Se le nostre scuole fossero permanentemente
“occupate” dagli studenti forse si potrebbe scrivere un capitolo nuovo nella
storia della scuola italiana. Certo non mi riferisco alle “okkupazioni” di cui
si parla in questi giorni, cioè momenti di espressione della protesta e del
disagio che in questo momento vivono milioni di giovani, di genitori, di
famiglie. Penso, piuttosto, ad una scuola come ad uno spazio fisico da vivere
sempre, uno spazio senza tempo, senza campanelle, uno spazio da condividere con
tutti, con i propri compagni, con gli
insegnanti, i propri amici, la propria famiglia. Uno spazio da vivere come un’estensione
della sfera affettiva familiare proiettata verso la società, dove potere
sperimentare la dimensione della propria crescita senza i traumi del taglio netto
del cordone ombelicale che lega i giovani alla famiglia, alla scuola, alla società, al lavoro. La scuola,
cioè, come luogo di felicità e non come luogo di espiazione, di ansia, di
frustrazione o, come a volte accade, di isolamento e solitudine, come luogo
dove sperimentare percorsi di solidarietà e di condivisione, necessari in una
società pervasa dall’ideologia del merito e della competizione. La mia
personale storia scolastica credo che sia paragonabile a quella che ha
sperimentato la gran parte delle persone della mia età, ma io ho avuto la
fortuna di frequentare la scuola di “donna Pippinedda”, una sorta di scuola
materna “ante litteram” che una coppia senza figli decise di istituire a casa
propria, probabilmente per soddisfare l’istinto materno represso di una donna
straordinaria che non poteva avere figli. Quella di donna Pippinedda era una
scuola senza regole particolari, dove non si pagava alcuna retta, dove non c’erano
programmi ministeriali, c’era soltanto lo spirito creativo e l’amore, grande,
di Pippinedda per i bambini. In quella scuola non vigeva la regola che i
bambini dovessero restare separati dalle bambine, per cui tutti potevano
sperimentare il gioco in comune senza alcuna malizia o pregiudizio, non c’erano
orari da rispettare per cui le famiglie erano libere di riprendere i figli in
qualunque momento senza l’obbligo di rendere alcuna giustificazione, e ciascuno
poteva verificare autonomamente il livello di beneficio che traevano i bambini frequentando
quella scuola così insolita. Tra i giochi
che ricordo con immagini mentali vivide e per nulla offuscate dal tempo c’è
quello che consisteva nell’aiutare Pippinedda, da tutti chiamata zia Pippina, a
“fabbricare il pane”. Non era una cosa semplice, eppure Pippina riusciva a
coinvolgere tutti affidando a ciascuno un compito particolare, che cambiava
ogni qualvolta il gioco si ripeteva, per cui c’era chi aiutava a “scaniare” l’impasto
della farina con l’acqua, il lievito e il sale sulla “sbrivola”; chi con
pezzetti di pasta “scaniata” formava i “pupiddi”, chi, infine, porgeva il pane
lievitato per essere cotto nel forno, precedentemente riscaldato con piccoli
tronchi di legno e “magghiola”. Poi, quando finiva il lavoro “duro”, Pippina ci
riuniva in cerchio e, dopo una rapida distribuzione di piccole formelle di marmellata
di cotogne, cominciava a raccontare “i cunti”, un garbuglio di personaggi e di
fatti capace di risvegliare qualunque sentimento ed espressione, dalle risate a
squarciagola fino alle lacrime e ai
singhiozzi, fino a mezzogiorno quando Pippina ci lasciava liberi di giocare per preparare la minestra
per tutti. Mi ricordo che la mattina mi alzavo prestissimo, preso dall’ansia di
andare a “scuola”, ma prima passavo a prendere la mia compagnetta preferita,
Olga, che abitava dirimpetto la mia casa; la tenevo stretta per mano e mi
sentivo responsabile della sua incolumità. Ero felice di andare a “scuola” e le
giornate, anche quelle calde d’estate, correvano veloci; quella “scuola” era il
luogo non solo della nostra crescita, era soprattutto il luogo della relazione,
dell’empatia tra di noi e tra ciascuno di noi e la “maestra”, l’amore di
Pippina si respirava nell’aria. Quando arrivò il primo giorno della prima
elementare, in classe mi ritrovai con un altro bambino proveniente dalla “scuola”
di Pippinedda, fu una gioia indicibile, eravamo gli unici felici mentre tutti
piangevano e si attaccavano alle gonne delle madri; da quel giorno, per noi, la
scuola divenne un’altra storia. Da allora ho sognato la scuola come un luogo
aperto, dove potere interagire, sperimentare, collaborare con gli insegnanti, da vivere
sempre, da eleggere come luogo in cui sperimentare la libertà e la
responsabilità, dove coniugare impegno e svago, dove potere utilizzare tutti
gli strumenti secondo una logica di bisogni individuali entro una prospettiva
di crescita comune e solidale, dove potere liberamente tracciare i confini
delle proprie naturali vocazioni senza subire il pregiudizio e la fatale predeterminazione
del proprio futuro. Oggi gli strumenti che la tecnologia ci mette a
disposizione ci consentirebbero di costruire una scuola diversa, non che quella
di prima fosse necessariamente sbagliata, ma oggi occorre una scuola per i
tempi che viviamo, occorrono dei “luoghi” ove ai giovani sia data la
possibilità di sperimentare il proprio percorso di emancipazione dalla famiglia
per “migrare” verso una società che è in fase di cambiamento e dove non è
assicurata nessuna certezza circa la propria futura collocazione se non in
rapporto alle esperienze e ai vissuti che ciascuno potrà realizzare in questi
nuovi “luoghi della conoscenza”, aperti alla contaminazione con il territorio,
pronti a “incubare” pure necessità e bisogni espressi dalla società, dall’economia,
dall’ambiente. Gli insegnanti sono pronti, sono pure loro figli di quest’epoca
e ne sono interpreti, ma va ripensato fino in fondo il loro stato giuridico e
la loro centralità nel contesto di una società il cui processo di cambiamento, incentrandosi
sulla conoscenza, rende fondamentale la figura dell’insegnante per l’avvenire di
ogni paese. Giovani ed insegnanti, pertanto, entrano da protagonisti in
qualunque ipotesi di riforma, perché prima che di risorse economiche, ancora
prima di una qualunque “spending review”, occorre stabilire che tipo di società
vogliamo costruire, a quali bisogni occorre dare risposte, definire
le priorità, chi e come deve farsi carico dei processi di riorganizzazione
amministrativa e didattica, a quali valori si dovrà fare riferimento, soltanto dopo, e non prima, potrebbe essere necessario mettere
mano ai “cordoni della borsa”, e chissà che pure si potrebbe risparmiare qualcosa.
domenica 16 dicembre 2012
venerdì 14 dicembre 2012
Accattoni d'Italia!
Ma che Paese è l’Italia
raccontata sui giornali e sui media di
tutto il mondo! Me lo chiedo da più giorni perché le cronache non finiscono mai
di stupire. Oggi ho appreso del lager siciliano dove la mafia usava cremare i
cadaveri dei propri nemici, nello stesso
forno dove cuocevano il pane che vendevano ad ignari clienti. Ma che persone
sono queste? Peggio delle bestie feroci, incapaci di sentimenti, vivono in un
completo stato di animalità o, forse, peggio, perché gli animali esprimono pure
sentimenti di affezione e di solidarietà. Ma come possiamo ancora tollerare
tutto ciò nella più assoluta indifferenza, notizie che ci scivolano addosso
come pioggia a lavare i nostri sensi di colpa!
Berlusconi ritorna e l’Europa
vive un sussulto. Ancora lui, le sue storie, i suoi affari, i suoi intrighi, i
suoi amorazzi, mentre il Paese precipita nella povertà, nell’arretratezza
culturale e civile, nella corruzione e nella dissolutezza dei comportamenti della
sua classe dirigente. Al Sud come al Nord, la corruzione dilaga e non c’è freno
che possa arginare il fenomeno, interi parlamenti regionali sotto la lente dei
magistrati per reati miserabili, per accattonaggio, perché non può definirsi
diversamente la pratica di giocare ai video-games, di comprare il cappuccino
con i soldi dello Stato! E’ il risultato di quella promessa rivoluzione
liberale annunciata in parlamento con tanto di spargimento di spumante e
mortadella: liberi di fare, liberi di
rubare!
La trasmissione Report affonda il bisturi nella piaga
della formazione professionale siciliana, ne emerge un sistema di intrallazzi,
di compiacenze, una parentopoli che ingloba un indegno sistema di relazioni che
costa ai siciliani 500 milioni di euro l’anno senza produrre nulla. E il
deputato, compiaciuto,esclama: “Siamo presenti nel settore
perché facciamo politica. Creiamo una rete di attività che permette di creare
una rete di consenso. È normale”. Vergogna! Certo, forse è normale in un
Paese sottosviluppato, non in una Regione dove il Presidente ha promesso la
rivoluzione della dignità. Ma la rivoluzione è il presupposto di un mutamento radicale
che comporta la rottura di un modello precedente e il sorgere di un nuovo
modello, ivi comprese le classi dirigenti, altrimenti è solo miseria culturale
e morte civile.
martedì 4 dicembre 2012
Bersani, le favole,la sinistra e i disconnessi virtuali
Bersani ha vinto le primarie del centrosinistra. Credo che si tratta di un risultato importante per il centrosinistra e per l’Italia. Adesso il Paese ha un sicuro punto di riferimento, in altri tempi si sarebbe detto dell’immaginazione al potere, nel nostro caso che la serietà ha avuto la possibilità di imporsi su una politica imbastita di effimere parole d’ordine (che brutta parola la rottamazione!) e di incomprensibili propositi. Il significato della vittoria di Bersani è tutto racchiuso nelle uniche parole con contenuto di senso che ha proferito nel suo discorso di ringraziamento: “Io non vi racconterò favole”. Ecco, queste parole segnano il dopo del berlusconismo, un’era, cioè, caratterizzata dalle favole, che ha estraniato il Paese dai processi complessi che hanno caratterizzato il mondo, lasciando che la borghesia italiana, quella dell’italietta di sempre, continuasse a pensare che non fosse successo nulla, che nulla potesse intaccare i propri privilegi, esattamente come i nobili dell’ancien regime che continuavano a mangiare broche mentre il popolo moriva affamato. Per ciò mi sono chiesto a chi Bersani non dovrà raccontare le favole. Sicuramente non ai ceti produttivi, operai, artigiani, piccoli imprenditori, insegnanti, impiegati, pensionati, gente, cioè, che alle favole non crede più da tempo, che pensa proprio che non è più tempo di favole, oggi, che la crisi si è abbattuta solo ed esclusivamente sulle loro spalle. Né hanno bisogno di sentire favole le giovani generazioni, quelli che oggi hanno quarant’anni e che sono cresciuti nutriti dalle favole e dalle balle di Berlusconi. Quella di Bersani, allora, è la fine delle favole per tutti, per i furbi che continuano a godere dei servizi dello Stato senza pagare le tasse, per coloro che al merito hanno preferito la raccomandazione, ai partiti che hanno occupato lo Stato pensando di essere essi stessi la democrazia, alle imprese che hanno pensato di sfruttare il territorio contro ogni logica di tutela e di salvaguardia degli equilibri naturali, quelli che pensano “consumo, ergo sum” credendo che le risorse siano inesauribili. Bersani sa pure che la favola della “mano invisibile” che regola il mercato e accontenta tutti, riesumata da Reagan e dalla Thatcher verso la fine del secolo scorso, non regge di fronte alle sfide della globalizzazione. Sa pure che il liberismo ha fatto il suo tempo, che capitalismo e comunismo, come si sono sviluppati nel secolo breve, hanno esaurito tutto il loro potenziale entro l’esperienza industrialista, che oggi occorre con coraggio percorrere nuove vie non solo per rispondere alle sfide della globalizzazione, ma per fronteggiare l’emergenza ambientale e l’esaurimento delle risorse naturali, dal petrolio all’acqua. I giornali ogni giorno ci raccontano di fabbriche che chiudono, di disoccupazione in costante aumento, di giovani che interrompono gli studi, di persone “per bene” che affollano nelle grandi città le mense della caritas. Proprio oggi a Genova, dove mi trovo per motivi familiari, una persona di buon aspetto, sicuramente non un barbone, mi ha fermato chiedendomi con educazione: “Signore, per favore, può darmi un euro, non mangio da giorni”. Ho sentito forte una commozione come non l’ho mai provata. Su Repubblica oggi ho letto che nel mezzogiorno d’Italia oltre trecentomila ragazzi sotto i 18 anni non si sono mai connessi ad internet, non hanno mai visto un cinema, non hanno mai letto un libro. Li chiamano i “disconnessi virtuali”, sono i nuovi poveri che si aggiungono ai “poveri vergognosi” come si chiamavano nel medioevo i nobili decaduti allo stato di povertà. Gli italiani hanno saputo esprimere il meglio delle proprie capacità nei momenti più drammatici, per questo motivo “l’hortus conclusus” del centro sinistra costituisce un limite forte per un’operazione politica di grande respiro, quando è più logico pensare ad un Patto per l’Italia capace di portare il Paese oltre il berlusconismo, oltre l’idea tutta provinciale e autarchica dell’italietta che riesce a risolvere da sola tutti i propri problemi con la speranza di rimanere fortificati ciascuno entro il proprio recinto fatto di effimere certezze. Per questo motivo Bersani è il politico che meglio di chiunque altro interpreta i segni del tempo che viviamo, per la sue caratteristiche, il suo modo lento, di mediare, mettere insieme, convincere, essere, insomma, inclusivo nel momento in cui c’è bisogno di gioco di squadra, qualcosa di più di un personale protagonismo senza speranze. Lui che dice di non raccontare favole sa bene che, continuando di questo passo, lor signori rischiano di perdere la brioche e pure la testa.
sabato 10 novembre 2012
Tutti pazzi per Obama
Una lacrima sul viso, quella del
presidente degli Stati Uniti Barak Obama, ha fatto il giro dei giornali e delle
televisioni di tutto il mondo. Debbo essere sincero, questa lacrima è la cosa
che mi ha colpito di più di queste lunghe e appassionanti elezioni americane. Perché
un uomo che piange, in una società ancora così sessista e arcaicamente
tradizionale, costituisce veramente un segno dei tempi, è una rivoluzione. In
altre epoche, non tanto remote, si sarebbero mobilitati i servizi segreti per
impedire al pubblico di vedere l’immagine di un capo che piange e,
probabilmente, l’opposizione, e non solo, ne avrebbe chiesto l’ impeachment per
eccesso di debolezza d’animo! Invero, questa lacrima testimonia tutta la forza
di Obama, un uomo che riesce ad emozionarsi nell’esprimere il proprio
riconoscimento a tutte quelle ragazze e a quei ragazzi volontari che avevano
seguito con grande spirito di sacrificio un intero anno di campagna elettorale,
testimoniando in questo modo di essere un uomo capace di sentimenti, di umiltà,
di condivisione. E, in fondo, è questo che i cittadini vorrebbero dai propri
politici, e forse è più importante dei risultati che un politico può
realisticamente conseguire. Mi hai detto che ci avresti provato, ci hai provato
ma non ci sei riuscito, però mi hai detto la verità, e questo mi basta. Per
questo motivo la gente d’America si è mobilitata, quell’America che qualche
decennio fa, nei manuali di scienza della politica, veniva ricordata per la disassuefazione
al voto, mentre oggi fa la fila per votare Obama. E Barak si emoziona quando
parla della sua gente e dimostra di credere fino in fondo alle cose che dice e
promette. Al giornalista che lo intervista qualche ora dopo il suo primo
discorso da vincitore che gli chiede quali sono le priorità del suo secondo mandato,
Obama risponde categorico e senza incertezze: “La scuola e job,job,job – lavoro,lavoro,lavoro!”. Nient’altro è così urgente e fondamentale
del suo programma di governo se non come trovare i mezzi per realizzare questi
suoi propositi:”Sarà necessario che i ricchi come me paghino più tasse per
consentire ai meno abbienti di accedere a quegli strumenti che costituiscono i
presupposti della libertà, del sogno americano”. Questi strumenti sono l’istruzione
ed il lavoro, senza questi requisiti, nella società della conoscenza, non si va
da nessuna parte e senza l’introduzione di seri principi di uguaglianza non si
trovano le risorse per raggiungere lo scopo. Barak sa che in Parlamento non ha
la maggioranza dei deputati e dei senatori per potere procedere sulla via di
queste riforme fondamentali e apre all’opposizione:”Facciamo queste riforme
insieme, sono aperto a nuove idee, altrimenti ci aspettano anni di grandi
difficoltà”. Anche in questo caso il Presidente testimonia un grande senso di
realismo, ma anche di fermezza: “Altrimenti le detrazioni fiscali di cui godono
i ricchi dovranno essere soppresse”. Si riferisce, in questo caso, al grande
regalo concesso da Bush alle classi americane più ricche che usufruiscono
ancora di notevoli benefici fiscali, probabile causa della grande depressione
economica che sta attraversando l’America. Certo è che con Obama è stato
introdotto in America il concetto di Socialismo dei ricchi, una cosa assurda
per i grandi teorici del liberismo economico, cioè promuovere grandi
investimenti statali per salvare le grandi banche e le grandi imprese dal fallimento, ma ciò, se non altro, ha
dimostrato che la politica serve proprio a questo: rendere possibile ciò che la
teoria ritiene impraticabile. Però a differenza di ciò che accade in Italia,
Obama da un lato ha concesso gli aiuti alle imprese, come una boccata di
ossigeno, ma dall’altro canto ha preteso che i soldi dello Stato fossero
restituiti. E ciò lo sa bene il nostro Marchionne che ne è stato un
beneficiario per la ristrutturazione della Chrysler, soltanto che con Obama fa
l’amerikano, mentre con Monti vuole fare l’indiano come quanto prometteva venti
miliardi di investimenti in Italia magari dietro inconfessabili contropartite.
Insomma, Obama sarà pure un ricco capitalista, ma certamente è un uomo che ha
compreso appieno il suo tempo, che sa interpretare i bisogni di una società in trasformazione
e che deve tracciare un nuovo orizzonte per quello che per lunghi anni è stato
il sogno americano. Lo fa con sincerità, con garbo, con sentimento, con onestà
e anche con molta autorevolezza. Forse sono questi i motivi per cui in Italia tutti sono
pazzi per Obama.
mercoledì 31 ottobre 2012
Le sfide di Crocetta tra ipotesi di sviluppo e timori di immobilismo
Le elezioni regionali del 28 ottobre scorso
consegnano ai siciliani un risultato di grande sconvolgimento del panorama
sociale e politico dell’isola. L’elezione di Rosario Crocetta costituisce senza
alcun dubbio una rottura significativa con una prassi consolidata che ha visto
susseguirsi alla Presidenza della Regione, tranne qualche eccezione, personaggi del blocco di potere dominante,
cioè il blocco affaristico-mafioso-clientelare. L’irrompere sulla scena
politica siciliana di quello che, a ragione, è stato definito il ciclone
Grillo, costituisce, altresì, un altro elemento di rottura rispetto all’atteggiamento,
spesso corresponsabile, che larga parte del popolo siciliano ha conservato nei
confronti della propria classe dirigente. Parlare di una presa di coscienza
popolare del declino di una Regione, che della propria autonomia ha fatto una
fiera prerogativa, e dell’esigenza di avviare una nuova fase di riscatto e di
libertà, è ancora troppo presto, ma non c’è alcun dubbio che queste elezioni
hanno creato uno spartiacque tra il prima e il dopo di questa stagione
elettorale. La presenza di Grillo, sottovalutata fino alla vigilia da tutte le
forze politiche in campo, ha sparigliato le carte della politica siciliana e
reso definitivamente impraticabile quel nuovo
connubio che fino a pochi mesi prima aveva caratterizzato il nuovo blocco di
potere tra MPA-PD-UDC, anche se durante
la campagna elettorale molti dei protagonisti si sono affannati a riproporlo
come possibile rimedio rispetto alla palesata impossibilità, rilevata
attraverso i sondaggi, di dare vita ad una maggioranza organica di governo,
giusto sull’esempio delle larghe intese che sostengono il governo Monti.
Malgrado, però, queste novità e questi stravolgimenti, le elezioni non hanno
sciolto tutti i nodi lasciati in eredità dal precedente governo Lombardo, per l’impossibilità
di costituire un governo al quale affiancare una organica maggioranza
parlamentare. Anzi, ad un’attenta lettura dei risultati, la composizione dei
seggi in larga parte rappresenta proprio il vecchio blocco di potere, anche se
in qualche caso rinnovato negli uomini ma non certo nella volontà di favorire
il rinnovamento delle istituzioni. Crocetta, dunque, dovrà muoversi
necessariamente al di fuori degli schemi classici e formare un governo capace
di raccogliere consenso innanzitutto fuori dall’istituzione, nell’opinione
pubblica, per condizionare l’assemblea regionale e puntare su una forma di
trasversalità capace di privilegiare cambiamento e innovazione a discapito
della fame di potere dei partiti e dei loro interessi clientelari e mal
affaristici. Un governo, perciò, di competenti, di persone oneste e senza “storie”
di cui vergognarsi, non necessariamente di appartenenza, privi di vincoli verso
consorterie e massonerie di vario genere. Lo vuole il popolo siciliano, ma è
anche una necessità dovuta alla contingenza di una Regione che si trova sull’orlo
di un baratro economico, una Regione alla quale non solo manca l’autorevolezza
di una classe dirigente all’altezza della situazione, ma che si trova anche
priva di un progetto di futuro. La recente campagna elettorale è stata
caratterizzata da troppi slogans e da pochi proponimenti, dall’assenza di idee
credibili e spendibili, dalla mancanza di autorevolezza senza la quale
qualunque progetto resta solo un buon proposito senza quella spinta
motivazionale capace di conquistare il cuore di un popolo sofferente. Con lo
zainetto sulle spalle, dalle nostre parti si può andare solo a raccogliere “babbaluci”,
non basta l’audacia di un rottamatore, l’arroganza giovanilistica e
inconcludente a mobilitare le masse. A chi rimprovera i cittadini di non essere
stati lungimiranti per avere disertato le urne facendo, così, perdere l’opportunità
di eleggere un deputato locale, occorre rinfacciare come il familismo amorale, fenomeno
di cui si sono occupati autorevoli studiosi come Alberto Alesina e Andrea
Ichino, trova indulgenza soltanto in quelle plaghe sottosviluppate economicamente
e culturalmente, non certo nell’area iblea, dove, fortunatamente, alligna la
fierezza di quelle genti che hanno saputo determinare il proprio destino grazie
alle proprie capacità, all’intelligenza e all’ansia di libertà che le ha
animate. Sono le scelte da intraprendere
che caratterizzerà il nuovo governo della Regione Sicilia, ed i tagli non
possono che essere un corollario necessario e irrinunciabile dell’azione di
Governo, perché solo dai tagli possono arrivare le risorse per pagare il debito
e rilanciare lo sviluppo. Non è più, dunque, rinviabile il nodo della Formazione Professionale, per la quale la
Regione spende oltre 500 milioni di euro l’anno per mantenere un apparato
clientelare di nessuna utilità per i disoccupati; il nodo della forestazione,
altro carrozzone clientelare svicolato da qualunque ipotesi di sviluppo
produttivo del territorio; il pesante carrozzone burocratico della Regione dove
maggiormente si alligna l’intreccio clientelare-affaristico-mafioso; la sanità
sulla quale pesano interessi trasversali di casta che alimentano la spesa senza
contropartite in termini di efficienza ed efficacia dei servizi resi ai cittadini; i
fondi europei, bloccati da interessi clientelari e mafiosi, utilizzati finora in
minima parte e solo per favorire un dilagante malcostume dal quale nessuna
istituzione, anche la scuola, risulta ormai estranea. Da questi comparti, oltre
che da un rinnovato rapporto tra Stato e Regione, possono venire le risorse da
destinare ai territori e ai ceti produttivi per rilanciare l’economia. Ma qui è
necessario allontanare i centri di spesa dalla Regione. Occorre una riforma
dell’istituzione regionale che la privi
da qualunque attività di gestione, se non per quelle altamente qualificate
(quali grandi infrastrutture, gestione
delle calamità naturali ecc.), per dare più risorse, più mezzi, più autonomia ai
territori, riservando ad essa compiti legislativi e di controllo. La
ridefinizione delle provincie può essere l’occasione per fare scelte coraggiose
e innovative in direzione del decentramento, basterebbero tre o quattro macro
aree su cui disegnare il nuovo assetto amministrativo cui far corrispondere
altrettanti progetti di sviluppo in sintonia con le vocazioni territoriali, senza
attardarsi su inutili quanto stereotipate posizioni di retroguardia a difesa
dell’assetto istituzionali esistente. Dieci proposte di legge per cambiare la
Sicilia che il nuovo governo dovrebbe sottoporre all’Assemblea Regionale entro i
primi cento giorni, oppure il ritorno alle elezioni. Su un’ipotesi del genere
si scommette il futuro della Sicilia per evitare la più gattopardesca delle soluzioni: l'inciucio. Crocetta, rivoluzionario bon grè mal grè .
mercoledì 17 ottobre 2012
Dopo lo "sbarco" di Grillo la Sicilia potrebbe non essere più la stessa
Dopo lo “sbarco” di Grillo, le
elezioni in Sicilia sembrano non avere più storia. Su un aspetto della campagna
elettorale sembra oramai acquisito un fatto: Grillo conquista le piazze. Mai
vista tanta gente dai tempi in cui arrivavano i big nazionali come Berlinguer,
Moro e tanti altri. Qualcuno dice che la gente è attratta dal Grillo comico,
dallo spettacolo. Ma tanto si sa, quando la volpe non arriva all’uva dice che è
acerba. La verità è ben più tragica, ed è chiaro che nell’epoca in cui i
partiti come organizzazioni sono letteralmente spariti dalla scena e tanti
piccoli scilipoti devono confrontarsi sul terreno della comunicazione, allora
veramente non c’è più storia, chi lo frega Grillo che è un guru della
comunicazione, chi può vincerlo sul terreno che gli è proprio? Non sappiamo
cos’altro si inventerà prima della conclusione della campagna elettorale, ma lo
“sbarco” in Sicilia attraversando lo Stretto di Messina a nuoto è stata una
trovata geniale. Ci stanno tutte le proprietà per la costruzione di un evento
capace di tramutarsi in mito. Preparato con l’annuncio attraverso la stampa, ha
creato curiosità ed attesa, ha scommesso sul coraggio e sulla forza. Si è
preparato bene per recitare la parte dell’eroe in quest’arena dove parecchi
sono i cavalieri che competono con le spade spuntate per le loro qualità di onorevoli
falliti o di outsider buttati lì dai pupari più furbi, quelli che capiscono che
non è aria che tira e che è meglio aspettare momenti migliori. D’altronde non
sono stati i dirigenti dei partiti a scommettere sul carisma, sul personalismo
al posto del collettivo? Mi ricordo ancora, tanto tempo fa, quando i comunisti
e i democristiani affiggevano i manifesti con i loro simboli, la falce e il
martello o lo scudo crociato, evitando di esporre facce ammiccanti e spesso
anche stucchevoli, tempi in cui si andava porta a porta a parlare con la gente.
Oggi, a causa di un’errata interpretazione della modernità, nel simbolo si
trovano i nomi dei leader, con il risultato che trombato il leader non resta nemmeno
il partito. Quasi tutti hanno voluto puntare sulla forza del proprio carisma
personale, costruito a colpi di frasi ad effetto, sulla propria capacità di
“bucare il video”, a discapito dei programmi e del buon governo. Ma se tutto
ciò può andare bene per chi si presenta ingenuamente per la prima volta al
cospetto dell’elettorato, altrettanto non si può certo dire per chi ha
governato per venti anni. E’ emblematico il video che mostra il candidato
Presidente Miccichè che parla in una piazza quasi deserta davanti ad uno
striscione sorretto da un gruppetto di ragazzi su cui campeggia la scritta:”17
anni con Lombardo, Berlusconi, Cuffaro, Dell’Utri , Miccichè togliti dalle
liste elettorali!”. Qui non è più sufficiente la seduzione del tribuno bello ed
intelligente, la gente vuole resoconti, fatti e non più parole…parole…parole.
La costruzione mediatica del dirigente non funziona più, su questo terreno vince Grillo perché è il
suo mestiere. La gente chiede partecipazione, confronto delle idee, costruzione
di un progetto e certamente Grillo non è tutto questo. Grillo fa il suo
mestiere di comico, dice alla gente ciò che la gente vuole sentire. La gente sa
che i politici rubano e vuole qualcuno che glielo dice e glielo canta. I
discorsi di Grillo rafforzano il sentimento popolare e amplificano l’antipolitica.
Fanno male i politici a sottovalutare Grillo liquidandolo come un abominevole
pifferaio magico. In Sicilia la sconfitta della politica potrebbe rafforzare il
sistema clientelare-mafioso che potrebbe avere più presa su un’assemblea
regionale composta prevalentemente da personaggi inquinati e da persone
inesperte. Ma la campagna elettorale continua nell’assenza assoluta di
confronto, in piazze deserte e nella continua recita di monologhi così
omolagati che sembrano costruiti in serie dalla moderna fabbrica elettorale.
Manca una visione realistica della Sicilia di domani, manca il coraggio dell’autocritica,
mancano le idee, un progetto a cui legare le ansie e le aspettative
dei giovani, manca la capacità di rigenerare fiducia. E poi c'è un deficit di competenze necessarie per affrontare seriamente il nodo
della riforma della Regione, presupposto utile ed inderogabile per la sua
rinascita morale e civile, senza la quale è impossibile parlare di sviluppo.
Così, mentre i cittadini continuano con sacrificio e timore ad affrontare le
loro giornate pervase ed aggravate dai problemi di sempre, continuano gli
eventi inventati da Grillo tra gli applausi e gli entusiasmi di quel popolo
che, ancora una volta resta sedotto, come scriveva Antonio Gramsci nei
Quaderni:”… «dall’ammirazione ingenua e fanatica per l’intelligenza come tale,
per l’uomo intelligente come tale… forse unica forma di sciovinismo popolare in
Italia”. Alla fine, com’è successo per l’altro “sbarco” più famoso, molti
chiederanno di dedicargli una strada o costruirgli
un monumento, magari senza sapere perché.
martedì 16 ottobre 2012
Risolto il caso della piccola disabile privata dell’assistenza, ma chi paga per l’incuria?
Ho letto oggi sul giornale “La Sicilia” che
l’Assessore Giovanni Caruano ha chiesto scusa alle famiglie per i ritardi con
cui il Comune di Vittoria ha provveduto ad assegnare il personale alle scuole
per occuparsi dei bambini disabili. Ho colto in questo gesto un segno di civiltà
e di educazione che è difficile trovare in questo deserto che è diventato la
politica nel nostro territorio. Ma mi sono chiesto anche, come credo se lo chiedano
tanti altri cittadini, chi paga per questo ritardo che non trova nessuna giustificazione?
In questo caso non si possono addurre scuse banali o di semplice circostanza,
non si possono invocare i soliti ritardi nei trasferimenti della regione, delle
risorse sottratte agli Enti Locali dal Governo Monti, quando poi si assiste,
malgrado i continui piagnistei e mugugni, all’assunzione di esperti per i quali
possono esprimersi solo seri e fondati giudizi di inopportunità. Anzi, in
questa circostanza sono stati addotti motivi legati ai tempi tecnici necessari
per l’espletamento della gara, ma allora viene da chiedersi perché non si è
provveduto in tempo utile? Perché per fare una disinfestazione bisogna
aspettare sempre l’arrivo inoltrato dell’estate, per pulire le spiagge aspettare il mese di agosto? Perché i servizi
arrivano sempre alla fine, quando ormai non servono più? Mi chiedo allora, come
se lo chiedono tanti cittadini, ma che fanno i dirigenti del Comune, come viene
valutato il loro lavoro, ma, soprattutto, con quali criteri sono scelti dall’amministrazione
e quali sono i provvedimenti adottati in caso di inefficienza o di inadeguatezza rispetto al ruolo che svolgono?
Sarebbe ora, che di fronte all’ennesimo ingiustificato ritardo che ha costretto
una famiglia a rivolgersi ai carabinieri per avere riconosciuto un diritto
sacrosanto, subendo l’umiliazione di finire pure sulle pagine dei giornali, ci
fosse un provvedimento disciplinare, uno solo, per potere dimostrare,
finalmente, di esercitare utilmente
l’incarico politico ricevuto dai cittadini. Una volta gli alti burocrati
lamentavano il fatto che da loro ci si aspettavano i miracoli a fronte di
stipendi miserabili, ma oggi ci sono dirigenti che costano alle casse comunali
oltre centomila euro l’anno ed è giusto che vengano censurati quando dimostrano
di non essere all’altezza della situazione.
giovedì 11 ottobre 2012
Noi, i ragazzi del ' 68.
E’ arrivato l’autunno, ma non perché cadono le foglie, perché scendono
in piazza gli studenti. E’ un autunno diverso questo, con tutti i climi caldi,
sul fronte della scuola, della politica, del lavoro, del tempo. La FLC della
CGIL prova a coniugare le rivendicazioni
dei lavoratori con quelle degli studenti chiamandoli a partecipare alla
giornata di mobilitazione del 12 ottobre, per denunciare quel disagio che
colpisce, ormai, fasce molto estese della società italiana. Questa coniugazione
di obiettivi, questo provare a lottare, questa denuncia condivisa di operai e
studenti mi riporta alla memoria il primo autunno caldo, quello del 1969. Fu
quello il periodo che seguiva la straordinaria stagione del ’68, un’epoca
magica che investì tutto il mondo e che anticipò, con tutta la sua carica
innovativa, gli avvenimenti più salienti del secolo scorso, dalla guerra in
Vietnam fino alla caduta del muro di Berlino e all’implosione del sistema
comunista. Ma anche in quella occasione, come oggi, i problemi del nostro Paese
erano diversi rispetto al resto del mondo. Negli Stati Uniti d’America il ’68 si
contrassegnò per l’avversione dei giovani alla guerra in Vietnam, mentre nelle
università si avvertiva forte il bisogno di confrontarsi sui problemi dei
diritti civili, così le istanze pacifiste si mescolavano con la forte insofferenza
verso la guerra in una società in cui la popolazione di colore si raccoglieva e
lottava attratta dal pensiero di Martin Luther King, il quale non si stancava di
ripetere: "Riteniamo queste
verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati
uguali". L’America liberale, così, per la prima volta, si trovava ad affrontare
la soluzione di un nodo cruciale e cioè se in una società libera e democratica
potessero sussistere le gravi discriminazioni razziali e le pratiche
segregazioniste che intellettuali e giovani studenti denunciavano apertamente,
non più soltanto nelle scuole, ma in tutte le piazze d’America. In Italia,
invece, i problemi che masse di giovani denunciavano per primi nelle scuole e
nelle piazze di tutti i paesi, dal nord al sud, riguardavano non solo la
condizione di una scuola pensata e vissuta ancora secondo i canoni di una
legislazione e una prassi organizzativa risalente al ventennio fascista, ma
soprattutto il profilo autoritario e dirigista che ancora caratterizzava i
luoghi della connivenza civile, dalla famiglia alla scuola, dalle fabbriche alle
campagne, perfino le articolazioni dello Stato. Fino ad allora si era pensato
che, con la fine della seconda guerra mondiale, nel mondo si fosse aperta una
pagina nuova nella storia dell’umanità, che i principi conquistati nel corso
della rivoluzione francese, libertà uguaglianza fraternità, potessero
finalmente essere accolti e praticati in tutti i paesi civili, che i milioni di
caduti fossero il prezzo da pagare per dare, finalmente, all’umanità un futuro
di pace e di libertà. Il periodo immediatamente successivo alla guerra fu in
Italia, in effetti, un momento di grande risveglio civile e culturale, capace
di segnare grandi conquiste popolari, come, per esempio, il suffragio
universale, la Costituzione che, ancora oggi, rimane uno degli strumenti
giuridici più efficaci e straordinari del mondo. Ma la guerra fredda, con tutti
i suoi angoscianti postulati di paura e di morte, finì per spegnere quegli
entusiasmi, e la società italiana ripiombò nell’immobilismo, così quel primo
tentativo riformatore, avviato subito dopo la guerra, che avrebbe dovuto
portare l’Italia ad allinearsi con gli altri paesi occidentali, cedette il
passo ad un lungo periodo di stagnazione raffreddando il processo di
cambiamento dello Stato, che pur dotato di una Costituzione avanzata sotto il profilo civile
e sociale, rimaneva, nelle sue forme organizzative, pressappoco ai livelli
dello Statuto Albertino con qualche ritocco operato dal governo fascista che certamente
non si era ispirato a principi di giustizia e di eguaglianza. Il movimento
degli studenti del ’68 fu, così, l’alba di un generale risveglio della società
italiana, all’inizio perfino poco compreso da gran parte della sinistra storica
italiana. Fu una voglia di liberarsi da riti e metodi che avevano caratterizzato una società
chiusa e bigotta, dove una minoranza della popolazione, quella ricca e ben
accreditata, poteva porre fine al matrimonio e perfino abortire, frequentare le
scuole private, prepararsi a diventare classe dirigente apprendendo saperi e
pratiche estranee alla scuola pubblica che, prevalentemente, era rimasta
ancora, dopo sessant’anni, la scuola di Giovanni Gentile, una scuola ancora
fascista nei principi e nella prassi.
Almeno, così appariva a me stesso, costretto a subire ogni mattina il sequestro
del giornale quotidiano dove scrivevo da corrispondente, perché non era
previsto il giornale in classe dai “programmi ministeriali”. Ecco il bisogno di
essere alternativi e dissacranti, non violenti ma rivoluzionari, comunque
portatori di istanze che andavano ben aldilà della mancanza di bidelli o di
aule sovraffollate e prive di riscaldamento.
Un movimento, perciò, diverso dagli altri che nello stesso periodo si
sviluppavano in Francia e Germania o negli Stati Uniti d’America, proprio perché
in Italia toccavano aspetti essenziali della società e dello Stato, una condizione
che ben si confaceva alla critica di Herbert Marcuse, all’epoca molto letto
dagli studenti, secondo il quale le società industriali, ivi ricomprendendo
anche quelle socialiste, erano inevitabilmente portatrici di una morale sostanzialmente
repressiva, includendo nel proprio pensiero pessimista ciò che Adorno e
Horkheimer avevano sostenuto circa il rapporto tra sviluppo tecnologico ed emancipazione delle
masse. Marcuse, per tornare ai giorni nostri, con la sua opera, che io ritengo
fra i più importanti prodotti culturali del secolo scorso, “L’ uomo a una
dimensione”, anticipava di molto ciò che oggi è di tutta evidenza riguardo al
carattere fortemente repressivo della società industriale avanzata, una società
capace soltanto di ridurre l’uomo alla semplice ed unica dimensione di
consumatore, un uomo felice e stupido nello stesso tempo, che considera libertà
quella di potere consumare tra prodotti diversi. E’ questa una condizione che
il ventennio berlusconiano in Italia ha
reso molto più drammatica del resto del mondo, perché rafforzata negativamente
dalla povertà culturale, dal malcostume e dall’incapacità delle classi
dirigenti, cosa che oggi rende più difficile l’affermazione di un processo
civile ed economico in sintonia con i Paesi più avanzati. Spetta ai giovani,
ancora una volta, interpretare il mondo per cambiare in senso progressivo lo
stato delle cose esistente, perché hanno la forza delle idee, la voglia del
cambiamento, il diritto di essere protagonisti. La CGIL, promuovendo questa
giornata, che è anche di incontro tra giovani e lavoratori, non ripete l’errore
di quegli anni, quando gli studenti furono visti con tanto sospetto,
recuperando, invece, tutta la potenzialità di quell’autunno “caldo” del 1969, allorché
operai e studenti si incontrarono per la prima volta in una battaglia comune di
cambiamento. Sono convinto di ciò perché osservo, parlando con molti giovani,
che loro sono portatori, oltre che dei bisogni propri della scuola, anche dei
problemi vissuti drammaticamente nell’ambito familiare, problemi di disagio
economico, di mancanza di prospettive, di solitudine. Io, per motivi di salute,
non potrò essere presente alla manifestazione degli studenti di domani, ma lo
sarò col cuore e con la mente e auguro alle
ragazze e ai ragazzi e a tutti gli operatori della scuola che parteciperanno,
di essere antesignani di un nuovo grande periodo di riscatto morale e civile
che, muovendo dalla scuola e dai suoi bisogni, sappia cogliere l’esigenza di
riappropriarsi dei diritti prima conquistati ed oggi negati e, soprattutto, del
proprio futuro.
martedì 9 ottobre 2012
Psicosociologia del manifesto elettorale
C’è da chiedersi se vale la pena di
finire in coma per difendere il diritto di affissione di un manifesto elettorale. Nel caso di un
ragazzo che trae l’opportunità di guadagnare qualcosa, in tempi davvero grami per chi
ancora un lavoro non ce l'ha, può essere anche comprensibile, ma per
tutti gli altri non lo è. Non lo è per coloro che militanti di un partito
dovrebbero essere rispettosi delle più elementari regole di civiltà, non lo è
per i candidati i quali, ancora non approdati in parlamento, già fanno
esercizio di un discutibile metodo di affidamento della propria propaganda elettorale
ricorrendo ad elementi violenti e, a volte, anche poco raccomandabili sotto il
profilo della fedina penale. C’è da chiedersi, poi, se vale la pena continuare
a svolgere la campagna elettorale veicolando la propria immagine attraverso i
manifesti elettorali, surrogato anche degli spot televisivi che, per contenuti
e qualità, non sono dissimili dai primi. Tutti si affannano a scrivere di onestà
e legalità, ma di fatto sono i primi a violare la legge, disseminando le città
di quintali di cartaccia e di colla che spetta ai Comuni poi bonificare a spese
dei contribuenti. Carta spesso stracciata e buttata con noncuranza per le vie cittadine,
unitamente ad altri quintali di volantini e “santini” pieni di facce multicolori,
ora ammiccanti ora sorridenti, spesso ridondanti di sicula scipitanza. Onestamente occorre dire, ma solo in alcuni
casi, certi candidati, di persona, riescono a dare un’immagine anche migliore
di sé. Per il resto, sembrano tanti pupi siciliani, messi rigorosamente tutti in fila,
appittati di tutto punto, appaiono come tante facce artificiali, ora serie ora felici,
e ci vorrebbero i cantastorie per spiegare il significato dei loro messaggi.
Quasi sempre si tratta di una comunicazione “fai da te”, perché questi futuri
onorevoli hanno anche la fottuta presunzione di capire di comunicazione,
oppure si affidano a qualche pseudo giornalista di quelli che si aggirano in
cerca di fortuna in molti siti istituzionali, retribuiti, come è prassi, a carico del povero contribuente. Così c’è
quello che compiaciuto afferma tout court “sugnu sicilianu”, credendo di
concorrere alle elezioni della Lombardia dove, per l’appunto, nessuno ne conoscerebbe
la provenienza; e c’è quello che, già condannato per peculato, dice: “non parole,
ma fatti”, evidentemente riferendosi ai fatti criminosi per cui è stato processato;
c’è poi quello che fresco reduce dalla galera, comunica di essere umile, alla
faccia di chi ancora non crede nella capacità rieducativa della detenzione. Ci
sono, poi, quelli che si sono riscoperti rivoluzionari tout court, altri che fanno riferimento alla primavera araba e al
protagonismo spontaneo delle grandi masse popolari, la cui domanda di dignità è da intendersi come
rispetto dei diritti e dei bisogni delle persone. Purtroppo ai comizi di questi
novelli rivoluzionari mancano proprie le masse popolari e a stento si
intravedono gli amici e i parenti più
stretti. Per non parlare, infine, di coloro che sostengono che la rivoluzione
si può fare solo governando, e questo mi ha colpito molto, perché sovverte, e
qui c’è il fatto rivoluzionario, il principio stesso su cui poggia la vocazione
rivoluzionaria; infatti, se prima con rivoluzione si è inteso il radicale
cambiamento della forma di governo mediante l’azione del popolo, adesso è il
governo che si propone, mediante l’azione rivoluzionaria, di cambiare il
popolo. L’asserzione è di tale portata che solo un paragone regge al confronto,
allorché Galileo Galilei affermò nel suo manifesto elettorale “.. e pur si
muove!”, intendendo così che era la terra a girare intorno al sole e non
viceversa. A mio avviso, però, il manifesto elettorale che più mi ha affascinato
per l’impeto di sincerità e di onestà che ha saputo esprimere, e che resta una
pietra miliare nella storia della
comunicazione, è quello di Cetto La Qualunque quando afferma: “I have no dream,
ma mi piaci ‘u pilu”.
giovedì 4 ottobre 2012
Dialogo molto serio sull'immondizia
“Mamma, perché il sindaco non
toglie l’immondizia dalla strada?” Chiedeva ieri il piccolo alla sua mamma
mentre lo conduceva a scuola. “Stai attento alla strada, non vedi che passano
le macchine!” . “Mamma, ma il sindaco non deve risolvere i problemi dei
cittadini, perché non toglie l’immondizia? . “Ricordati che oggi viene a
prenderti papà e non dimenticare la merendina dentro lo zainetto!”.” Va bene
mamma, lo chiederò alla maestra perché il sindaco non toglie l’immondizia dalle
strade!” Avranno sicuramente un gran da fare le maestre nelle nostre scuole a
spiegare ai bambini come si fa a rispettare l’ambiente, quando cumuli di
immondizie sovrastano gli ingressi delle scuole e centinaia di discariche
abusive, ormai da anni, abbrutiscono un territorio una volta bellissimo, poi
deturpato dal cemento colato a tonnellate sotto lo sguardo di amministratori “distratti”,
oggi ingiuriato dal fetore e dalla vista
dissacrante di sacchi multicolori. All’immondizia ci si abitua. Come ci si
abitua alle prepotenze e alla violenza. E’ così che il senso comune si forma e
costruisce la coscienza collettiva che s’incunea fino a plasmare la coscienza
del singolo individuo. Oggi si riunisce il consiglio comunale, come l’anno
scorso, per decidere come il sindaco deve togliere l’immondizia dalle strade. Sapranno
i nostri eroi decidere in modo che le maestre diano una risposta ai bambini prima
che arrivino all’esame di maturità?
venerdì 28 settembre 2012
Elezioni in Sicilia, la rivoluzione dei gattopardi!
Mi sono chiesto se le dimissioni
del Governo Lombardo potrebbero essere un’opportunità per la Sicilia. La Storia
ci insegna che qualche volta dalle macerie sorgono occasioni e sviluppi
imprevisti, ma dopo queste prime battute di campagna elettorale, mi sono
convinto ancora di più del fatalismo di noi siciliani.
Ancora una volta altri hanno deciso per noi, in luoghi lontani. I presidenti
candidati che raccolgono allo stato i maggiori consensi, Musumeci e Crocetta,
sono stati scelti a Roma, il primo da Berlusconi, il secondo da Casini e da Bersani.
C’è da credere, pure, che dopo la defaillance di Fava, la soluzione della
sindacalista FIOM sia stata concepita altrove. Gli altri sono il prodotto
tipico di un certo ribellismo isolano, mai produttivo di alcunché. E’ la storia
delle classi dirigenti di quest’isola sfortunata, pronte a prostrarsi pur di
garantirsi meschini privilegi e laute prebende. Una massa acritica ed un’elite
di furbi costituiscono la strana mistura che ci fa tanto “brutti, sporchi e
cattivi”, ancora una volta il solito film che sa tanto di dejavu. E a livello
locale lo schema non è cambiato, la stessa classe dirigente che si era
prostrata verso Roma, ha preteso la stessa prostrazione dei più piccoli
notabili locali, decidendo le candidature secondo il peso delle signorie
palermitane. Le primarie, la partecipazione degli iscritti e degli elettori, i
programmi: cose che si scrivono negli statuti, per la plebe. La Sicilia, così,
non va avanti, anzi sembra rovinosamente precipitare indietro. Qualcuno ha
sostenuto che è di quattro secoli il gap socioeconomico tra la Sicilia e il
resto dell’Europa più progredita. E forse è vero, considerato che nessuna
rivoluzione ha inciso nell’Isola come negli altri Paesi. Né la rivoluzione
liberale francese, né la rivoluzione industriale novecentesca, né la
rivoluzione digitale di oggi ha prodotto cambiamenti radicali se la struttura politica
e morale, ancora oggi, si ispira alle funzioni tipiche del medioevo, qui dove,
per una maliziosa furbizia della storia, nacque il primo parlamento del mondo.
Il trasformismo sembra irrimediabilmente il metodo più congeniale ai politici siciliani.
Ex galeotti, ex corrotti, ex ladri, ex inutili, di fronte al più grande
fallimento politico che la Storia della Sicilia abbia mai registrato (un ex
presidente in carcere, un altro inquisito e dimissionario), oggi ritornano con
una faccia, da puttana?, non c’è altro termine, per ribadire che la Sicilia ha
bisogno del loro insostituibile contributo (sic!). Ma ciò è tanto più grave allorché
forze mature per segnare l’era del cambiamento allestiscono scialuppe per
raccogliere naufraghi di ogni tipo con l’intento, manifesto, di vincere a
qualunque costo una partita che sembra truccata in partenza. In un articolo
apparso su la Sicilia dello scorso mese di agosto, il professore Francesco
Renda, dopo un’analisi appassionata della situazione politica siciliana,
auspicava un intervento decisivo di Roma per dirimere la complicata matassa
della politica siciliana, non intravedendo una soluzione facile di fronte alla
complessa vicenda regionale. Ma se Sparta piange Atene non ride, tant’è che
tutti gli osservatori internazionali continuano ad auspicare il
commissariamento del governo italiano anche per la prossima legislatura. Penso
che la soluzione giusta per la Sicilia, a questo punto, non sarebbe il
commissariamento della Regione, un’ulteriore
umiliazione per i siciliani che di umiliazioni ne hanno già subite tante, ma
una nuova fase costituente. Basterebbe che tutti gli uomini e le donne di buona
volontà, elettori ed elettrici, trascendendo le proprie aspettative, anche le
più importanti, quale potrebbe essere la promessa di un posto di lavoro,
spulciando la lista del partito cui credono di potersi affidare, alla fine
scelgano un uomo o una donna (le donne sarebbero ancora più affidabili, perchè sono
state poche quelle che hanno sperimentato la mala politica, sempre considerando
il caso della Polverini un caso isolato), sulla base dell’onestà, della competenza,
del rigore morale, del programma, ma non il programma intriso dei soliti
slogans del tipo incentivare l’occupazione, favorire lo sviluppo dell’agricoltura
e dell’artigianato, lotta alla mafia, perché
è da cinquant’anni che dicono le stesse cose. Un’Assemblea Regionale composta
da onesti e capaci, potrebbe fare veramente la rivoluzione, del tipo: tutti i
raccomandati, a casa! Tutti i ladri, a casa! Tutti gli incapaci, a casa! I
soldi, a chi lavora! Le tasse, a chi ha rubato di più!I mafiosi, in galera! E
cosi via continuando… senza timore! Sogno.
Mi piace, per finire, proporre questa riflessione
di Leonardo Sciascia tratta dalla famosa intervista alla giornalista francese Marcelle Padovani da trascrivere su un foglietto da leggere dentro la cabina elettorale:
“La particolarissima viscosità della storia siciliana la si deve anche al fatto
che qui si è sempre sperato in cambiamenti che venivano dal di fuori e
dall’alto: ogni volta che un viceré lasciava Palermo, in tutti i quartieri
della città si faceva festa, perché si pensava che il nuovo sarebbe stato
migliore del precedente e che avrebbe finalmente apportato il cambiamento.
Nessuno tuttavia pensava a rovesciare l’istituzione, le plebi essendo
perfettamente avvezze a quest’idea del mutamento che scende dall’alto. (…) La
roba, che può essere terra, casa, stoviglie, biancheria, animali, provviste,
sembra sia solo casualmente fonte di reddito; non la si utilizza, la si lascia
dopo morti: è legata ai sentimenti che si nutrono per la famiglia, al timore
per il futuro della famiglia e alla presenza della morte. Più aumenta la
ricchezza, più aumenta la quantità di quel che lasceremo alla nostra morte, e
più la nostra stessa morte aumenta e si amplifica… Il ritmo dell’accumulo come
ritmo di morte… (…) La terra sotto il sole non è mai sicura, le disgrazie, o il
vicino, possono portartela via, bisogna vigilare fino all’allucinazione, così
come è, meglio vigilare sui membri della famiglia tenendoli sotto la propria
ala. Che cosa può capitare in realtà a qualcuno che lascia, anche
provvisoriamente, la sua casa? Può venire derubato, rapinato, oltraggiato, può
perdere l’onore, la vita. Il siciliano vive tutti insieme questi sentimenti
sotto la tonalità ossessiva del timore”. E votare, per una volta, senza timore.
martedì 25 settembre 2012
INTEGRAZIONE, QUESTA SCONOSCIUTA
Il punto con
Don Beniamino Sacco parroco della Parrocchia dello Spirito Santo
e Giovanni Lucifora, sociologo
venerdì 14 settembre 2012
Quelle torture sui gatti, un brutto segno!
Si è levato un coro di indignazione alla notizia
riguardante le sevizie consumate ai danni di due gattini, ne abbiamo parlato
pure con Giovanna Cascone nel corso della rassegna stampa di EventiSicilia. Ma
l’argomento merita un approfondimento, poiché fenomeni di questa natura,
sommati ad altre violenze di cui la stampa si occupa ormai quotidianamente,
contro i disabili, contro le donne, contro i diversi di ogni genere,
testimoniano il fatto che nel territorio si sta verificando un angoscioso
aumento dell’aggressività. Occorre premettere che l’aggressività è connaturata
nell’individuo, addirittura Konrad Lorenz la definisce come un aspetto positivo
dell’indole umana a presidio della propria conservazione, necessaria per
garantirsi l’accoppiamento e provvedere alle funzioni vitali. Lo stesso Freud
la considera una pulsione innata alla stessa stregua della pulsione sessuale.
Il male, dunque, esiste ed è segnato nel nostro patrimonio genetico, è
un’azione che presiede i nostri bisogni fondamentali. Così, il dolore (il male)
ci avverte di un pericolo per la vita, il piacere (il bene) ci spinge alle
azioni che presidiano e sviluppano la vita come il mangiare, il dormire,
l’accoppiarsi. L’uomo, però, da animale dotato di cultura, attraverso il
processo di civilizzazione, non solo ha trovato il modo di soddisfare i propri
bisogni fondamentali mediante l’adozione di strategie sempre più sofisticate,
ma ha pure concepito nuove forme di espressione del piacere e del dolore fino a
rendere ambiguo il discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male, fino a
pervenire ad un processo di fascinazione del male che è andato oltre il male
“necessario”. La guerra è la massima espressione del male, ma la “cultura” in
ogni epoca l’ha presentata come “male necessario” per la convivenza civile,
fino alla degenerazione estrema dello sterminio. Così i romani la ritenevano
essenziale per il mantenimento della pace (si vis pacem, para bellum), oggi la
si definisce semplicemente “missione di pace”, cancellando così del tutto il
residuo di “male” insito nell’azione di guerra, con il risultato che uccidere
per la pace trapassa dal genere “male” al genere “bene”. Esempio di tale
degenerazione sono i videogames ove si uccide, certamente per la pace, che
possono liberamente essere utilizzati anche dai bambini, maschi e femmine,
perché le bambine, in questi giochi, inzuppate di tritolo, si fanno esplodere
per la causa. Siamo pervenuti, dunque, ad una degenerazione dei valori che per
millenni hanno presidiato la convivenza civile, ciò che il sociologo Zygmunt
Bauman definisce come passaggio dalla società solida alla società liquida, un
mondo, cioè, che vede la trasformazione delle persone da produttori a
consumatori, dove l’esclusione sociale non si misura più per la propria
estraneità dal mondo produttivo, ma per la non appartenenza alla modernità
intesa come capacità di consumare. L’aumento del sentimento della frustrazione,
così, a causa della perdita di sicurezza, costringe sempre più persone ad
adeguarsi alle abitudini di taluni gruppi, considerati emergenti, secondo un
processo di omologazione e di assorbimento di modelli culturali, di usi e di
consuetudini che in un determinato momento storico caratterizzano il contesto
sociale di riferimento, anche a causa della svalutazione del senso critico
individuale e collettivo.
Ritornando al problema dell’aggressività sociale,
dunque, non possiamo non rilevare come i comportamenti pubblici non possono non
ispirarsi alla pratica del rigore etico, rigore che non può essere confuso con
la semplice persecuzione dei reati, essendo necessario, invece, un
comportamento che serva e si proponga da esempio, perché per questo motivo si è
chiamati a svolgere la funzione pubblica. Pertanto, l’assunzione in una
pubblica amministrazione di un proprio cliente politico al posto di un
cittadino che ne ha diritto, l’uso spregiudicato del denaro pubblico per scopi
non propri essenziali alla collettività, il venire meno agli obblighi assunti
solennemente al cospetto dei cittadini quale quello di mantenere pulita la
città e di garantire il funzionamento dei servizi per i bambini, gli anziani e
i disabili, a fronte, invece, di spese per consulenti ed amministratori
incapaci ed inconcludenti, costituisce una delle cause, se non la più
importante, sulla quale si fonda la degenerazione dei comportamenti sociali.
Altrettanto è il farsi merito di non pagare le tasse, il parcheggio nelle aree
vietate, omettere di denunciare il pizzo, aggredire una persona anziana per
puro compiacimento. L’aggressività nella società è, perciò, come il colesterolo
nel sangue, alla giusta dose fa bene all’organismo, oltre quella misura è una
minaccia per la vita. Il medico, in questo caso, consiglia una moderazione
nell’assunzione di cibo e una vita ispirata alla pratica sportiva per mantenere
il colesterolo ai giusti livelli. Nella pratica sociale occorre dare il buon
esempio e comportarsi di conseguenza. Bene, dunque, l’indignazione per una
pratica atroce contro gli animali innocenti, ma credo che sia altrettanto
necessario testimoniare ogni giorno l’amore per gli animali, per l’ambiente, per
la vita attraverso comportamenti privati e pubblici ispirati al buon senso e al
rispetto dei diritti di tutti.
venerdì 7 settembre 2012
Caro amico ti scrivo...così mi distraggo un pò!
Ricevo
da Turi Migliore e pubblico con vero piacere la seguente nota:
Giovanni,
scusami
se pubblico qui tutta sta mappazza! L’avrei voluto fare a margine dei commenti
nel tuo blog, ma non me l’ha fatto pubblicare (Non accetta il codice antirobot che c’è da
copiare!) .Mi dispiace prendermela con te che sei stato il miglior sindaco
dell'ultimo mezzo secolo (e come sai, nel mio libro "Tuttapposto!"
sei l'unico politico vittoriese ad esserne uscito indenne), ma non posso fare a
meno di dirti: bisognava aspettare che Nicosia si dimettesse dal PD per dire
FINALMENTE pane al pane e vino al vino? So bene la tua estraneità da tutti i
giochini, ma vedo che ritieni insostituibile questo gioco malsano del
"meno peggio", della serie: questo abbiamo di partito e questo
dobbiamo bonificare. Senza questo meccanismo partigiano, il tuo sfogo
sull'Amiu, tanto per fare un esempio e restare in tema, si sarebbe potuto fare
prima, molto prima, quannu forsi ci putia aiutu. Ma soprattutto si sarebbero
potute levare altre "penne libere" come te (ce ne fossero!).Invece
c'è sempre stato il terrore di aprire critiche per non fare il gioco degli
avversari politici e delle terribili "destre"! Personalmente credo
che sia stata proprio questa codardia, questa prudenza da conservazione, questo
vendere gli interessi della città a puri e semplici clan spacciati per partiti
(Il percorso di Cicciaiello è esemplare), ha determinato la palude che oggi è
la politica vittoriese e la sinistra in particolare. Sono cose dell'altro
mondo! E che non si pensi riguardino solo gli interessati. E allora, se l'Amiu
è la struttura più inquietante ed inefficiente che ci sia, se siamo l'unico
comune della provincia che non prova neppure a fare finta di fare la raccolta
differenziata; se le fumarole cancerose e tossiche continuano a squarciare il
cielo impunemente, nella famigerata "fascia trasformata"; se per
tutta l'estate le nostre strade extraurbane non sono riuscite a fare a meno di
ospitare inauditi cumuli di munnezza putrescente e rifiuti pericolosi da
mostrare in bella vista ai pochi turisti che passano da queste parti (e che
fuggono solo dopo poche ore); se nessuna voce si è levata, 10 anni fa, nei
confronti di quella vergognosa gara di cavalli per le vie della città, spacciata
per Palio ma gestita da malavitosi che spadroneggiavano come sceriffi; se non
esiste una vera e propria categoria di giornalisti locali ma solo
"copincollisti" e lacché che altro non fanno che omettere o far finta
di essersene dimenticati; se non si ha la lungimiranza per capire quanto si
potrebbe fare in termini di turismo colto e qualitativo, solo se si riuscisse
ad "agganciare" la città ed il territorio ad un fenomeno che è già
mondiale da almeno un ventennio: il Cerasuolo di Vittoria. Se tutto ciò, e
molto altro ancora, è accaduto o non è stato fatto, la colpa non è della
politica della sinistra e del tuo partito in particolare che è stato sempre al
timone? Cosa bisognerà fare allora, in futuro, per evitare di sbagliare ancora?
(ma non c'è più tempo e ormai è troppo tardi) Cosa sarebbe giusto fare oggi?
Quando dici che i partiti sono insostituibili mi muore il cuore! A Parma, ma
pure a Mira (VE), a Sarego (VI), a Comacchio (RA), sono riusciti a cacciarli i
partiti e ora stanno governando i cittadini. Ma lì c'è una società civile, a
Vittoria, già la parola provoca un fremito di fastidio e a volte pure di
repulsione.
Facci caso, prova a pronunciare davanti ad un
politico la parola "società civile", e vedrai che faccia farà, che
espressione schifata sfodererà! Il meglio dei vittoriesi è fuggito, caro
Giovanni, e sono rimasti solo le mediocrità, ed ora non ci si può lamentare se
l'Amiu è diventata un covo (fosse solo l'Amiu!). Oggi come oggi,caro Giovanni,
c'è da fare solo un gran lavoro distruttivo, per poi ovviamente ricostruire
tutto ex novo. Ma per fare ciò è pur vero che servirebbero tanti operai,
manovali, caricatori...e qui invece tutti vogliono fare gli ingegneri! Il
declino è vicino.
Caro Turi,
apprezzo le tue
riflessioni, ma sui partiti credo che sia necessario ritornare a riflettere.
Non si può governare senza i partiti in un paese democratico e, comunque, anche
nelle dittature si fa sempre riferimento, oltre al leader, ad un partito. In
pratica l’esercizio del governo fa sempre riferimento ad una azione
organizzativa, espressione di gruppi di persone che esprimono bisogni o
interessi da perseguire mediante l’uso di risorse immateriali e materiali,
strumentali ai fini (la mission) che si vogliono perseguire. I partiti, dunque,
sono delle organizzazioni che, in ossequio al dettame costituzionale, si
pongono l’obiettivo del governo del Paese. Quando tu porti l’esempio di Parma,
in effetti parli di organizzazioni nuove che si sono sostituite ad altre (i
vecchi partiti). Queste organizzazioni dovranno, comunque, esprimere una
mission, nominare dei dirigenti, indicare delle persone che dovranno assumere
degli incarichi amministrativi. Faranno, cioè, tutto quello che fanno le
organizzazioni e saranno, all’inizio, tutti duri e puri, tranne a scoprire, nel
tempo, un Lusi o un Trota qualunque tra le loro fila. L’esempio della Lega
Nord, l’organizzazione i cui dirigenti rinnovavano il proprio orgoglio di purezza bagnandosi
il capo alla foce del Po, ne è un esempio classico che, sicuramente, diverrà un caso da manuale in tutti i corsi di Scienza della Politica. Erano partiti sani e puri,
sono finiti nella cloaca delle peggiori ruberie per fini personali, senza
pagare fio. Altrettanto io ti posso portare un esempio, quello di Reggio Emilia,
dove esistono 28 aziende speciali comunali che si occupano dei bisogni più
svariati, dai bambini agli anziani, dai trasporti all’ambiente, e sono tutte
aziende in attivo e nessun amministratore risulta indagato o rinviato a
giudizio o condannato. C’è qualcosa, allora, che va oltre le forme
organizzative e che tocca la sostanza, cioè gli uomini che compongono le
organizzazioni, le loro qualità, la loro cultura, le loro aspirazioni, la loro
storia personale e collettiva, cioè tutto ciò che si incide nel DNA di un
popolo e che, ad certo punto, anche a causa degli accidenti della Storia,può
muoversi per un verso o per un altro. Ritengo utile suggerirti di leggere il
libro di Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo, che a mio avviso è esemplare nella spiegazione
dei fenomeni che portano alla formazione delle dittature o, comunque, di tutte
quelle forme di organizzazioni politiche che confluiscono in forme estreme e
distruttive. Ti suggerisco, altresì, di leggere il bellissimo volume di Amitai
Etzioni, Organizzazioni e Società, il quale descrivendo la storia dell’operaio
divenuto Segretario Generale del Partito Socialista Francese, alla fine dell’ottocento,
espone in modo davvero suggestivo e scientifico il funzionamento delle
organizzazioni ed in particolare delle organizzazioni politiche. Se lo vorrai,
dopo queste letture, sarà veramente gradito per me potere approfondirne con te
i contenuti e chissà, una buona volta, di poterci ritrovare d’accordo.Ti abbraccio con tanta stima.
mercoledì 5 settembre 2012
L'AMIU chiude. Per ammessa incapacità!
Dopo quasi mezzo
secolo, chiude a Vittoria l’azienda municipalizzata di igiene urbana. Va via un
pezzo di storia di questa Città, ma segna anche la sconfitta di tante battaglie
ideali, di tanti che hanno creduto nella pubblicità dei servizi pubblici
essenziali. Ci si potrebbe chiedere a questo punto perché lottare per l’acqua
pubblica se le premesse ci portano alle stesse conclusioni: il privato fa
risparmiare l’ente pubblico! La delibera con cui la Giunta Municipale rivolge l’invito
al Consiglio Comunale di dismettere l’azienda speciale è un capolavoro di superficialità,
di indolenza, di doppiezza. Nessun cenno
autocritico, né un esame serio ed analitico dei motivi che stanno alla base di
una scelta che, comunque, segna una svolta per Vittoria e e i suoi cittadini. Per più di
16 mesi è stato annunciato alla cittadinanza tutto e il contrario di tutto. L’ultima
trovata: l’AMIU chiude per legge! Ma come mai nella delibera della Giunta non
si fa cenno a tale legge! L’AMIU, come si legge bene nella delibera chiude per
manifesta incapacità; perché i bilanci degli ultimi cinque anni sono in perdita
di svariati milioni di euro; perché il presidente e il direttore si sono
rifiutati di rispondere alle pressanti richieste di presentazione dei rendiconti da parte degli
uffici deputati al controllo; perché come recita testualmente la delibera "l’Azienda negli
anni ha svolto una funzione sociale”, cioè è andata oltre l’esercizio delle funzioni
statutarie soddisfacendo un ingordo bisogno di pratiche clientelari
assolutamente estranee alle reali esigenze dell’Ente; perché l’Assessore alla
trasparenza ha denunciato l’Azienda alla Procura della Repubblica per la
mancata esibizione della documentazione riguardante le assunzioni del
personale. Nel frattempo il Consiglio di Amministrazione si è dimesso. Il
direttore, che dovrebbe essere il legale rappresentante dell’Azienda, tace.
Intanto la stampa incalza, per giorni e giorni, per settimane: Palazzo Iacono
annuncia la nomina di un nuovo CDA, è solo questione di ore, oggi, domani. Ma
pare che pazzi in giro non ce ne sono. Nel frattempo si annuncia un nuovo
progetto per la raccolta dei rifiuti (ma il Consiglio Comunale non l’aveva approvato
giusto l’anno scorso?) e l’avvio della raccolta differenziata entro 60 giorni.
Ma già dal primo annuncio i sessanta giorni sono trascorsi. Oggi il Sindaco
dichiara che la nomina del nuovo CDA non è prioritaria, ma allora chi governa l’Azienda?
Tutto è rinviato alle decisioni del Consiglio Comunale, il quale dovrà
dichiarare la soppressione del servizio e l’avvio della privatizzazione,
soltanto dopo il Sindaco può nominare il Liquidatore senza prima avere
presentato un Progetto di dismissione dell’azienda, che allo stato ancora non
esiste, e bandire la nuova gara. Secondo i principi della rivoluzione della
dignità enunciati da Crocetta in questi casi cosa bisognerebbe fare? Come
minimo mandare tutti a casa! Ce la farà il nostro eroe… ?
Considerato che tutti i
Comuni della provincia sono fuorilegge in materia di rifiuti perché, per legge, nessuno dovrebbe
gestire direttamente il servizio di raccolta, dovendovi provvedere, per legge, l’ATO Ambiente, non sarebbe
più utile e conveniente insediare il nuovo CDA della istituenda SRR, composto,
per legge, dai Sindaci, per
bandire l’appalto del servizio unico per tutti i comuni della provincia? Il
signor Commissario straordinario della Provincia non può intervenire per
accelerare l’iter di formazione del nuovo organismo? Non è che per caso la rivoluzione
siciliana che tutti dichiarano di volere attuare alla fine consiste nello
scaricare sempre sugli altri ogni responsabilità?
lunedì 3 settembre 2012
Una rivoluzione? Si, indigniamoci!
Ho partecipato, l’altra
sera, alla riunione della direzione provinciale del Partito Democratico,
convocata per discutere delle prossime elezioni regionali. In un Partito che
decide di iniziare una Rivoluzione, seppure della dignità, la riunione avrebbe
dovuto registrare una grande partecipazione e un notevole entusiasmo, ma né l’una
né l’altro. Visi scuri, poca voglia di parlare, né la relazione del Segretario
è stata invogliante e carica di spunti, piuttosto burocratica e scontata, come
di chi deve solo comunicare un evento di cui poco o niente si sente responsabile.
In pratica abbiamo ricevuto la comunicazione che la direzione regionale aveva
ratificato la candidatura di Rosario Crocetta a presidente della Regione Sicilia,
che, come si sa, era stato già candidato dall’UDC dopo che lo stesso si era
autocandidato. Inoltre, siamo stati informati che lo stesso Rosario Crocetta
aveva in corso una trattativa con il dimissionario sindaco di Ragusa Nello Dipasquale,
ex dirigente di Forza Italia e storico avversario del PD ragusano. Infine, una
sollecitazione ai circoli a definire le proposte di candidature per l’Assemblea
Regionale, che sarebbero state vagliate in una successiva riunione. Prendono la
parola, tra gli altri, il segretario del circolo di Vittoria, fra i più entusiasti,
per annunciare che il candidato designato dal proprio circolo era il fratello
del Sindaco Fabio Nicosia e, anche, per esprimere il proprio compiacimento per
il fatto di essere stato fra i primi a credere nella candidatura di Rosario
Crocetta. Lo segue un altro del circolo di Modica, il quale annuncia che il
circolo rivendica la candidatura di un modicano, sottolineando che lo stesso
deve essere rigorosamente di sesso maschile (qualche risata, proteste delle donne
presenti). Intervengono Gianni Battaglia e Peppe Calabrese, il primo per
sostenere la propria candidatura, l’unica che può verosimilmente contrapporsi con
successo a quella di Dipasquale (sic!), il secondo per sfogare la propria
rabbia per l’approdo del sindaco nella lista di Crocetta che rende vana la
strenua lotta condotta dallo stesso nei confronti di Nello, il sindaco
folgorato improvvisamente sulla via di Damasco. A questo punto mi assale
improvvisa la voglia di andarmene, ho come la sensazione che non mi interessa
nulla di questa riunione, mi alzo e vado via lasciando dietro di me solo
rumori; la Sicilia, i siciliani, la gente con i suoi problemi e le sue speranze,
i giovani e la loro rabbia mi appaiono su un orizzonte che è oltre quella
stanza. Cerco di definire il mio stato d’animo. Ecco, sono indignato!
sabato 14 luglio 2012
Bocciati a 6 anni, che tristezza la Scuola!
Fra i tanti, tantissimi, bocciati delle scuole di Vittoria di cui
tanto si è occupata la stampa in questi primi giorni di luglio, quelli che più
hanno colto la mia attenzione sono due bambini della prima elementare. Essere
bocciati a 6 anni! Chissà quali pensieri nella mente di questi bimbi per questa
esperienza difficile da spiegare, difficile da capire. Andare alla scuola
elementare, quella di tantissimi anni fa, mi incuteva paura, mi ricordo che
vivevo sempre nell’ansia, perché il maestro ci picchiava. Tanti colpi di
bacchetta sui palmi delle mani per tante righe di poesia dimenticate, e i
genitori si raccomandavano pure: “ Maestro glieli suoni pure, non abbia
remore!”. E alla scuola media il preside puniva le nostre marachelle facendoci
mettere sull’attenti e giù due ceffoni da lasciare i segni. Per fortuna oggi la
scuola non è più così, ma essere bocciati alla prima elementare rimane pure una
cosa incomprensibile. Ho chiesto lumi a mia moglie, che è una pedagogista, mi
ha spiegato che a volte può succedere che, di comune accordo con i genitori,
gli insegnanti scelgano di optare per un “fermo maturativo” nel caso in cui i
bambini non raggiungano i pre-requisiti necessari per affrontare i compiti
successivi e colmare, così, eventuali ritardi. Mi auguro che i casi segnalati
dalla stampa abbiano le stesse ragioni o altre dello stesso tenore, anche se
personalmente resto della convinzione che provvedimenti di questa natura
costituiscono dei traumi per i bambini, preferendo considerare la Scuola come
un luogo dove i cittadini dovrebbero maturare tutti insieme, dove insegnare con gioia, apprendere con gioia . La Scuola non può
riflettere l’ideale di una società competitiva e punitiva, la Scuola che
boccia, la Scuola del merito, dell’individualismo, non necessariamente è la Scuola migliore.
Sono sempre stato convinto che dietro la bocciatura di un bambino si nasconde il
fallimento di noi adulti, della stessa istituzione scolastica e che la storia
di ogni studente è una storia individuale di apprendimento, di personali
capacità intellettuali e relazionali. Sono, altresì, convinto che l’insegnante è come un maestro
d’orchestra cui è affidato il “compito della concertazione e della
coordinazione tra gli esecutori, leggendo da una partitura completa e dando
indicazioni verbali, uditive e gestuali”, capace, cioè, di far prevalere il
lavoro di squadra esaltando ogni singolo contributo nell’ambito di un progetto
comune. Immaginate un maestro che nel vivo di una rappresentazione riducesse al
silenzio due o tre strumenti, verrebbe meno il risultato finale del suo lavoro,
gli spettatori finirebbero per non capire; ecco, i bocciati della scuola sono
degli strumenti di un’orchestra ridotti al silenzio. Comenio, teologo e
pedagogista vissuto nel ‘600, sosteneva la necessità che l'insegnamento fosse esteso a tutti, non stimolando eccessivamente
la mente dei ragazzi , ma abituandoli alla “ricerca del sapere lungo tutta la
vita”, ciò che la moderna teoria dell’insegnamento definisce come “lifelong
learning”. Anche le donne e gli handicappati devono essere partecipi
dell’insegnamento, perché, secondo Comenio, anche loro hanno un'anima che deve progredire
con il sapere. Ma ha ancora un senso la bocciatura a Scuola? Secondo il
ministro austriaco Claudia Schmied la bocciatura non aiuta la
competitività e ha annunciato che da quest’anno nelle scuole austriache sarà
abolita.
Ma non si tratta di un provvedimento tout court, bensì di un insieme
di strumenti a favore degli studenti che ne hanno bisogno tra i quali corsi di
recupero e rinforzo, in particolare per il tedesco, la matematica e le lingue
straniere, che eviti una valutazione finale negativa con bocciatura. In Italia
il problema è stato più volte affrontato, ma con un limite, perché quando si
parla di intervenire in settori delicati della vita dello stato, quali la
scuola o la sanità, il problema non viene mai affrontato con leggi di riforma
capaci di incidere sulla sostanza del problema, bensì nell’ambito di
provvedimenti di spesa, e con i tagli non si può certo incidere sulla qualità
dei servizi. Così a pagarne le conseguenze sono sempre i soggetti più deboli
della società, i portatori di handicap e le fasce più povere ed emarginate. A
Vittoria il problema delle bocciature, delle ripetenze e della dispersione
scolastica ha assunto caratteri di una vera e propria emergenza, nei confronti
della quale le istituzioni locali devono sentire forte la necessità di
interventi non più rinviabili. Come si evince dalla Relazione Generale dello
Schema di Variante al PRG: “… per quanto riguarda l’istruzione e la
scolarizzazione, nel comune di Vittoria il censimento del 2001 consegnava all’attenzione
del territorio la difficile situazione di Vittoria che risultava uno dei Comuni
meno scolarizzati di Italia con il 19% della popolazione analfabeta o senza
alcun titolo di studio”. Nell’epoca della Società della Conoscenza, ciò non
costituisce certo un requisito capace di invertire le sorti di un destino che,
allo stato, senza le opportune contromisure, sembra segnato da un lento quanto
irrimediabile declino.
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