le elezioni in Sicilia sembrano non avere più storia. Su un aspetto della campagna elettorale sembra oramai acquisito un fatto: Grillo conquista le piazze. Mai vista tanta gente dai tempi in cui arrivavano i big nazionali come Berlinguer, Moro e tanti altri. Qualcuno dice che la gente è attratta dal Grillo comico, dallo spettacolo. Ma tanto si sa, quando la volpe non arriva all’uva dice che è acerba. La verità è ben più tragica, ed è chiaro che nell’epoca in cui i partiti come organizzazioni sono letteralmente spariti dalla scena e tanti piccoli scilipoti devono confrontarsi sul terreno della comunicazione, allora veramente non c’è più storia, chi lo frega Grillo che è un guru della comunicazione, chi può vincerlo sul terreno che gli è proprio? Non sappiamo cos’altro si inventerà prima della conclusione della campagna elettorale, ma lo “sbarco” in Sicilia attraversando lo Stretto di Messina a nuoto è stata una trovata geniale. Ci stanno tutte le proprietà per la costruzione di un evento capace di tramutarsi in mito. Preparato con l’annuncio attraverso la stampa, ha creato curiosità ed attesa, ha scommesso sul coraggio e sulla forza. Si è preparato bene per recitare la parte dell’eroe in quest’arena dove parecchi sono i cavalieri che competono con le spade spuntate per le loro qualità di onorevoli falliti o di outsider buttati lì dai pupari più furbi, quelli che capiscono che non è aria che tira e che è meglio aspettare momenti migliori. D’altronde non sono stati i dirigenti dei partiti a scommettere sul carisma, sul personalismo al posto del collettivo? Mi ricordo ancora, tanto tempo fa, quando i comunisti e i democristiani affiggevano i manifesti con i loro simboli, la falce e il martello o lo scudo crociato, evitando di esporre facce ammiccanti e spesso anche stucchevoli, tempi in cui si andava porta a porta a parlare con la gente. Oggi, a causa di un’errata interpretazione della modernità, nel simbolo si trovano i nomi dei leader, con il risultato che trombato il leader non resta nemmeno il partito. Quasi tutti hanno voluto puntare sulla forza del proprio carisma personale, costruito a colpi di frasi ad effetto, sulla propria capacità di “bucare il video”, a discapito dei programmi e del buon governo. Ma se tutto ciò può andare bene per chi si presenta ingenuamente per la prima volta al cospetto dell’elettorato, altrettanto non si può certo dire per chi ha governato per venti anni. E’ emblematico il video che mostra il candidato Presidente Miccichè che parla in una piazza quasi deserta davanti ad uno striscione sorretto da un gruppetto di ragazzi su cui campeggia la scritta:”17 anni con Lombardo, Berlusconi, Cuffaro, Dell’Utri , Miccichè togliti dalle liste elettorali!”. Qui non è più sufficiente la seduzione del tribuno bello ed intelligente, la gente vuole resoconti, fatti e non più parole…parole…parole. La costruzione mediatica del dirigente non funziona più,  su questo terreno vince Grillo perché è il suo mestiere. La gente chiede partecipazione, confronto delle idee, costruzione di un progetto e certamente Grillo non è tutto questo. Grillo fa il suo mestiere di comico, dice alla gente ciò che la gente vuole sentire. La gente sa che i politici rubano e vuole qualcuno che glielo dice e glielo canta. I discorsi di Grillo rafforzano il sentimento popolare e amplificano l’antipolitica. Fanno male i politici a sottovalutare Grillo liquidandolo come un abominevole pifferaio magico. In Sicilia la sconfitta della politica potrebbe rafforzare il sistema clientelare-mafioso che potrebbe avere più presa su un’assemblea regionale composta prevalentemente da personaggi inquinati e da persone inesperte. Ma la campagna elettorale continua nell’assenza assoluta di confronto, in piazze deserte e nella continua recita di monologhi così omolagati che sembrano costruiti in serie dalla moderna fabbrica elettorale. Manca una visione realistica della Sicilia di domani, manca il coraggio dell’autocritica, mancano le idee, un progetto a cui legare le ansie e le aspettative dei giovani, manca la capacità di rigenerare fiducia. E poi c'è un deficit di competenze necessarie per affrontare seriamente il nodo della riforma della Regione, presupposto utile ed inderogabile per la sua rinascita morale e civile, senza la quale è impossibile parlare di sviluppo. Così, mentre i cittadini continuano con sacrificio e timore ad affrontare le loro giornate pervase ed aggravate dai problemi di sempre, continuano gli eventi inventati da Grillo tra gli applausi e gli entusiasmi di quel popolo che, ancora una volta resta sedotto, come scriveva Antonio Gramsci nei Quaderni:”… «dall’ammirazione ingenua e fanatica per l’intelligenza come tale, per l’uomo intelligente come tale… forse unica forma di sciovinismo popolare in Italia”. Alla fine, com’è successo per l’altro “sbarco” più famoso, molti chiederanno di dedicargli una strada o  costruirgli un monumento, magari senza sapere perché.

martedì 16 ottobre 2012

Risolto il caso della piccola disabile privata dell’assistenza, ma chi paga per l’incuria?


Ho letto oggi sul giornale “La Sicilia” che l’Assessore Giovanni Caruano ha chiesto scusa alle famiglie per i ritardi con cui il Comune di Vittoria ha provveduto ad assegnare il personale alle scuole per occuparsi dei bambini disabili. Ho colto in questo gesto un segno di civiltà e di educazione che è difficile trovare in questo deserto che è diventato la politica nel nostro territorio. Ma mi sono chiesto anche, come credo se lo chiedano tanti altri cittadini, chi paga per questo ritardo che non trova nessuna giustificazione? In questo caso non si possono addurre scuse banali o di semplice circostanza, non si possono invocare i soliti ritardi nei trasferimenti della regione, delle risorse sottratte agli Enti Locali dal Governo Monti, quando poi si assiste, malgrado i continui piagnistei e mugugni, all’assunzione di esperti per i quali possono esprimersi solo seri e fondati giudizi di inopportunità. Anzi, in questa circostanza sono stati addotti motivi legati ai tempi tecnici necessari per l’espletamento della gara, ma allora viene da chiedersi perché non si è provveduto in tempo utile? Perché per fare una disinfestazione bisogna aspettare sempre l’arrivo inoltrato dell’estate, per pulire le spiagge  aspettare il mese di agosto? Perché i servizi arrivano sempre alla fine, quando ormai non servono più? Mi chiedo allora, come se lo chiedono tanti cittadini, ma che fanno i dirigenti del Comune, come viene valutato il loro lavoro, ma, soprattutto, con quali criteri sono scelti dall’amministrazione e quali sono i provvedimenti adottati in caso di inefficienza o di  inadeguatezza rispetto al ruolo che svolgono? Sarebbe ora, che di fronte all’ennesimo ingiustificato ritardo che ha costretto una famiglia a rivolgersi ai carabinieri per avere riconosciuto un diritto sacrosanto, subendo l’umiliazione di finire pure sulle pagine dei giornali, ci fosse un provvedimento disciplinare, uno solo, per potere dimostrare, finalmente,  di esercitare utilmente l’incarico politico ricevuto dai cittadini. Una volta gli alti burocrati lamentavano il fatto che da loro ci si aspettavano i miracoli a fronte di stipendi miserabili, ma oggi ci sono dirigenti che costano alle casse comunali oltre centomila euro l’anno ed è giusto che vengano censurati quando dimostrano di non essere all’altezza della situazione.

giovedì 11 ottobre 2012

Noi, i ragazzi del ' 68.


E’ arrivato l’autunno, ma non perché cadono le foglie, perché scendono in piazza gli studenti. E’ un autunno diverso questo, con tutti i climi caldi, sul fronte della scuola, della politica, del lavoro, del tempo. La FLC della CGIL  prova a coniugare le rivendicazioni dei lavoratori con quelle degli studenti chiamandoli a partecipare alla giornata di mobilitazione del 12 ottobre, per denunciare quel disagio che colpisce, ormai, fasce molto estese della società italiana. Questa coniugazione di obiettivi, questo provare a lottare, questa denuncia condivisa di operai e studenti mi riporta alla memoria il primo autunno caldo, quello del 1969. Fu quello il periodo che seguiva la straordinaria stagione del ’68, un’epoca magica che investì tutto il mondo e che anticipò, con tutta la sua carica innovativa, gli avvenimenti più salienti del secolo scorso, dalla guerra in Vietnam fino alla caduta del muro di Berlino e all’implosione del sistema comunista. Ma anche in quella occasione, come oggi, i problemi del nostro Paese erano diversi rispetto al resto del mondo. Negli Stati Uniti d’America il ’68 si contrassegnò per l’avversione dei giovani alla guerra in Vietnam, mentre nelle università si avvertiva forte il bisogno di confrontarsi sui problemi dei diritti civili, così le istanze pacifiste si mescolavano con la forte insofferenza verso la guerra in una società in cui la popolazione di colore si raccoglieva e lottava attratta dal pensiero di Martin Luther King, il quale non si stancava di ripetere: "Riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali". L’America liberale, così, per la prima volta, si trovava ad affrontare la soluzione di un nodo cruciale e cioè se in una società libera e democratica potessero sussistere le gravi discriminazioni razziali e le pratiche segregazioniste che intellettuali e giovani studenti denunciavano apertamente, non più soltanto nelle scuole, ma in tutte le piazze d’America. In Italia, invece, i problemi che masse di giovani denunciavano per primi nelle scuole e nelle piazze di tutti i paesi, dal nord al sud, riguardavano non solo la condizione di una scuola pensata e vissuta ancora secondo i canoni di una legislazione e una prassi organizzativa risalente al ventennio fascista, ma soprattutto il profilo autoritario e dirigista che ancora caratterizzava i luoghi della connivenza civile, dalla famiglia alla scuola, dalle fabbriche alle campagne, perfino le articolazioni dello Stato. Fino ad allora si era pensato che, con la fine della seconda guerra mondiale, nel mondo si fosse aperta una pagina nuova nella storia dell’umanità, che i principi conquistati nel corso della rivoluzione francese, libertà uguaglianza fraternità, potessero finalmente essere accolti e praticati in tutti i paesi civili, che i milioni di caduti fossero il prezzo da pagare per dare, finalmente, all’umanità un futuro di pace e di libertà. Il periodo immediatamente successivo alla guerra fu in Italia, in effetti, un momento di grande risveglio civile e culturale, capace di segnare grandi conquiste popolari, come, per esempio, il suffragio universale, la Costituzione che, ancora oggi, rimane uno degli strumenti giuridici più efficaci e straordinari del mondo. Ma la guerra fredda, con tutti i suoi angoscianti postulati di paura e di morte, finì per spegnere quegli entusiasmi, e la società italiana ripiombò nell’immobilismo, così quel primo tentativo riformatore, avviato subito dopo la guerra, che avrebbe dovuto portare l’Italia ad allinearsi con gli altri paesi occidentali, cedette il passo ad un lungo periodo di stagnazione raffreddando il processo di cambiamento dello Stato, che pur dotato di una  Costituzione avanzata sotto il profilo civile e sociale, rimaneva, nelle sue forme organizzative, pressappoco ai livelli dello Statuto Albertino con qualche ritocco operato dal governo fascista che certamente non si era ispirato a principi di giustizia e di eguaglianza. Il movimento degli studenti del ’68 fu, così, l’alba di un generale risveglio della società italiana, all’inizio perfino poco compreso da gran parte della sinistra storica italiana. Fu una voglia di liberarsi da riti e  metodi che avevano caratterizzato una società chiusa e bigotta, dove una minoranza della popolazione, quella ricca e ben accreditata, poteva porre fine al matrimonio e perfino abortire, frequentare le scuole private, prepararsi a diventare classe dirigente apprendendo saperi e pratiche estranee alla scuola pubblica che, prevalentemente, era rimasta ancora, dopo sessant’anni, la scuola di Giovanni Gentile, una scuola ancora fascista nei principi  e nella prassi. Almeno, così appariva a me stesso, costretto a subire ogni mattina il sequestro del giornale quotidiano dove scrivevo da corrispondente, perché non era previsto il giornale in classe dai “programmi ministeriali”. Ecco il bisogno di essere alternativi e dissacranti, non violenti ma rivoluzionari, comunque portatori di istanze che andavano ben aldilà della mancanza di bidelli o di aule sovraffollate e prive di  riscaldamento. Un movimento, perciò, diverso dagli altri che nello stesso periodo si sviluppavano in Francia e Germania o negli Stati Uniti d’America, proprio perché in Italia toccavano aspetti essenziali della società e dello Stato, una condizione che ben si confaceva alla critica di Herbert Marcuse, all’epoca molto letto dagli studenti, secondo il quale le società industriali, ivi ricomprendendo anche quelle socialiste, erano inevitabilmente portatrici di una morale sostanzialmente repressiva, includendo nel proprio pensiero pessimista ciò che Adorno e Horkheimer avevano sostenuto circa il rapporto tra  sviluppo tecnologico ed emancipazione delle masse. Marcuse, per tornare ai giorni nostri, con la sua opera, che io ritengo fra i più importanti prodotti culturali del secolo scorso, “L’ uomo a una dimensione”, anticipava di molto ciò che oggi è di tutta evidenza riguardo al carattere fortemente repressivo della società industriale avanzata, una società capace soltanto di ridurre l’uomo alla semplice ed unica dimensione di consumatore, un uomo felice e stupido nello stesso tempo, che considera libertà quella di potere consumare tra prodotti diversi. E’ questa una condizione che il ventennio berlusconiano in Italia  ha reso molto più drammatica del resto del mondo, perché rafforzata negativamente dalla povertà culturale, dal malcostume e dall’incapacità delle classi dirigenti, cosa che oggi rende più difficile l’affermazione di un processo civile ed economico in sintonia con i Paesi più avanzati. Spetta ai giovani, ancora una volta, interpretare il mondo per cambiare in senso progressivo lo stato delle cose esistente, perché hanno la forza delle idee, la voglia del cambiamento, il diritto di essere protagonisti. La CGIL, promuovendo questa giornata, che è anche di incontro tra giovani e lavoratori, non ripete l’errore di quegli anni, quando gli studenti furono visti con tanto sospetto, recuperando, invece, tutta la potenzialità di quell’autunno “caldo” del 1969, allorché operai e studenti si incontrarono per la prima volta in una battaglia comune di cambiamento. Sono convinto di ciò perché osservo, parlando con molti giovani, che loro sono portatori, oltre che dei bisogni propri della scuola, anche dei problemi vissuti drammaticamente nell’ambito familiare, problemi di disagio economico, di mancanza di prospettive, di solitudine. Io, per motivi di salute, non potrò essere presente alla manifestazione degli studenti di domani, ma lo sarò col cuore e con la mente e auguro  alle ragazze e ai ragazzi e a tutti gli operatori della scuola che parteciperanno, di essere antesignani di un nuovo grande periodo di riscatto morale e civile che, muovendo dalla scuola e dai suoi bisogni, sappia cogliere l’esigenza di riappropriarsi dei diritti prima conquistati ed oggi negati e, soprattutto, del proprio futuro.



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martedì 9 ottobre 2012

Psicosociologia del manifesto elettorale

C’è da chiedersi se vale la pena di finire in coma per difendere il diritto di affissione di un manifesto elettorale. Nel caso di un ragazzo che trae l’opportunità di guadagnare qualcosa,  in tempi davvero grami per chi ancora un lavoro non ce l'ha, può essere anche comprensibile, ma per tutti gli altri non lo è. Non lo è per coloro che militanti di un partito dovrebbero essere rispettosi delle più elementari regole di civiltà, non lo è per i candidati i quali, ancora non approdati in parlamento, già fanno esercizio di un discutibile metodo di affidamento della propria propaganda elettorale ricorrendo ad elementi violenti e, a volte, anche poco raccomandabili sotto il profilo della fedina penale. C’è da chiedersi, poi, se vale la pena continuare a svolgere la campagna elettorale veicolando la propria immagine attraverso i manifesti elettorali, surrogato anche degli spot televisivi che, per contenuti e qualità, non sono dissimili dai primi. Tutti si affannano a scrivere di onestà e legalità, ma di fatto sono i primi a violare la legge, disseminando le città di quintali di cartaccia e di colla che spetta ai Comuni poi bonificare a spese dei contribuenti. Carta spesso stracciata e buttata con noncuranza per le vie cittadine, unitamente ad altri quintali di volantini e “santini” pieni di facce multicolori, ora ammiccanti ora sorridenti, spesso ridondanti di sicula scipitanza.  Onestamente occorre dire, ma solo in alcuni casi, certi candidati, di persona, riescono a dare un’immagine anche migliore di sé. Per il resto, sembrano tanti pupi siciliani, messi rigorosamente tutti in fila, appittati di tutto punto, appaiono come tante facce artificiali, ora serie ora felici, e ci vorrebbero i cantastorie per spiegare il significato dei loro messaggi. Quasi sempre si tratta di una comunicazione “fai da te”, perché questi futuri onorevoli hanno anche la fottuta presunzione di capire di comunicazione, oppure si affidano a qualche pseudo giornalista di quelli che si aggirano in cerca di fortuna in molti siti istituzionali, retribuiti, come è prassi,  a carico del povero contribuente. Così c’è quello che compiaciuto afferma tout court “sugnu sicilianu”, credendo di concorrere alle elezioni della Lombardia dove, per l’appunto, nessuno ne conoscerebbe la provenienza; e c’è quello che, già condannato per peculato, dice: “non parole, ma fatti”, evidentemente riferendosi ai fatti criminosi per cui è stato processato; c’è poi quello che fresco reduce dalla galera, comunica di essere umile, alla faccia di chi ancora non crede nella capacità rieducativa della detenzione. Ci sono, poi, quelli che si sono riscoperti rivoluzionari tout court, altri che  fanno riferimento alla primavera araba e al protagonismo spontaneo delle grandi masse popolari,  la cui domanda di dignità è da intendersi come rispetto dei diritti e dei bisogni delle persone. Purtroppo ai comizi di questi novelli rivoluzionari mancano proprie le masse popolari e a stento si intravedono  gli amici e i parenti più stretti. Per non parlare, infine, di coloro che sostengono che la rivoluzione si può fare solo governando, e questo mi ha colpito molto, perché sovverte, e qui c’è il fatto rivoluzionario, il principio stesso su cui poggia la vocazione rivoluzionaria; infatti, se prima con rivoluzione si è inteso il radicale cambiamento della forma di governo mediante l’azione del popolo, adesso è il governo che si propone, mediante l’azione rivoluzionaria, di cambiare il popolo. L’asserzione è di tale portata che solo un paragone regge al confronto, allorché Galileo Galilei affermò nel suo manifesto elettorale “.. e pur si muove!”, intendendo così che era la terra a girare intorno al sole e non viceversa. A mio avviso, però, il manifesto elettorale che più mi ha affascinato per l’impeto di sincerità e di onestà che ha saputo esprimere, e che resta una pietra miliare  nella storia della comunicazione, è quello di Cetto La Qualunque quando afferma: “I have no dream, ma mi piaci ‘u pilu”.

giovedì 4 ottobre 2012

Dialogo molto serio sull'immondizia


“Mamma, perché il sindaco non toglie l’immondizia dalla strada?” Chiedeva ieri il piccolo alla sua mamma mentre lo conduceva a scuola. “Stai attento alla strada, non vedi che passano le macchine!” . “Mamma, ma il sindaco non deve risolvere i problemi dei cittadini, perché non toglie l’immondizia? . “Ricordati che oggi viene a prenderti papà e non dimenticare la merendina dentro lo zainetto!”.” Va bene mamma, lo chiederò alla maestra perché il sindaco non toglie l’immondizia dalle strade!” Avranno sicuramente un gran da fare le maestre nelle nostre scuole a spiegare ai bambini come si fa a rispettare l’ambiente, quando cumuli di immondizie sovrastano gli ingressi delle scuole e centinaia di discariche abusive, ormai da anni, abbrutiscono un territorio una volta bellissimo, poi deturpato dal cemento colato a tonnellate sotto lo sguardo di amministratori “distratti”,  oggi ingiuriato dal fetore e dalla vista dissacrante di sacchi multicolori. All’immondizia ci si abitua. Come ci si abitua alle prepotenze e alla violenza. E’ così che il senso comune si forma e costruisce la coscienza collettiva che s’incunea fino a plasmare la coscienza del singolo individuo. Oggi si riunisce il consiglio comunale, come l’anno scorso, per decidere come il sindaco deve togliere l’immondizia dalle strade. Sapranno i nostri eroi decidere in modo che le maestre diano una risposta ai bambini prima che arrivino all’esame di maturità?
 




venerdì 28 settembre 2012

Elezioni in Sicilia, la rivoluzione dei gattopardi!


Mi sono chiesto se le dimissioni del Governo Lombardo potrebbero essere un’opportunità per la Sicilia. La Storia ci insegna che qualche volta dalle macerie sorgono occasioni e sviluppi imprevisti, ma dopo queste prime battute di campagna elettorale, mi sono convinto ancora di più del fatalismo di noi siciliani. Ancora una volta altri hanno deciso per noi, in luoghi lontani. I presidenti candidati che raccolgono allo stato i maggiori consensi, Musumeci e Crocetta, sono stati scelti a Roma, il primo da Berlusconi, il secondo da Casini e da Bersani. C’è da credere, pure, che dopo la defaillance di Fava, la soluzione della sindacalista FIOM sia stata concepita altrove. Gli altri sono il prodotto tipico di un certo ribellismo isolano, mai produttivo di alcunché. E’ la storia delle classi dirigenti di quest’isola sfortunata, pronte a prostrarsi pur di garantirsi meschini privilegi e laute prebende. Una massa acritica ed un’elite di furbi costituiscono la strana mistura che ci fa tanto “brutti, sporchi e cattivi”, ancora una volta il solito film che sa tanto di dejavu. E a livello locale lo schema non è cambiato, la stessa classe dirigente che si era prostrata verso Roma, ha preteso la stessa prostrazione dei più piccoli notabili locali, decidendo le candidature secondo il peso delle signorie palermitane. Le primarie, la partecipazione degli iscritti e degli elettori, i programmi: cose che si scrivono negli statuti, per la plebe. La Sicilia, così, non va avanti, anzi sembra rovinosamente precipitare indietro. Qualcuno ha sostenuto che è di quattro secoli il gap socioeconomico tra la Sicilia e il resto dell’Europa più progredita. E forse è vero, considerato che nessuna rivoluzione ha inciso nell’Isola come negli altri Paesi. Né la rivoluzione liberale francese, né la rivoluzione industriale novecentesca, né la rivoluzione digitale di oggi ha prodotto cambiamenti radicali se la struttura politica e morale, ancora oggi, si ispira alle funzioni tipiche del medioevo, qui dove, per una maliziosa furbizia della storia, nacque il primo parlamento del mondo. Il trasformismo sembra irrimediabilmente il metodo più congeniale ai politici siciliani. Ex galeotti, ex corrotti, ex ladri, ex inutili, di fronte al più grande fallimento politico che la Storia della Sicilia abbia mai registrato (un ex presidente in carcere, un altro inquisito e dimissionario), oggi ritornano con una faccia, da puttana?, non c’è altro termine, per ribadire che la Sicilia ha bisogno del loro insostituibile contributo (sic!). Ma ciò è tanto più grave allorché forze mature per segnare l’era del cambiamento allestiscono scialuppe per raccogliere naufraghi di ogni tipo con l’intento, manifesto, di vincere a qualunque costo una partita che sembra truccata in partenza. In un articolo apparso su la Sicilia dello scorso mese di agosto, il professore Francesco Renda, dopo un’analisi appassionata della situazione politica siciliana, auspicava un intervento decisivo di Roma per dirimere la complicata matassa della politica siciliana, non intravedendo una soluzione facile di fronte alla complessa vicenda regionale. Ma se Sparta piange Atene non ride, tant’è che tutti gli osservatori internazionali continuano ad auspicare il commissariamento del governo italiano anche per la prossima legislatura. Penso che la soluzione giusta per la Sicilia, a questo punto, non sarebbe il commissariamento della Regione,  un’ulteriore umiliazione per i siciliani che di umiliazioni ne hanno già subite tante, ma una nuova fase costituente. Basterebbe che tutti gli uomini e le donne di buona volontà, elettori ed elettrici, trascendendo le proprie aspettative, anche le più importanti, quale potrebbe essere la promessa di un posto di lavoro, spulciando la lista del partito cui credono di potersi affidare, alla fine scelgano un uomo o una donna (le donne sarebbero ancora più affidabili, perchè sono state poche quelle che hanno sperimentato la mala politica, sempre considerando il caso della Polverini un caso isolato), sulla base dell’onestà, della competenza, del rigore morale, del programma, ma non il programma intriso dei soliti slogans del tipo incentivare l’occupazione, favorire lo sviluppo dell’agricoltura e dell’artigianato,  lotta alla mafia, perché è da cinquant’anni che dicono le stesse cose. Un’Assemblea Regionale composta da onesti e capaci, potrebbe fare veramente la rivoluzione, del tipo: tutti i raccomandati, a casa! Tutti i ladri, a casa! Tutti gli incapaci, a casa! I soldi, a chi lavora! Le tasse, a chi ha rubato di più!I mafiosi, in galera! E cosi via continuando… senza timore! Sogno.
Mi  piace, per finire, proporre questa riflessione di Leonardo Sciascia tratta dalla famosa intervista alla giornalista francese Marcelle Padovani da trascrivere su un foglietto da leggere dentro la cabina elettorale: “La particolarissima viscosità della storia siciliana la si deve anche al fatto che qui si è sempre sperato in cambiamenti che venivano dal di fuori e dall’alto: ogni volta che un viceré lasciava Palermo, in tutti i quartieri della città si faceva festa, perché si pensava che il nuovo sarebbe stato migliore del precedente e che avrebbe finalmente apportato il cambiamento. Nessuno tuttavia pensava a rovesciare l’istituzione, le plebi essendo perfettamente avvezze a quest’idea del mutamento che scende dall’alto. (…) La roba, che può essere terra, casa, stoviglie, biancheria, animali, provviste, sembra sia solo casualmente fonte di reddito; non la si utilizza, la si lascia dopo morti: è legata ai sentimenti che si nutrono per la famiglia, al timore per il futuro della famiglia e alla presenza della morte. Più aumenta la ricchezza, più aumenta la quantità di quel che lasceremo alla nostra morte, e più la nostra stessa morte aumenta e si amplifica… Il ritmo dell’accumulo come ritmo di morte… (…) La terra sotto il sole non è mai sicura, le disgrazie, o il vicino, possono portartela via, bisogna vigilare fino all’allucinazione, così come è, meglio vigilare sui membri della famiglia tenendoli sotto la propria ala. Che cosa può capitare in realtà a qualcuno che lascia, anche provvisoriamente, la sua casa? Può venire derubato, rapinato, oltraggiato, può perdere l’onore, la vita. Il siciliano vive tutti insieme questi sentimenti sotto la tonalità ossessiva del timore”.
E votare, per una volta, senza timore.

martedì 25 settembre 2012

venerdì 14 settembre 2012

Quelle torture sui gatti, un brutto segno!


Si è levato un coro di indignazione alla notizia riguardante le sevizie consumate ai danni di due gattini, ne abbiamo parlato pure con Giovanna Cascone nel corso della rassegna stampa di EventiSicilia. Ma l’argomento merita un approfondimento, poiché fenomeni di questa natura, sommati ad altre violenze di cui la stampa si occupa ormai quotidianamente, contro i disabili, contro le donne, contro i diversi di ogni genere, testimoniano il fatto che nel territorio si sta verificando un angoscioso aumento dell’aggressività. Occorre premettere che l’aggressività è connaturata nell’individuo, addirittura Konrad Lorenz la definisce come un aspetto positivo dell’indole umana a presidio della propria conservazione, necessaria per garantirsi l’accoppiamento e provvedere alle funzioni vitali. Lo stesso Freud la considera una pulsione innata alla stessa stregua della pulsione sessuale. Il male, dunque, esiste ed è segnato nel nostro patrimonio genetico, è un’azione che presiede i nostri bisogni fondamentali. Così, il dolore (il male) ci avverte di un pericolo per la vita, il piacere (il bene) ci spinge alle azioni che presidiano e sviluppano la vita come il mangiare, il dormire, l’accoppiarsi. L’uomo, però, da animale dotato di cultura, attraverso il processo di civilizzazione, non solo ha trovato il modo di soddisfare i propri bisogni fondamentali mediante l’adozione di strategie sempre più sofisticate, ma ha pure concepito nuove forme di espressione del piacere e del dolore fino a rendere ambiguo il discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male, fino a pervenire ad un processo di fascinazione del male che è andato oltre il male “necessario”. La guerra è la massima espressione del male, ma la “cultura” in ogni epoca l’ha presentata come “male necessario” per la convivenza civile, fino alla degenerazione estrema dello sterminio. Così i romani la ritenevano essenziale per il mantenimento della pace (si vis pacem, para bellum), oggi la si definisce semplicemente “missione di pace”, cancellando così del tutto il residuo di “male” insito nell’azione di guerra, con il risultato che uccidere per la pace trapassa dal genere “male” al genere “bene”. Esempio di tale degenerazione sono i videogames ove si uccide, certamente per la pace, che possono liberamente essere utilizzati anche dai bambini, maschi e femmine, perché le bambine, in questi giochi, inzuppate di tritolo, si fanno esplodere per la causa. Siamo pervenuti, dunque, ad una degenerazione dei valori che per millenni hanno presidiato la convivenza civile, ciò che il sociologo Zygmunt Bauman definisce come passaggio dalla società solida alla società liquida, un mondo, cioè, che vede la trasformazione delle persone da produttori a consumatori, dove l’esclusione sociale non si misura più per la propria estraneità dal mondo produttivo, ma per la non appartenenza alla modernità intesa come capacità di consumare. L’aumento del sentimento della frustrazione, così, a causa della perdita di sicurezza, costringe sempre più persone ad adeguarsi alle abitudini di taluni gruppi, considerati emergenti, secondo un processo di omologazione e di assorbimento di modelli culturali, di usi e di consuetudini che in un determinato momento storico caratterizzano il contesto sociale di riferimento, anche a causa della svalutazione del senso critico individuale e collettivo.

Ritornando al problema dell’aggressività sociale, dunque, non possiamo non rilevare come i comportamenti pubblici non possono non ispirarsi alla pratica del rigore etico, rigore che non può essere confuso con la semplice persecuzione dei reati, essendo necessario, invece, un comportamento che serva e si proponga da esempio, perché per questo motivo si è chiamati a svolgere la funzione pubblica. Pertanto, l’assunzione in una pubblica amministrazione di un proprio cliente politico al posto di un cittadino che ne ha diritto, l’uso spregiudicato del denaro pubblico per scopi non propri essenziali alla collettività, il venire meno agli obblighi assunti solennemente al cospetto dei cittadini quale quello di mantenere pulita la città e di garantire il funzionamento dei servizi per i bambini, gli anziani e i disabili, a fronte, invece, di spese per consulenti ed amministratori incapaci ed inconcludenti, costituisce una delle cause, se non la più importante, sulla quale si fonda la degenerazione dei comportamenti sociali. Altrettanto è il farsi merito di non pagare le tasse, il parcheggio nelle aree vietate, omettere di denunciare il pizzo, aggredire una persona anziana per puro compiacimento. L’aggressività nella società è, perciò, come il colesterolo nel sangue, alla giusta dose fa bene all’organismo, oltre quella misura è una minaccia per la vita. Il medico, in questo caso, consiglia una moderazione nell’assunzione di cibo e una vita ispirata alla pratica sportiva per mantenere il colesterolo ai giusti livelli. Nella pratica sociale occorre dare il buon esempio e comportarsi di conseguenza. Bene, dunque, l’indignazione per una pratica atroce contro gli animali innocenti, ma credo che sia altrettanto necessario testimoniare ogni giorno l’amore per gli animali, per l’ambiente, per la vita attraverso comportamenti privati e pubblici ispirati al buon senso e al rispetto dei diritti di tutti.

venerdì 7 settembre 2012

Caro amico ti scrivo...così mi distraggo un pò!

Ricevo da Turi Migliore e pubblico con vero piacere la seguente nota:
Giovanni,
scusami se pubblico qui tutta sta mappazza! L’avrei voluto fare a margine dei commenti nel tuo blog, ma non me l’ha fatto pubblicare  (Non accetta il codice antirobot che c’è da copiare!) .Mi dispiace prendermela con te che sei stato il miglior sindaco dell'ultimo mezzo secolo (e come sai, nel mio libro "Tuttapposto!" sei l'unico politico vittoriese ad esserne uscito indenne), ma non posso fare a meno di dirti: bisognava aspettare che Nicosia si dimettesse dal PD per dire FINALMENTE pane al pane e vino al vino? So bene la tua estraneità da tutti i giochini, ma vedo che ritieni insostituibile questo gioco malsano del "meno peggio", della serie: questo abbiamo di partito e questo dobbiamo bonificare. Senza questo meccanismo partigiano, il tuo sfogo sull'Amiu, tanto per fare un esempio e restare in tema, si sarebbe potuto fare prima, molto prima, quannu forsi ci putia aiutu. Ma soprattutto si sarebbero potute levare altre "penne libere" come te (ce ne fossero!).Invece c'è sempre stato il terrore di aprire critiche per non fare il gioco degli avversari politici e delle terribili "destre"! Personalmente credo che sia stata proprio questa codardia, questa prudenza da conservazione, questo vendere gli interessi della città a puri e semplici clan spacciati per partiti (Il percorso di Cicciaiello è esemplare), ha determinato la palude che oggi è la politica vittoriese e la sinistra in particolare. Sono cose dell'altro mondo! E che non si pensi riguardino solo gli interessati. E allora, se l'Amiu è la struttura più inquietante ed inefficiente che ci sia, se siamo l'unico comune della provincia che non prova neppure a fare finta di fare la raccolta differenziata; se le fumarole cancerose e tossiche continuano a squarciare il cielo impunemente, nella famigerata "fascia trasformata"; se per tutta l'estate le nostre strade extraurbane non sono riuscite a fare a meno di ospitare inauditi cumuli di munnezza putrescente e rifiuti pericolosi da mostrare in bella vista ai pochi turisti che passano da queste parti (e che fuggono solo dopo poche ore); se nessuna voce si è levata, 10 anni fa, nei confronti di quella vergognosa gara di cavalli per le vie della città, spacciata per Palio ma gestita da malavitosi che spadroneggiavano come sceriffi; se non esiste una vera e propria categoria di giornalisti locali ma solo "copincollisti" e lacché che altro non fanno che omettere o far finta di essersene dimenticati; se non si ha la lungimiranza per capire quanto si potrebbe fare in termini di turismo colto e qualitativo, solo se si riuscisse ad "agganciare" la città ed il territorio ad un fenomeno che è già mondiale da almeno un ventennio: il Cerasuolo di Vittoria. Se tutto ciò, e molto altro ancora, è accaduto o non è stato fatto, la colpa non è della politica della sinistra e del tuo partito in particolare che è stato sempre al timone? Cosa bisognerà fare allora, in futuro, per evitare di sbagliare ancora? (ma non c'è più tempo e ormai è troppo tardi) Cosa sarebbe giusto fare oggi? Quando dici che i partiti sono insostituibili mi muore il cuore! A Parma, ma pure a Mira (VE), a Sarego (VI), a Comacchio (RA), sono riusciti a cacciarli i partiti e ora stanno governando i cittadini. Ma lì c'è una società civile, a Vittoria, già la parola provoca un fremito di fastidio e a volte pure di repulsione.
 Facci caso, prova a pronunciare davanti ad un politico la parola "società civile", e vedrai che faccia farà, che espressione schifata sfodererà! Il meglio dei vittoriesi è fuggito, caro Giovanni, e sono rimasti solo le mediocrità, ed ora non ci si può lamentare se l'Amiu è diventata un covo (fosse solo l'Amiu!). Oggi come oggi,caro Giovanni, c'è da fare solo un gran lavoro distruttivo, per poi ovviamente ricostruire tutto ex novo. Ma per fare ciò è pur vero che servirebbero tanti operai, manovali, caricatori...e qui invece tutti vogliono fare gli ingegneri! Il declino è vicino.

Caro Turi,
 apprezzo le tue riflessioni, ma sui partiti credo che sia necessario ritornare a riflettere. Non si può governare senza i partiti in un paese democratico e, comunque, anche nelle dittature si fa sempre riferimento, oltre al leader, ad un partito. In pratica l’esercizio del governo fa sempre riferimento ad una azione organizzativa, espressione di gruppi di persone che esprimono bisogni o interessi da perseguire mediante l’uso di risorse immateriali e materiali, strumentali ai fini (la mission) che si vogliono perseguire. I partiti, dunque, sono delle organizzazioni che, in ossequio al dettame costituzionale, si pongono l’obiettivo del governo del Paese. Quando tu porti l’esempio di Parma, in effetti parli di organizzazioni nuove che si sono sostituite ad altre (i vecchi partiti). Queste organizzazioni dovranno, comunque, esprimere una mission, nominare dei dirigenti, indicare delle persone che dovranno assumere degli incarichi amministrativi. Faranno, cioè, tutto quello che fanno le organizzazioni e saranno, all’inizio, tutti duri e puri, tranne a scoprire, nel tempo, un Lusi o un Trota qualunque tra le loro fila. L’esempio della Lega Nord, l’organizzazione i cui dirigenti  rinnovavano il proprio orgoglio di purezza bagnandosi il capo alla foce del Po, ne è un esempio classico che, sicuramente, diverrà un caso da manuale in tutti i corsi di Scienza della Politica. Erano partiti sani e puri, sono finiti nella cloaca delle peggiori ruberie per fini personali, senza pagare fio. Altrettanto io ti posso portare un esempio, quello di Reggio Emilia, dove esistono 28 aziende speciali comunali che si occupano dei bisogni più svariati, dai bambini agli anziani, dai trasporti all’ambiente, e sono tutte aziende in attivo e nessun amministratore risulta indagato o rinviato a giudizio o condannato. C’è qualcosa, allora, che va oltre le forme organizzative e che tocca la sostanza, cioè gli uomini che compongono le organizzazioni, le loro qualità, la loro cultura, le loro aspirazioni, la loro storia personale e collettiva, cioè tutto ciò che si incide nel DNA di un popolo e  che, ad certo punto, anche a causa degli accidenti della Storia,può muoversi per un verso o per un altro. Ritengo utile suggerirti di leggere il libro di Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo,  che a mio avviso è esemplare nella spiegazione dei fenomeni che portano alla formazione delle dittature o, comunque, di tutte quelle forme di organizzazioni politiche che confluiscono in forme estreme e distruttive. Ti suggerisco, altresì, di leggere il bellissimo volume di Amitai Etzioni, Organizzazioni e Società, il quale descrivendo la storia dell’operaio divenuto Segretario Generale del Partito Socialista Francese, alla fine dell’ottocento, espone in modo davvero suggestivo e scientifico il funzionamento delle organizzazioni ed in particolare delle organizzazioni politiche. Se lo vorrai, dopo queste letture, sarà veramente gradito per me potere approfondirne con te i contenuti e chissà, una buona volta, di poterci ritrovare d’accordo.Ti abbraccio con tanta stima.

mercoledì 5 settembre 2012

L'AMIU chiude. Per ammessa incapacità!



Dopo quasi mezzo secolo, chiude a Vittoria l’azienda municipalizzata di igiene urbana. Va via un pezzo di storia di questa Città, ma segna anche la sconfitta di tante battaglie ideali, di tanti che hanno creduto nella pubblicità dei servizi pubblici essenziali. Ci si potrebbe chiedere a questo punto perché lottare per l’acqua pubblica se le premesse ci portano alle stesse conclusioni: il privato fa risparmiare l’ente pubblico! La delibera con cui la Giunta Municipale rivolge l’invito al Consiglio Comunale di dismettere l’azienda speciale è un capolavoro di superficialità,  di indolenza, di doppiezza. Nessun cenno autocritico, né un esame serio ed analitico dei motivi che stanno alla base di una scelta che, comunque, segna una svolta per Vittoria e e i suoi cittadini. Per più di 16 mesi è stato annunciato alla cittadinanza tutto e il contrario di tutto. L’ultima trovata: l’AMIU chiude per legge! Ma come mai nella delibera della Giunta non si fa cenno a tale legge! L’AMIU, come si legge bene nella delibera chiude per manifesta incapacità; perché i bilanci degli ultimi cinque anni sono in perdita di svariati milioni di euro; perché il presidente e il direttore si sono rifiutati di rispondere alle pressanti richieste di presentazione dei rendiconti da parte degli uffici deputati al controllo; perché come recita testualmente la delibera  "l’Azienda negli anni ha svolto una funzione sociale”, cioè è andata oltre l’esercizio delle funzioni statutarie soddisfacendo un ingordo bisogno di pratiche clientelari assolutamente estranee alle reali esigenze dell’Ente; perché l’Assessore alla trasparenza ha denunciato l’Azienda alla Procura della Repubblica per la mancata esibizione della documentazione riguardante le assunzioni del personale. Nel frattempo il Consiglio di Amministrazione si è dimesso. Il direttore, che dovrebbe essere il legale rappresentante dell’Azienda, tace. Intanto la stampa incalza, per giorni e giorni, per settimane: Palazzo Iacono annuncia la nomina di un nuovo CDA, è solo questione di ore, oggi, domani. Ma pare che pazzi in giro non ce ne sono. Nel frattempo si annuncia un nuovo progetto per la raccolta dei rifiuti (ma il Consiglio Comunale non l’aveva approvato giusto l’anno scorso?) e l’avvio della raccolta differenziata entro 60 giorni. Ma già dal primo annuncio i sessanta giorni sono trascorsi. Oggi il Sindaco dichiara che la nomina del nuovo CDA non è prioritaria, ma allora chi governa l’Azienda? Tutto è rinviato alle decisioni del Consiglio Comunale, il quale dovrà dichiarare la soppressione del servizio e l’avvio della privatizzazione, soltanto dopo il Sindaco può nominare il Liquidatore senza prima avere presentato un Progetto di dismissione dell’azienda, che allo stato ancora non esiste, e bandire la nuova gara. Secondo i principi della rivoluzione della dignità enunciati da Crocetta in questi casi cosa bisognerebbe fare? Come minimo mandare tutti a casa! Ce la farà il nostro eroe… ?

Considerato che tutti i Comuni della provincia sono fuorilegge in materia di rifiuti perché, per legge, nessuno dovrebbe gestire direttamente il servizio di raccolta, dovendovi provvedere, per legge, l’ATO Ambiente, non sarebbe più utile e conveniente insediare il nuovo CDA della istituenda SRR, composto, per legge, dai Sindaci, per bandire l’appalto del servizio unico per tutti i comuni della provincia? Il signor Commissario straordinario della Provincia non può intervenire per accelerare l’iter di formazione del nuovo organismo? Non è che per caso la rivoluzione siciliana che tutti dichiarano di volere attuare alla fine consiste nello scaricare sempre sugli altri ogni responsabilità?

lunedì 3 settembre 2012

Una rivoluzione? Si, indigniamoci!



Ho partecipato, l’altra sera, alla riunione della direzione provinciale del Partito Democratico, convocata per discutere delle prossime elezioni regionali. In un Partito che decide di iniziare una Rivoluzione, seppure della dignità, la riunione avrebbe dovuto registrare una grande partecipazione e un notevole entusiasmo, ma né l’una né l’altro. Visi scuri, poca voglia di parlare, né la relazione del Segretario è stata invogliante e carica di spunti, piuttosto burocratica e scontata, come di chi deve solo comunicare un evento di cui poco o niente si sente responsabile. In pratica abbiamo ricevuto la comunicazione che la direzione regionale aveva ratificato la candidatura di Rosario Crocetta a presidente della Regione Sicilia, che, come si sa, era stato già candidato dall’UDC dopo che lo stesso si era autocandidato. Inoltre, siamo stati informati che lo stesso Rosario Crocetta aveva in corso una trattativa con il dimissionario sindaco di Ragusa Nello Dipasquale, ex dirigente di Forza Italia e storico avversario del PD ragusano. Infine, una sollecitazione ai circoli a definire le proposte di candidature per l’Assemblea Regionale, che sarebbero state vagliate in una successiva riunione. Prendono la parola, tra gli altri, il segretario del circolo di Vittoria, fra i più entusiasti, per annunciare che il candidato designato dal proprio circolo era il fratello del Sindaco Fabio Nicosia e, anche, per esprimere il proprio compiacimento per il fatto di essere stato fra i primi a credere nella candidatura di Rosario Crocetta. Lo segue un altro del circolo di Modica, il quale annuncia che il circolo rivendica la candidatura di un modicano, sottolineando che lo stesso deve essere rigorosamente di sesso maschile (qualche risata, proteste delle donne presenti). Intervengono Gianni Battaglia e Peppe Calabrese, il primo per sostenere la propria candidatura, l’unica che può verosimilmente contrapporsi con successo a quella di Dipasquale (sic!), il secondo per sfogare la propria rabbia per l’approdo del sindaco nella lista di Crocetta che rende vana la strenua lotta condotta dallo stesso nei confronti di Nello, il sindaco folgorato improvvisamente sulla via di Damasco. A questo punto mi assale improvvisa la voglia di andarmene, ho come la sensazione che non mi interessa nulla di questa riunione, mi alzo e vado via lasciando dietro di me solo rumori; la Sicilia, i siciliani, la gente con i suoi problemi e le sue speranze, i giovani e la loro rabbia mi appaiono su un orizzonte che è oltre quella stanza. Cerco di definire il mio stato d’animo. Ecco, sono indignato!

sabato 14 luglio 2012

Bocciati a 6 anni, che tristezza la Scuola!

Fra i tanti, tantissimi,  bocciati delle scuole di Vittoria di cui tanto si è occupata la stampa in questi primi giorni di luglio, quelli che più hanno colto la mia attenzione sono due bambini della prima elementare. Essere bocciati a 6 anni! Chissà quali pensieri nella mente di questi bimbi per questa esperienza difficile da spiegare, difficile da capire. Andare alla scuola elementare, quella di tantissimi anni fa, mi incuteva paura, mi ricordo che vivevo sempre nell’ansia, perché il maestro ci picchiava. Tanti colpi di bacchetta sui palmi delle mani per tante righe di poesia dimenticate, e i genitori si raccomandavano pure: “ Maestro glieli suoni pure, non abbia remore!”. E alla scuola media il preside puniva le nostre marachelle facendoci mettere sull’attenti e giù due ceffoni da lasciare i segni. Per fortuna oggi la scuola non è più così, ma essere bocciati alla prima elementare rimane pure una cosa incomprensibile. Ho chiesto lumi a mia moglie, che è una pedagogista, mi ha spiegato che a volte può succedere che, di comune accordo con i genitori, gli insegnanti scelgano di optare per un “fermo maturativo” nel caso in cui i bambini non raggiungano i pre-requisiti necessari per affrontare i compiti successivi e colmare, così, eventuali ritardi. Mi auguro che i casi segnalati dalla stampa abbiano le stesse ragioni o altre dello stesso tenore, anche se personalmente resto della convinzione che provvedimenti di questa natura costituiscono dei traumi per i bambini, preferendo considerare la Scuola come un luogo dove i cittadini dovrebbero maturare tutti insieme, dove insegnare con gioia, apprendere con gioia . La Scuola non può riflettere l’ideale di una società competitiva e punitiva, la Scuola che boccia, la Scuola del merito, dell’individualismo,  non necessariamente è la Scuola migliore. Sono sempre stato convinto che dietro la bocciatura di un bambino si nasconde il fallimento di noi adulti, della stessa istituzione scolastica e che la storia di ogni studente è una storia individuale di apprendimento, di personali capacità intellettuali e relazionali. Sono, altresì,  convinto che l’insegnante è come un maestro d’orchestra cui è affidato il “compito della concertazione e della coordinazione tra gli esecutori, leggendo da una partitura completa e dando indicazioni verbali, uditive e gestuali”, capace, cioè, di far prevalere il lavoro di squadra esaltando ogni singolo contributo nell’ambito di un progetto comune. Immaginate un maestro che nel vivo di una rappresentazione riducesse al silenzio due o tre strumenti, verrebbe meno il risultato finale del suo lavoro, gli spettatori finirebbero per non capire; ecco, i bocciati della scuola sono degli strumenti di un’orchestra ridotti al silenzio. Comenio, teologo e pedagogista vissuto nel ‘600, sosteneva la necessità che l'insegnamento fosse  esteso a tutti, non stimolando eccessivamente la mente dei ragazzi , ma abituandoli alla “ricerca del sapere lungo tutta la vita”, ciò che la moderna teoria dell’insegnamento definisce come “lifelong learning”. Anche le donne e gli handicappati devono essere partecipi dell’insegnamento, perché, secondo Comenio, anche loro hanno un'anima che deve progredire con il sapere. Ma ha ancora un senso la bocciatura a Scuola? Secondo il ministro austriaco Claudia Schmied la bocciatura non aiuta la competitività e ha annunciato che da quest’anno nelle scuole austriache sarà abolita.
 Ma non si tratta di un provvedimento tout court, bensì di un insieme di strumenti a favore degli studenti che ne hanno bisogno  tra i quali corsi di recupero e rinforzo, in particolare per il tedesco, la matematica e le lingue straniere, che eviti una valutazione finale negativa con bocciatura. In Italia il problema è stato più volte affrontato, ma con un limite, perché quando si parla di intervenire in settori delicati della vita dello stato, quali la scuola o la sanità, il problema non viene mai affrontato con leggi di riforma capaci di incidere sulla sostanza del problema, bensì nell’ambito di provvedimenti di spesa, e con i tagli non si può certo incidere sulla qualità dei servizi. Così a pagarne le conseguenze sono sempre i soggetti più deboli della società, i portatori di handicap e le fasce più povere ed emarginate. A Vittoria il problema delle bocciature, delle ripetenze e della dispersione scolastica ha assunto caratteri di una vera e propria emergenza, nei confronti della quale le istituzioni locali devono sentire forte la necessità di interventi non più rinviabili. Come si evince dalla Relazione Generale dello Schema di Variante al PRG: “… per quanto riguarda l’istruzione e la scolarizzazione, nel comune di Vittoria il censimento del 2001 consegnava all’attenzione del territorio la difficile situazione di Vittoria che risultava uno dei Comuni meno scolarizzati di Italia con il 19% della popolazione analfabeta o senza alcun titolo di studio”. Nell’epoca della Società della Conoscenza, ciò non costituisce certo un requisito capace di invertire le sorti di un destino che, allo stato, senza le opportune contromisure, sembra segnato da un lento quanto irrimediabile declino.