Di tutto si parla in questi
terribili giorni, di economia, di salute, soprattutto di soldi. Poca attenzione
è riservata dai media ai giovani, agli anziani, alla società che cambia
velocemente. Di questo mi voglio occupare con questa riflessione. Il mio pensiero
è rivolto subito ai giovani, alla Generazione C, quella del Coronavirus, per
intenderci, che segue i Millenials, la generazione perduta. Sono i giovani
cresciuti nel corso della recessione economica più terribile dal dopoguerra ad
oggi; entrano a far parte di un Paese con il debito pubblico più alto al Mondo
e, quindi, sono già carichi di un fardello che nessuna generazione aveva dovuto
sopportare prima di loro. Una generazione bloccata non solo dai debiti, ma
senza nessuna realistica prospettiva di fare carriera, e non significa nulla
essere un medico in una sanità depauperata da anni di scandali e
privatizzazioni selvagge; essere un ingegnere in assenza di investimenti
infrastrutturali; essere imprenditori senza un piano di sviluppo economico;
essere un ricercatore senza finanziamenti alla ricerca. Oggi quando i giovani
affrontano il problema del lavoro si devono confrontare con il reddito di
cittadinanza, nella prospettiva di trovarsi in una condizione di assistenza
permanente, poco sopra della soglia di sopravvivenza, perché il lavoro
semplicemente non c’è ed è pure difficile inventarlo. Perché, come sostiene
l’economista Jeremy Rifkin, la tecnologia taglia i posti di lavoro che non
ricrescono più, come gli alberi della foresta amazzonica. Un destino tragico,
quello di passare alla storia come la generazione più povera seguita ai loro
genitori, quella con meno diritti e più precarietà, quella che si dovrà fare
carico di rimborsare l’enorme debito che ci accingiamo a negoziare per uscire
indenni dalla pandemia, la generazione che ha studiato più di qualunque altra
per ambire ad un lavoro di pizzaiolo, netturbino o rider, il fattorino
pedalante che mentre consegna cibo scadente a domicilio, inala quintali di
polveri sottili nelle città metropolitane, ciò che gli garantisce più
vulnerabilità agli effetti del Covid-19 rispetto ad un giovane, altrettanto
morto di fame, che vive in Africa. E mentre l’economia dei consumi si ferma a
causa dell’epidemia, per una strana congiunzione astrale, questi giovani lavorano
di meno e sono più esposti al rischio di contrarre la malattia. E parliamo dei
giovani che per natura dovrebbero essere i più avvantaggiati, perché dei vecchi
sembra non importare più a nessuno. Rottamati. E come rottami, in silenzio, la
malattia ne fa scarti da smaltire di notte, a umma a umma, con discrezione,
senza un cenno di commiato, esclusi da una forma qualsiasi di pietas, presto
dimenticati. Numeri che non fanno impressione a nessuno, 100, mille, diecimila,
centomila, numeri e non più storie. Sono lontani ormai i tempi in cui le storie
dei vecchi coltivavano la mente di noi ragazzi. Oggi i nonni non esistono più
nemmeno nelle fiabe per i più piccoli. Le loro fantasie sono permeate da
giganti tecnologici, macchine parlanti, niente più principi né principesse,
niente più Pinocchio, non c’è Coretti e nemmeno Precossi, i personaggi che
riuscivano a commuovere quelli come me nel mentre ci mettevano a contatto con
una realtà fatta di sacrifici, di emozioni, di fatica, ma anche di sentimenti
quali l’amicizia, l’amore, la condivisione.
E allora? Allora è chiaro che bisogna ricominciare. Da dove? Ricominciare
da noi stessi, con un’opera di demolizione, per rimodellare quell’Io gigantesco
che abbiamo fatto crescere dentro di noi e trovare nuovo spazio per tutto ciò
che è stato perso. Scopriremo così l’altro che non abbiamo più voluto vedere,
dagli affetti familiari, a partire dagli anziani, al tempo da dedicare ai
nostri figli. Ricominciare a guardare la nostra comunità predisponendoci
all’accoglienza e all’ascolto dei bisogni individuali e collettivi, ripensando
il nostro sviluppo rifuggendo dall’individualismo inconcludente degli ultimi
anni per avviare una fase di ricostituzione solidale delle categorie
produttive. Pensare globale e agire locale, può essere una parola d’ordine per
promuovere nuove opportunità per la
nostra economia, per il nostro territorio. La nostra è la storia di un popolo
che si è saputo organizzare. Intuito, tenacia, intelligenza, coraggio, sono
ingredienti fondamentali per affrontare un nuovo processo di cambiamento. Per
noi la resilienza è non piegarci agli effetti dell’emergenza, ma trarne
opportunità per ripartire. Abbiamo esperienza, coltiviamo saperi oltre a
cetrioli e pomodori, abbiamo risorse materiali, ci dobbiamo organizzare.
Partiamo dal Comune. Il Comune ha oggi l’opportunità storica di assumere su di
sé il compito di sostenere i propri cittadini
nelle varie articolazioni produttive, intellettive, sociali, entro la
nuova dimensione globale per competere empaticamente. Per il raggiungimento di
questo obiettivo la nuova istituzione dovrà necessariamente ristrutturarsi
secondo logiche organizzative adeguate alle nuove esigenze. Attardarsi nella
riorganizzazione degli uffici e dei servizi estende ulteriormente il gap che
divide le aree più depresse dalle aree
più sviluppate. Nell’era della conoscenza,
una nuova leva di impiegati, espressione delle nuove generazioni, dovrà
essere capace di progettare e realizzare servizi capaci di rispondere ai nuovi
bisogni del territorio. Molti uffici, ormai residui del vecchio Stato
ottocentesco, preposti più al controllo sociale che non alla promozione delle
libere attività umane, vanno soppressi o accorpati, per dare spazio ad uffici
in grado di promuovere più capacità organizzativa, nuove forme associative,
idee di sviluppo, cooperazione con altri territori, impulso alla conoscenza,
inclusione sociale, collaborazione intergenerazionale, nuova logistica, ricerca
scientifica e tecnologica, nuove attività produttive, formazione culturale e professionale.
L’Ente Locale deve diventare il centro
propulsore di tutte le attività umane del territorio ove il governo si
identifica con la partecipazione attiva dei cittadini. Il Comune dovrà fornire l’impulso per una nuova
riconversione produttiva. Terra, mare, cultura costituiscono le direttrici
verso le quali muovere un nuovo modo di fare economia. Nelle campagne occorre
portare più conoscenza, più tecnologia, più cooperazione, nel pieno rispetto
della tradizione e della salvaguardia ambientale . L’individualismo è stato
considerato il peggior difetto dei nostri contadini, ma non è vero. L’unità
produttiva familiare nel nostro comprensorio è stata capace di coniugare
solidarietà e spirito di sacrificio, dedizione al lavoro e voglia di crescere,
conservazione dei propri valori identificativi. Oggi questa realtà familiare va
tutelata e salvaguardata, ma va dotata di strumenti che l’aiutino ad essere
competitiva entro un contesto molto più vasto come quello globale, ciò
significa che va accorciata la filiera produttiva per ricondurre tutte le
attività entro i confini territoriali:
ricerca, produzione, trasformazione, marketing, logistica, nuove rotte
commerciali. Il prodotto deve potersi identificare con il territorio ed il
territorio deve garantire qualità, salubrità, benessere alimentare, giusto
valore per chi vende e per chi acquista. La nuova occupazione nasce e si
sviluppa entro questa visione della realtà che ci circonda. Il Comune dovrà diventare il centro propulsore
per la nuova riconversione produttiva che segue quella serricola, offrendo nuovi servizi, coordinando tutti gli attori
della filiera, contrattando con la Regione nuovi livelli di intervento
nell’ambito della programmazione regionale e comunitaria, rappresentando il
territorio ed interloquendo con soggetti istituzionali di altri territori
interni ed esterni all’Europa. L’agricoltura rimane l’asse portante
dell’economia, ma interagisce con attività industriali per la trasformazione
dei prodotti, promuove il commercio, sostiene la ricerca e la formazione
nell’ambito di una programmazione partecipata da tutte le forze produttive. Le
attività industriali, nell’ottica di uno sviluppo multicentrico, debbono trarre
dall’agricoltura la materia prima per le necessarie trasformazioni, la
produzione di licopene dal pomodoro e la coltivazione di altre varietà vegetali, ad esempio, possono segnare
l’inizio di un nuovo processo di sviluppo, stabilendo inediti rapporti tra
agricoltura ed industria di trasformazione.
Per raggiungere questi obiettivi non è sufficiente aspirare agli aiuti
comunitari, occorre reperire nuove risorse finanziarie nel mercato dei
capitali, ma per riuscirci è necessario che il territorio diventi attrattivo.
Un territorio attrattivo è un’area a criminalità zero, è un’area dove i servizi
funzionano, dove la pubblica
amministrazione è trasparente, dove i
cittadini sviluppano e difendono un alto grado di civiltà. Se i cittadini
pretendono il lavoro, allora devono curare il decoro delle loro città, devono
combattere il crimine denunciando ed isolando i criminali, devono mandare i
figli a scuola, non devono mai smettere di acculturarsi e di migliorare la
propria professionalità, devono partecipare alla vita politica della propria
comunità, devono contribuire con le proprie azioni al benessere collettivo. E'
questa la nuova sfida. Il Comune dovrà favorire la crescita civile dei
propri rappresentati pretendendo dai più abbienti il giusto tributo ed aiutando
i più deboli a recuperare i propri ritardi materiali e culturali, nello stesso
tempo esercita con rigore l’applicazione delle norme. Un territorio attrattivo,
anche per un ipotesi di sviluppo turistico, necessita di servizi che
funzionano, dall’igiene e pulizia urbana ai trasporti, dall’accoglienza agli
eventi culturali, dagli spazi ricreativi alla valorizzazione delle risorse
naturali ed ambientali. Nell’ epoca attuale nel Comune i processi risultano invertiti: il Comune non
è il luogo dove una classe dirigente esercita il proprio potere sui cittadini,
bensì il luogo dove i cittadini utilizzano gli strumenti della partecipazione
per raggiungere i propri obiettivi di crescita materiale e culturale servendosi
di una classe dirigente esperta, dotata di competenze culturali e
professionali, capace di agire in maniera efficace ed efficiente. Non solo, il
Comune non considera la partecipazione ed il confronto una perdita di tempo. Tutto questo è
resilienza, lo sanno bene i vittoriesi che nei secoli hanno fatto
dell'innovazione una loro peculiare prerogativa.
domenica 14 giugno 2020
domenica 3 maggio 2020
Ragionare con la testa, così si sconfigge il virus
Sono molti gli amici, persone che
stimo e alle quali voglio molto bene, che in queste ultime ore protestano e
criticano le misure del Governo per affrontare la fase 2 della pandemia. Come
non tenere nella giusta considerazione il grido di dolore che viene dal mondo
produttivo e le preoccupazioni per l’aggravarsi della crisi economica! Ma siamo
in guerra, una guerra vera, non certo quella della playstation. Il nemico non
ha forme umane, si nasconde, ma miete vittime a migliaia, incute paura, crea
ansia e preoccupazione. Ma proprio perché siamo in guerra è opportuno ragionare
con la testa, gli errori potrebbero causare disastri irreversibili, causare
altre migliaia di vittime innocenti. Ci troviamo di fronte ad un nemico
sconosciuto, capace di aggirare tutte le strategie messe in atto dagli
scienziati contro altri nemici similari. Le uniche armi finora rivelatesi utili
sono costituite dall’isolamento, il virus viaggia sulle gambe degli uomini,
niente terapie efficaci, niente vaccino. Restare a casa è l’unica possibilità
di togliere energia al virus e, in prospettiva, per un tempo ancora indefinito,
dovremo combattere una lunga e logorante guerra di posizione. Tutti sono
costretti a viaggiare a vista, scienziati, politici, funzionari, rincorrono un
nemico privati di bussola. Il nemico si nasconde, si mimetizza, manda messaggi
contraddittori, si prende beffa di tutti. Per la prima volta nella storia
recente, i politici hanno perso l’orientamento, non sanno letteralmente che
pesci prendere e allora si sono, saggiamente, affidati ai tecnici e agli
scienziati. Lasciati in garage gli F-35, hanno capito che le armi che possono
essere usate contro il nemico sono costituite dallo studio e dalla ricerca,
attitudini delle quali i nostri politici sono scarsamente dotati, però hanno
avuto il buon senso di mettere a disposizione dei cittadini tutte le risorse
disponibili, in modo equo e democratico: poco, anzi pochissimo ai ricchi, il
necessario a chi ha bisogno. Io sono nato quando la guerra si era conclusa, in
pratica nell’immediato dopoguerra, quando fame e miseria governavano la vita di
una grande parte della popolazione. Quando i miei genitori a merenda mi davano
una fetta di pane fatto in casa con un filo d’olio e un po’ di capuliato,
sembrava che mi dessero caviale. E giù a raccontare la vita durante la guerra,
quando il pane, nerissimo, veniva razionato e l’impossibilità di reperire
zucchero, caffè, per non parlare di carne, latte ed altri generi di prima
necessità. E poi la paura, sempre incombente, per i bombardamenti, l’ansia per
i congiunti ( mentre oggi si ha tempo per scherzare sui congiuntivi) al fronte,
dai quali non si avevano notizie da anni. Sembrava che la vita si fosse
fermata, che non ci fossero altre possibilità, eppure la vita è riesplosa e una
grande moltitudine di persone hanno ottenuto ciò che alcuni decenni prima non
avrebbero osato nemmeno immaginare. Oggi la guerra che stiamo vivendo è di
tutt’altro genere, ma la paura resta lo stesso, i morti pure si contano, il
nemico incombe, ma sembra arrestarsi grazie all’informazione, al senso di
responsabilità della gran parte dei cittadini che si attengono alle
disposizioni delle autorità, sostenuti dalle parole di conforto di un grande
Papa. La guerra richiede sacrifici. Protestare, anzi fare cagnara, per il prolungamento
di qualche settimana di quarantena, mi sembra quanto mai inopportuno.
D’altronde, la paura è la grande nemica di quanti oggi si affannano a
richiedere l’apertura immediata di tutte le attività economiche. Aprire in
queste condizioni è pura follia, non solo per il rischio di ritornare di nuovo
a vedere gli autocarri militari trasportare salme a migliaia verso gli
inceneritori senza nemmeno l’ultimo saluto dei parenti, ma perché tutta questa
gente che scalpita per andare a comprare abiti e gioielli, affollare palestre e
piscine, frequentare bar e ristoranti, fare crociere e sognare vacanze a mare
non mi pare che ci sia. Ho fatto la prova ad intervistare telefonicamente cento
persone, amici che conosco un po’ di tutti i ceti sociali. Mi hanno espresso il
bisogno di ritornare al lavoro, preoccupazione per la ripartenza, delusione per
gli aiuti che ritardano, ansia per i figli lontani, ma tanta paura per il
persistere dell’epidemia, la sensazione che non si stia facendo tutto il
possibile per fermarla. E questa paura incombe sulle scelte future, la scala
delle priorità è completamente rovesciata. Vedo albergatori che protestano,
ristoratori che chiudono e lasciano le chiavi ai sindaci, gioiellieri che
scalpitano. Ma davvero pensano che alla riapertura ci saranno file
interminabili di clienti? Che come per incanto la gente tornerà a spendere come
prima? Sentire lamentele senza proposte alternative credibili e fattibili è
davvero avvilente. E’ vero che nel chiuso della nostra casa ci sentiamo
depressi, sfiduciati, in preda all’angoscia, ma è proprio questo il momento in
cui abbiamo bisogno di sentirci uniti, di affidarci alla scienza e al governo,
quello che abbiamo, anche perché cambiare in queste condizioni è da folli. Ha
detto Papa Francesco: “In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere
disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al
suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle
disposizioni, perché la pandemia non torni”. Ed è questo il problema, fare in
modo che la pandemia non torni, questo è ragionare con la testa.
giovedì 2 aprile 2020
LA LEZIONE DEL CORONAVIRUS (2)
Ieri 1° aprile 2020 gran parte della
prima pagina del New York Times era dedicata ai problemi insorti a seguito del
propagarsi del coronavirus. In particolare l’articolo di fondo sviluppava un’analisi
quando mai allarmata sulla situazione americana, sulle responsabilità di Trump
e sugli scenari aperti da questa crisi. Ciò che più mi ha colpito dell’analisi
del quotidiano americano è lo scenario che si è aperto in seguito al diffondersi
della pandemia. Secondo l’articolista, nel corso del briefing quotidiano del
Presidente Trump, nella sala campeggiava un enorme grafico dal quale si poteva
rilevare che la previsione di morti negli USA potrebbe raggiungere la cifra
compresa tra i 100.000 e i 240.000, sempre che i cittadini rispettassero le
norme restrittive disposte dal Presidente. Il giornalista, raccontava dell’
espressione cupa del Presidente sottolineando come lo stesso avesse fino a quel
momento sottovalutata la gravità dell’epidemia, convinto che si trattasse di
una semplice influenza. “Sono un leader rassicurante” avrebbe detto Trump in
conferenza, ammettendo di avere minimizzato la situazione perché molti suoi
amici imprenditori lo avevano ammonito circa le possibili conseguenze che misure
drastiche avrebbero causato all’economia. Il giornale rilevava ancora come
questa sottovalutazione di Trump, invece, potrà essere la causa di un’immane
tragedia per Gli Stati Uniti facendo esplicito riferimento alle valutazioni di
importanti osservatori secondo i quali “nel migliore dei casi, il numero di americani che potrà morire di coronavirus
nelle settimane e nei mesi a venire potrà superare i morti nelle guerre di
Corea e Vietnam messe insieme”. Questo il quadro inquietante che traccia l’amministrazione
americana, ma la situazione, secondo molti osservatori, potrebbe essere ancora
più drammatica.
Mentre il Mondo si interroga e
molti osservatori immaginano scenari più o meno apocalittici, non si può fare a
meno, sempre in tema di analisi, di riflettere su ciò che sta alla base dell’odierno
disorientamento, soprattutto in relazione al futuro dell’umanità, della pace,dello
stesso pianeta. Credo che non sia più tempo dei leader “rassicuranti” mentre la
morte corre sul filo dell’avidità, dell’indifferenza, del pressapochismo. E’
tempo di verità. Non si può certo fare riferimento ad uno sviluppo indefinito
dell’economia senza fare i conti con l’esigua disponibilità di risorse, non si
può pensare che un solo Paese, un solo popolo possa salvarsi da solo di fronte
alla prospettiva di una catastrofe mondiale. E’ tempo, piuttosto, di ripensare
ad un nuovo modello di sviluppo solidaristico, a nuovi equilibri mondiali, ad
un’economia gravata dal controllo pubblico per mettere in primo piano diritti
individuali inalienabili: il diritto alla vita, alla salute, alla libertà, al
lavoro. I diritti fondamentali di uguaglianza e libertà non possono rimanere ancora
dissociati dal principio universale di fratellanza come enunciato nel corso della
rivoluzione francese. La fraternità, quale sentimento che si può manifestare
solo con azioni generose, con l’ aiuto disinteressato, con la solidarietà concreta
che si rivela tra individui liberi che insieme condividono lo stesso destino, costituisce
oggi il presupposto necessario ed indispensabile dell’azione umana nel mondo.
Il coronavirus non è una calamità
venuta all’improvviso a turbare i sonni dell’umanità. Già molteplici
avvertimenti nel corso degli anni passati erano apparsi in diversi Paesi, dal’
HIV ad Ebola, alla Sars, ora la Covid-19, e la paura di una pandemia con gravi
conseguenze sull’umanità era incombente, aggravata dagli effetti della
globalizzazione, la quale agisce da elemento acceleratore del contagio per via
della mobilità che non ha precedenti nella storia universale. Anche le possibili sciagure indotte
dell’inquinamento atmosferico e della deforestazione sono state più volte evocate dagli scienziati, e, recentemente tali problematiche sono
state oggetto di una mobilitazione planetaria grazie all’attivismo della
giovane Greta Thunberg. Ma tutto ciò non ha ancora convinto i grandi della terra, e buona parte dell'opninione pubblica, mentre gli
egoismi nazionali continuano ad ispirare una grande parte della politica
mondiale con in testa le superpotenze che non vogliono rinunciare ai propri
privilegi, malgrado gli effetti negativi dell’inquinamento sul clima e l’espandersi
della pandemia. L’articolo del New York Times di ieri, si rivolge agli
americani con franchezza e sincerità, non nascondendo i pericoli di una
drammatica recessione economica, con milioni di disoccupati e nuovi poveri. La
situazione sarà ancora più grave per i Paesi come l’Italia, la Spagna, la
Francia, la Grecia, nei quali gravano vecchi e nuovi squilibri, e non soltanto
nei conti pubblici.
Un ripensamento è necessario, da
non rinviare a domani, sarebbe troppo tardi e troppo devastante. Io sono
convinto che la questione non è monetaria, economica senz’altro, ma non è
pensando di stampare moneta che si possono rimuovere gli ostacoli per garantire
al Paese sviluppo e sicurezza. Se fosse così semplice, tutti l’avrebbero fatto.
C’è una condizione necessaria che intanto deve affrontare questo governo,
quella di non sentirsi condizionato da questa opposizione, soprattutto da
Matteo Salvini e Matteo Renzi. Questi personaggi non sono dei veri statisti,
hanno avuto la possibilità di dimostrarlo, un’occasione storica, ma hanno fallito
in preda ai fumi del potere. Oggi sono in preda ad una sindrome di astinenza
grave dal potere e cavalcano l’onda di qualsiasi paura, incertezza, accidente,
pur di sentirsi dentro il meccanismo del
potere, disposti a vendere l’anima al diavolo. Oggi la priorità non è l’assalto
al governo, sarebbe una tragedia dagli effetti imprevedibili, oggi il vero problema
è come uscire dalla crisi sanitaria e prevenire il tracollo economico. Bisogna
evitare l’errore di cadere nella trappola ordita dai due, quella di pensare che
l’emergenza finirà presto e quella di
distribuire soldi senza una chiara valutazione dei bisogni; questo non lo può
fare un governo che oggi ha il compito fondamentale di salvare il Paese e di
utilizzare bene le risorse per la ricostruzione. Questo governo sta lavorando
bene, con un sostanziale sostegno dei partiti che lo hanno promosso, con l’immancabile
ed ineccepibile supporto del Presidente Mattarella, insomma sta svolgendo bene
il proprio compito senza quell’accapigliarsi continuo che ha caratterizzato
ogni governo precedente. Non altrettanto si può dire di quella accozzaglia di
sprovveduti che costituiscono oggi l’opposizione, al netto di Berlusconi che c’è
sempre quanto deve tutelare i propri interessi, presa com’è dall’obbiettivo di
far fuori il governo senza dimostrare un
minimo di senso dello Stato.
Se queste sono le considerazioni
sugli scenari mondiali e italiani, diversa mi appare la situazione siciliana e
locale. Mi sento di affermare con consapevole cinismo che il Mezzogiorno può
trasformare questa immane tragedia in un’opportunità
di riscatto, sia sul piano della rivalutazione storica, sia sul piano economico
e sociale. Sul piano storico risulta quanto mai acclamato quanto sia stato
distorto il tipo di sviluppo che ha visto concentrata al Nord gran parte della
ricchezza e degli investimenti lasciando al Sud l’incombenza di esercitare il
ruolo di mercato secondario e di rifornimento di manodopera a basso costo. Il
coronavirus ha evidenziato in maniera impietosa le conseguenze di quel tipo di
sviluppo. L’alta densità della popolazione e la concentrazione di attività
produttive che causano un alto tasso di inquinamento atmosferico, secondo
precisi riferimenti epidemiologici, dimostrano il motivo per cui la Lombardia in
particolare e gran parte delle regioni del nord oggi registrano le maggiori
conseguenze dell’epidemia. Uno sviluppo equilibrato del Paese avrebbe
consentito oggi di affrontare più adeguatamente la crisi. Oggi un ripensamento
di quelle politiche appare quanto mai opportuno per evitare nuove
diseguaglianze con il pericolo di doverle pagare in futuro ancora più
drammaticamente. (Continua)
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sabato 21 marzo 2020
Ci perdoni Santo Padre
C’è un’avversione strisciante che si evince in buona parte di
ciò che riporta la stampa italiana, ma che si esprime ormai in maniera
virulenta sui social, nei confronti di Papa Francesco. Si tratta di avversione
morbosa, malvagia, tesa a mettere in cattiva luce l’azione pastorale di questo
Papa. Questa opera demolitrice non viene dalla povera gente. A ben guardare
tutti coloro che hanno qualcosa da ridire contro il Papa sono coloro che hanno
la pancia piena e il portafogli rigonfio, sono laureati, professionisti, imprenditori,
gente abituata a speculare su tutto, evasori fiscali che si trovano nel mirino
di Papa Francesco, il quale non ha mancato recentemente di sottolineare come il
comportamento degli evasori è causa primaria della carenza di servizi ed
attrezzature sanitarie. Criticano il Papa accusandolo di non mettere a
disposizione i “miliardi” per risolvere
la grave crisi prodotta dalla pandemia, come se il Papa fosse la Banca Mondiale.
Sono coloro che negli anni recenti hanno concorso a demolire lo Stato esaltando gli egoismi privati e che oggi reclamano dallo stesso Stato aiuto e protezione. Ce l’anno con le ONG, accusate di speculare alle spalle dei poveri cittadini.
Dov’è Gino Strada? Lo chiedono a gran voce loro, corrotti ed opportunisti di
ogni risma, incapaci di un solo pensiero d’amore e di solidarietà, odiatori di
professione, pur sapendo che le ONG sono impegnate in prima linea in Lombardia. Ci perdoni Santo Padre, non siamo degni del Suo sacrificio.
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