domenica 14 giugno 2020

Pensare il futuro, una generazione alla prova.


Di tutto si parla in questi terribili giorni, di economia, di salute, soprattutto di soldi. Poca attenzione è riservata dai media ai giovani, agli anziani, alla società che cambia velocemente. Di questo mi voglio occupare con questa riflessione. Il mio pensiero è rivolto subito ai giovani, alla Generazione C, quella del Coronavirus, per intenderci, che segue i Millenials, la generazione perduta. Sono i giovani cresciuti nel corso della recessione economica più terribile dal dopoguerra ad oggi; entrano a far parte di un Paese con il debito pubblico più alto al Mondo e, quindi, sono già carichi di un fardello che nessuna generazione aveva dovuto sopportare prima di loro. Una generazione bloccata non solo dai debiti, ma senza nessuna realistica prospettiva di fare carriera, e non significa nulla essere un medico in una sanità depauperata da anni di scandali e privatizzazioni selvagge; essere un ingegnere in assenza di investimenti infrastrutturali; essere imprenditori senza un piano di sviluppo economico; essere un ricercatore senza finanziamenti alla ricerca. Oggi quando i giovani affrontano il problema del lavoro si devono confrontare con il reddito di cittadinanza, nella prospettiva di trovarsi in una condizione di assistenza permanente, poco sopra della soglia di sopravvivenza, perché il lavoro semplicemente non c’è ed è pure difficile inventarlo. Perché, come sostiene l’economista Jeremy Rifkin, la tecnologia taglia i posti di lavoro che non ricrescono più, come gli alberi della foresta amazzonica. Un destino tragico, quello di passare alla storia come la generazione più povera seguita ai loro genitori, quella con meno diritti e più precarietà, quella che si dovrà fare carico di rimborsare l’enorme debito che ci accingiamo a negoziare per uscire indenni dalla pandemia, la generazione che ha studiato più di qualunque altra per ambire ad un lavoro di pizzaiolo, netturbino o rider, il fattorino pedalante che mentre consegna cibo scadente a domicilio, inala quintali di polveri sottili nelle città metropolitane, ciò che gli garantisce più vulnerabilità agli effetti del Covid-19 rispetto ad un giovane, altrettanto morto di fame, che vive in Africa. E mentre l’economia dei consumi si ferma a causa dell’epidemia, per una strana congiunzione astrale, questi giovani lavorano di meno e sono più esposti al rischio di contrarre la malattia. E parliamo dei giovani che per natura dovrebbero essere i più avvantaggiati, perché dei vecchi sembra non importare più a nessuno. Rottamati. E come rottami, in silenzio, la malattia ne fa scarti da smaltire di notte, a umma a umma, con discrezione, senza un cenno di commiato, esclusi da una forma qualsiasi di pietas, presto dimenticati. Numeri che non fanno impressione a nessuno, 100, mille, diecimila, centomila, numeri e non più storie. Sono lontani ormai i tempi in cui le storie dei vecchi coltivavano la mente di noi ragazzi. Oggi i nonni non esistono più nemmeno nelle fiabe per i più piccoli. Le loro fantasie sono permeate da giganti tecnologici, macchine parlanti, niente più principi né principesse, niente più Pinocchio, non c’è Coretti e nemmeno Precossi, i personaggi che riuscivano a commuovere quelli come me nel mentre ci mettevano a contatto con una realtà fatta di sacrifici, di emozioni, di fatica, ma anche di sentimenti quali l’amicizia, l’amore, la condivisione.  E allora? Allora è chiaro che bisogna ricominciare. Da dove? Ricominciare da noi stessi, con un’opera di demolizione, per rimodellare quell’Io gigantesco che abbiamo fatto crescere dentro di noi e trovare nuovo spazio per tutto ciò che è stato perso. Scopriremo così l’altro che non abbiamo più voluto vedere, dagli affetti familiari, a partire dagli anziani, al tempo da dedicare ai nostri figli. Ricominciare a guardare la nostra comunità predisponendoci all’accoglienza e all’ascolto dei bisogni individuali e collettivi, ripensando il nostro sviluppo rifuggendo dall’individualismo inconcludente degli ultimi anni per avviare una fase di ricostituzione solidale delle categorie produttive. Pensare globale e agire locale, può essere una parola d’ordine per promuovere nuove  opportunità per la nostra economia, per il nostro territorio. La nostra è la storia di un popolo che si è saputo organizzare. Intuito, tenacia, intelligenza, coraggio, sono ingredienti fondamentali per affrontare un nuovo processo di cambiamento. Per noi la resilienza è non piegarci agli effetti dell’emergenza, ma trarne opportunità per ripartire. Abbiamo esperienza, coltiviamo saperi oltre a cetrioli e pomodori, abbiamo risorse materiali, ci dobbiamo organizzare. Partiamo dal Comune. Il Comune ha oggi l’opportunità storica di assumere su di sé il compito di sostenere i propri cittadini  nelle varie articolazioni produttive, intellettive, sociali, entro la nuova dimensione globale per competere empaticamente. Per il raggiungimento di questo obiettivo la nuova istituzione dovrà necessariamente ristrutturarsi secondo logiche organizzative adeguate alle nuove esigenze. Attardarsi nella riorganizzazione degli uffici e dei servizi estende ulteriormente il gap che divide  le aree più depresse dalle aree più sviluppate. Nell’era della conoscenza,  una nuova leva di impiegati, espressione delle nuove generazioni, dovrà essere capace di progettare e realizzare servizi capaci di rispondere ai nuovi bisogni del territorio. Molti uffici, ormai residui del vecchio Stato ottocentesco, preposti più al controllo sociale che non alla promozione delle libere attività umane, vanno soppressi o accorpati, per dare spazio ad uffici in grado di promuovere più capacità organizzativa, nuove forme associative, idee di sviluppo, cooperazione con altri territori, impulso alla conoscenza, inclusione sociale, collaborazione intergenerazionale, nuova logistica, ricerca scientifica e tecnologica, nuove attività produttive, formazione culturale e professionale. L’Ente Locale deve diventare  il centro propulsore di tutte le attività umane del territorio ove il governo si identifica con la partecipazione attiva dei cittadini. Il  Comune dovrà fornire l’impulso per una nuova riconversione produttiva. Terra, mare, cultura costituiscono le direttrici verso le quali muovere un nuovo modo di fare economia. Nelle campagne occorre portare più conoscenza, più tecnologia, più cooperazione, nel pieno rispetto della tradizione e della salvaguardia ambientale . L’individualismo è stato considerato il peggior difetto dei nostri contadini, ma non è vero. L’unità produttiva familiare nel nostro comprensorio è stata capace di coniugare solidarietà e spirito di sacrificio, dedizione al lavoro e voglia di crescere, conservazione dei propri valori identificativi. Oggi questa realtà familiare va tutelata e salvaguardata, ma va dotata di strumenti che l’aiutino ad essere competitiva entro un contesto molto più vasto come quello globale, ciò significa che va accorciata la filiera produttiva per ricondurre tutte le attività entro i confini territoriali:  ricerca, produzione, trasformazione, marketing, logistica, nuove rotte commerciali. Il prodotto deve potersi identificare con il territorio ed il territorio deve garantire qualità, salubrità, benessere alimentare, giusto valore per chi vende e per chi acquista. La nuova occupazione nasce e si sviluppa entro questa visione della realtà che ci circonda. Il  Comune dovrà diventare il centro propulsore per la nuova riconversione produttiva che segue quella serricola, offrendo  nuovi servizi, coordinando tutti gli attori della filiera, contrattando con la Regione nuovi livelli di intervento nell’ambito della programmazione regionale e comunitaria, rappresentando il territorio ed interloquendo con soggetti istituzionali di altri territori interni ed esterni all’Europa. L’agricoltura rimane l’asse portante dell’economia, ma interagisce con attività industriali per la trasformazione dei prodotti, promuove il commercio, sostiene la ricerca e la formazione nell’ambito di una programmazione partecipata da tutte le forze produttive. Le attività industriali, nell’ottica di uno sviluppo multicentrico, debbono trarre dall’agricoltura la materia prima per le necessarie trasformazioni, la produzione di licopene dal pomodoro e la coltivazione di altre varietà  vegetali, ad esempio, possono segnare l’inizio di un nuovo processo di sviluppo, stabilendo inediti rapporti tra agricoltura ed industria di trasformazione.  Per raggiungere questi obiettivi non è sufficiente aspirare agli aiuti comunitari, occorre reperire nuove risorse finanziarie nel mercato dei capitali, ma per riuscirci è necessario che il territorio diventi attrattivo. Un territorio attrattivo è un’area a criminalità zero, è un’area dove i servizi funzionano,  dove la pubblica amministrazione è trasparente,  dove i cittadini sviluppano e difendono un alto grado di civiltà. Se i cittadini pretendono il lavoro, allora devono curare il decoro delle loro città, devono combattere il crimine denunciando ed isolando i criminali, devono mandare i figli a scuola, non devono mai smettere di acculturarsi e di migliorare la propria professionalità, devono partecipare alla vita politica della propria comunità, devono contribuire con le proprie azioni al benessere collettivo. E' questa la nuova sfida. Il Comune dovrà favorire la crescita civile dei propri rappresentati pretendendo dai più abbienti il giusto tributo ed aiutando i più deboli a recuperare i propri ritardi materiali e culturali, nello stesso tempo esercita con rigore l’applicazione delle norme. Un territorio attrattivo, anche per un ipotesi di sviluppo turistico, necessita di servizi che funzionano, dall’igiene e pulizia urbana ai trasporti, dall’accoglienza agli eventi culturali, dagli spazi ricreativi alla valorizzazione delle risorse naturali ed ambientali. Nell’ epoca attuale nel Comune  i processi risultano invertiti: il Comune non è il luogo dove una classe dirigente esercita il proprio potere sui cittadini, bensì il luogo dove i cittadini utilizzano gli strumenti della partecipazione per raggiungere i propri obiettivi di crescita materiale e culturale servendosi di una classe dirigente esperta, dotata di competenze culturali e professionali, capace di agire in maniera efficace ed efficiente. Non solo, il Comune non considera la partecipazione ed il confronto  una perdita di tempo. Tutto questo è resilienza, lo sanno bene i vittoriesi che nei secoli hanno fatto dell'innovazione una loro peculiare prerogativa.

domenica 3 maggio 2020

Ragionare con la testa, così si sconfigge il virus



Sono molti gli amici, persone che stimo e alle quali voglio molto bene, che in queste ultime ore protestano e criticano le misure del Governo per affrontare la fase 2 della pandemia. Come non tenere nella giusta considerazione il grido di dolore che viene dal mondo produttivo e le preoccupazioni per l’aggravarsi della crisi economica! Ma siamo in guerra, una guerra vera, non certo quella della playstation. Il nemico non ha forme umane, si nasconde, ma miete vittime a migliaia, incute paura, crea ansia e preoccupazione. Ma proprio perché siamo in guerra è opportuno ragionare con la testa, gli errori potrebbero causare disastri irreversibili, causare altre migliaia di vittime innocenti. Ci troviamo di fronte ad un nemico sconosciuto, capace di aggirare tutte le strategie messe in atto dagli scienziati contro altri nemici similari. Le uniche armi finora rivelatesi utili sono costituite dall’isolamento, il virus viaggia sulle gambe degli uomini, niente terapie efficaci, niente vaccino. Restare a casa è l’unica possibilità di togliere energia al virus e, in prospettiva, per un tempo ancora indefinito, dovremo combattere una lunga e logorante guerra di posizione. Tutti sono costretti a viaggiare a vista, scienziati, politici, funzionari, rincorrono un nemico privati di bussola. Il nemico si nasconde, si mimetizza, manda messaggi contraddittori, si prende beffa di tutti. Per la prima volta nella storia recente, i politici hanno perso l’orientamento, non sanno letteralmente che pesci prendere e allora si sono, saggiamente, affidati ai tecnici e agli scienziati. Lasciati in garage gli F-35, hanno capito che le armi che possono essere usate contro il nemico sono costituite dallo studio e dalla ricerca, attitudini delle quali i nostri politici sono scarsamente dotati, però hanno avuto il buon senso di mettere a disposizione dei cittadini tutte le risorse disponibili, in modo equo e democratico: poco, anzi pochissimo ai ricchi, il necessario a chi ha bisogno. Io sono nato quando la guerra si era conclusa, in pratica nell’immediato dopoguerra, quando fame e miseria governavano la vita di una grande parte della popolazione. Quando i miei genitori a merenda mi davano una fetta di pane fatto in casa con un filo d’olio e un po’ di capuliato, sembrava che mi dessero caviale. E giù a raccontare la vita durante la guerra, quando il pane, nerissimo, veniva razionato e l’impossibilità di reperire zucchero, caffè, per non parlare di carne, latte ed altri generi di prima necessità. E poi la paura, sempre incombente, per i bombardamenti, l’ansia per i congiunti ( mentre oggi si ha tempo per scherzare sui congiuntivi) al fronte, dai quali non si avevano notizie da anni. Sembrava che la vita si fosse fermata, che non ci fossero altre possibilità, eppure la vita è riesplosa e una grande moltitudine di persone hanno ottenuto ciò che alcuni decenni prima non avrebbero osato nemmeno immaginare. Oggi la guerra che stiamo vivendo è di tutt’altro genere, ma la paura resta lo stesso, i morti pure si contano, il nemico incombe, ma sembra arrestarsi grazie all’informazione, al senso di responsabilità della gran parte dei cittadini che si attengono alle disposizioni delle autorità, sostenuti dalle parole di conforto di un grande Papa. La guerra richiede sacrifici. Protestare, anzi fare cagnara, per il prolungamento di qualche settimana di quarantena, mi sembra quanto mai inopportuno. D’altronde, la paura è la grande nemica di quanti oggi si affannano a richiedere l’apertura immediata di tutte le attività economiche. Aprire in queste condizioni è pura follia, non solo per il rischio di ritornare di nuovo a vedere gli autocarri militari trasportare salme a migliaia verso gli inceneritori senza nemmeno l’ultimo saluto dei parenti, ma perché tutta questa gente che scalpita per andare a comprare abiti e gioielli, affollare palestre e piscine, frequentare bar e ristoranti, fare crociere e sognare vacanze a mare non mi pare che ci sia. Ho fatto la prova ad intervistare telefonicamente cento persone, amici che conosco un po’ di tutti i ceti sociali. Mi hanno espresso il bisogno di ritornare al lavoro, preoccupazione per la ripartenza, delusione per gli aiuti che ritardano, ansia per i figli lontani, ma tanta paura per il persistere dell’epidemia, la sensazione che non si stia facendo tutto il possibile per fermarla. E questa paura incombe sulle scelte future, la scala delle priorità è completamente rovesciata. Vedo albergatori che protestano, ristoratori che chiudono e lasciano le chiavi ai sindaci, gioiellieri che scalpitano. Ma davvero pensano che alla riapertura ci saranno file interminabili di clienti? Che come per incanto la gente tornerà a spendere come prima? Sentire lamentele senza proposte alternative credibili e fattibili è davvero avvilente. E’ vero che nel chiuso della nostra casa ci sentiamo depressi, sfiduciati, in preda all’angoscia, ma è proprio questo il momento in cui abbiamo bisogno di sentirci uniti, di affidarci alla scienza e al governo, quello che abbiamo, anche perché cambiare in queste condizioni è da folli. Ha detto Papa Francesco: “In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni”. Ed è questo il problema, fare in modo che la pandemia non torni, questo è ragionare con la testa.

giovedì 2 aprile 2020

LA LEZIONE DEL CORONAVIRUS (2)


Ieri 1° aprile 2020 gran parte della prima pagina del New York Times era dedicata ai problemi insorti a seguito del propagarsi del coronavirus. In particolare l’articolo di fondo sviluppava un’analisi quando mai allarmata sulla situazione americana, sulle responsabilità di Trump e sugli scenari aperti da questa crisi. Ciò che più mi ha colpito dell’analisi del quotidiano americano è lo scenario che si è aperto in seguito al diffondersi della pandemia. Secondo l’articolista, nel corso del briefing quotidiano del Presidente Trump, nella sala campeggiava un enorme grafico dal quale si poteva rilevare che la previsione di morti negli USA potrebbe raggiungere la cifra compresa tra i 100.000 e i 240.000, sempre che i cittadini rispettassero le norme restrittive disposte dal Presidente. Il giornalista, raccontava dell’ espressione cupa del Presidente sottolineando come lo stesso avesse fino a quel momento sottovalutata la gravità dell’epidemia, convinto che si trattasse di una semplice influenza. “Sono un leader rassicurante” avrebbe detto Trump in conferenza, ammettendo di avere minimizzato la situazione perché molti suoi amici imprenditori lo avevano ammonito circa le possibili conseguenze che misure drastiche avrebbero causato all’economia. Il giornale rilevava ancora come questa sottovalutazione di Trump, invece, potrà essere la causa di un’immane tragedia per Gli Stati Uniti facendo esplicito riferimento alle valutazioni di importanti osservatori secondo i quali “nel migliore dei casi, il numero  di americani che potrà morire di coronavirus nelle settimane e nei mesi a venire potrà superare i morti nelle guerre di Corea e Vietnam messe insieme”. Questo il quadro inquietante che traccia l’amministrazione americana, ma la situazione, secondo molti osservatori, potrebbe essere ancora più drammatica.
Mentre il Mondo si interroga e molti osservatori immaginano scenari più o meno apocalittici, non si può fare a meno, sempre in tema di analisi, di riflettere su ciò che sta alla base dell’odierno disorientamento, soprattutto in relazione al futuro dell’umanità, della pace,dello stesso pianeta. Credo che non sia più tempo dei leader “rassicuranti” mentre la morte corre sul filo dell’avidità, dell’indifferenza, del pressapochismo. E’ tempo di verità. Non si può certo fare riferimento ad uno sviluppo indefinito dell’economia senza fare i conti con l’esigua disponibilità di risorse, non si può pensare che un solo Paese, un solo popolo possa salvarsi da solo di fronte alla prospettiva di una catastrofe mondiale. E’ tempo, piuttosto, di ripensare ad un nuovo modello di sviluppo solidaristico, a nuovi equilibri mondiali, ad un’economia gravata dal controllo pubblico per mettere in primo piano diritti individuali inalienabili: il diritto alla vita, alla salute, alla libertà, al lavoro. I diritti fondamentali di uguaglianza e libertà non possono rimanere ancora dissociati dal principio universale di fratellanza come enunciato nel corso della rivoluzione francese. La fraternità, quale sentimento che si può manifestare solo con azioni generose, con l’ aiuto disinteressato, con la solidarietà concreta che si rivela tra individui liberi che insieme condividono lo stesso destino, costituisce oggi il presupposto necessario ed indispensabile dell’azione umana nel mondo.
Il coronavirus non è una calamità venuta all’improvviso a turbare i sonni dell’umanità. Già molteplici avvertimenti nel corso degli anni passati erano apparsi in diversi Paesi, dal’ HIV ad Ebola, alla Sars, ora la Covid-19,  e la paura di una pandemia con gravi conseguenze sull’umanità era incombente, aggravata dagli effetti della globalizzazione, la quale agisce da elemento acceleratore del contagio per via della mobilità che non ha precedenti nella storia universale. Anche le possibili sciagure indotte dell’inquinamento atmosferico e della deforestazione sono state più volte evocate dagli scienziati, e, recentemente tali problematiche sono state oggetto di una mobilitazione planetaria grazie all’attivismo della giovane Greta Thunberg. Ma tutto ciò non ha ancora convinto i grandi della terra, e buona parte dell'opninione pubblica, mentre gli egoismi nazionali continuano ad ispirare una grande parte della politica mondiale con in testa le superpotenze che non vogliono rinunciare ai propri privilegi, malgrado gli effetti negativi dell’inquinamento sul clima e l’espandersi della pandemia. L’articolo del New York Times di ieri, si rivolge agli americani con franchezza e sincerità, non nascondendo i pericoli di una drammatica recessione economica, con milioni di disoccupati e nuovi poveri. La situazione sarà ancora più grave per i Paesi come l’Italia, la Spagna, la Francia, la Grecia, nei quali gravano vecchi e nuovi squilibri, e non soltanto nei conti pubblici.
Un ripensamento è necessario, da non rinviare a domani, sarebbe troppo tardi e troppo devastante. Io sono convinto che la questione non è monetaria, economica senz’altro, ma non è pensando di stampare moneta che si possono rimuovere gli ostacoli per garantire al Paese sviluppo e sicurezza. Se fosse così semplice, tutti l’avrebbero fatto. C’è una condizione necessaria che intanto deve affrontare questo governo, quella di non sentirsi condizionato da questa opposizione, soprattutto da Matteo Salvini e Matteo Renzi. Questi personaggi non sono dei veri statisti, hanno avuto la possibilità di dimostrarlo, un’occasione storica, ma hanno fallito in preda ai fumi del potere. Oggi sono in preda ad una sindrome di astinenza grave dal potere e cavalcano l’onda di qualsiasi paura, incertezza, accidente, pur di sentirsi  dentro il meccanismo del potere, disposti a vendere l’anima al diavolo. Oggi la priorità non è l’assalto al governo, sarebbe una tragedia dagli effetti imprevedibili, oggi il vero problema è come uscire dalla crisi sanitaria e prevenire il tracollo economico. Bisogna evitare l’errore di cadere nella trappola ordita dai due, quella di pensare che l’emergenza  finirà presto e quella di distribuire soldi senza una chiara valutazione dei bisogni; questo non lo può fare un governo che oggi ha il compito fondamentale di salvare il Paese e di utilizzare bene le risorse per la ricostruzione. Questo governo sta lavorando bene, con un sostanziale sostegno dei partiti che lo hanno promosso, con l’immancabile ed ineccepibile supporto del Presidente Mattarella, insomma sta svolgendo bene il proprio compito senza quell’accapigliarsi continuo che ha caratterizzato ogni governo precedente. Non altrettanto si può dire di quella accozzaglia di sprovveduti che costituiscono oggi l’opposizione, al netto di Berlusconi che c’è sempre quanto deve tutelare i propri interessi, presa com’è dall’obbiettivo di far fuori il governo senza  dimostrare un minimo di senso dello Stato.
Se queste sono le considerazioni sugli scenari mondiali e italiani, diversa mi appare la situazione siciliana e locale. Mi sento di affermare con consapevole cinismo che il Mezzogiorno può trasformare  questa immane tragedia in un’opportunità di riscatto, sia sul piano della rivalutazione storica, sia sul piano economico e sociale. Sul piano storico risulta quanto mai acclamato quanto sia stato distorto il tipo di sviluppo che ha visto concentrata al Nord gran parte della ricchezza e degli investimenti lasciando al Sud l’incombenza di esercitare il ruolo di mercato secondario e di rifornimento di manodopera a basso costo. Il coronavirus ha evidenziato in maniera impietosa le conseguenze di quel tipo di sviluppo. L’alta densità della popolazione e la concentrazione di attività produttive che causano un alto tasso di inquinamento atmosferico, secondo precisi riferimenti epidemiologici, dimostrano il motivo per cui la Lombardia in particolare e gran parte delle regioni del nord oggi registrano le maggiori conseguenze dell’epidemia. Uno sviluppo equilibrato del Paese avrebbe consentito oggi di affrontare più adeguatamente la crisi. Oggi un ripensamento di quelle politiche appare quanto mai opportuno per evitare nuove diseguaglianze con il pericolo di doverle pagare in futuro ancora più drammaticamente. (Continua)

sabato 21 marzo 2020

Ci perdoni Santo Padre


C’è un’avversione strisciante che si evince in buona parte di ciò che riporta la stampa italiana, ma che si esprime ormai in maniera virulenta sui social, nei confronti di Papa Francesco. Si tratta di avversione morbosa, malvagia, tesa a mettere in cattiva luce l’azione pastorale di questo Papa. Questa opera demolitrice non viene dalla povera gente. A ben guardare tutti coloro che hanno qualcosa da ridire contro il Papa sono coloro che hanno la pancia piena e il portafogli rigonfio, sono laureati, professionisti, imprenditori, gente abituata a speculare su tutto, evasori fiscali che si trovano nel mirino di Papa Francesco, il quale non ha mancato recentemente di sottolineare come il comportamento degli evasori è causa primaria della carenza di servizi ed attrezzature sanitarie. Criticano il Papa accusandolo di non mettere a disposizione i “miliardi”  per risolvere la grave crisi prodotta dalla pandemia, come se il Papa fosse la Banca Mondiale. Sono coloro che negli anni recenti hanno concorso a demolire lo Stato esaltando gli egoismi privati e che oggi reclamano dallo stesso Stato aiuto e protezione. Ce l’anno con le ONG, accusate di speculare alle spalle dei poveri cittadini. Dov’è Gino Strada?  Lo chiedono a gran voce loro, corrotti ed opportunisti di ogni risma, incapaci di un solo pensiero d’amore e di solidarietà, odiatori di professione, pur sapendo che le ONG sono impegnate in prima linea in Lombardia. Ci perdoni Santo Padre,  non siamo degni del Suo sacrificio.