Le elezioni regionali del 28 ottobre scorso
consegnano ai siciliani un risultato di grande sconvolgimento del panorama
sociale e politico dell’isola. L’elezione di Rosario Crocetta costituisce senza
alcun dubbio una rottura significativa con una prassi consolidata che ha visto
susseguirsi alla Presidenza della Regione, tranne qualche eccezione, personaggi del blocco di potere dominante,
cioè il blocco affaristico-mafioso-clientelare. L’irrompere sulla scena
politica siciliana di quello che, a ragione, è stato definito il ciclone
Grillo, costituisce, altresì, un altro elemento di rottura rispetto all’atteggiamento,
spesso corresponsabile, che larga parte del popolo siciliano ha conservato nei
confronti della propria classe dirigente. Parlare di una presa di coscienza
popolare del declino di una Regione, che della propria autonomia ha fatto una
fiera prerogativa, e dell’esigenza di avviare una nuova fase di riscatto e di
libertà, è ancora troppo presto, ma non c’è alcun dubbio che queste elezioni
hanno creato uno spartiacque tra il prima e il dopo di questa stagione
elettorale. La presenza di Grillo, sottovalutata fino alla vigilia da tutte le
forze politiche in campo, ha sparigliato le carte della politica siciliana e
reso definitivamente impraticabile quel nuovo
connubio che fino a pochi mesi prima aveva caratterizzato il nuovo blocco di
potere tra MPA-PD-UDC, anche se durante
la campagna elettorale molti dei protagonisti si sono affannati a riproporlo
come possibile rimedio rispetto alla palesata impossibilità, rilevata
attraverso i sondaggi, di dare vita ad una maggioranza organica di governo,
giusto sull’esempio delle larghe intese che sostengono il governo Monti.
Malgrado, però, queste novità e questi stravolgimenti, le elezioni non hanno
sciolto tutti i nodi lasciati in eredità dal precedente governo Lombardo, per l’impossibilità
di costituire un governo al quale affiancare una organica maggioranza
parlamentare. Anzi, ad un’attenta lettura dei risultati, la composizione dei
seggi in larga parte rappresenta proprio il vecchio blocco di potere, anche se
in qualche caso rinnovato negli uomini ma non certo nella volontà di favorire
il rinnovamento delle istituzioni. Crocetta, dunque, dovrà muoversi
necessariamente al di fuori degli schemi classici e formare un governo capace
di raccogliere consenso innanzitutto fuori dall’istituzione, nell’opinione
pubblica, per condizionare l’assemblea regionale e puntare su una forma di
trasversalità capace di privilegiare cambiamento e innovazione a discapito
della fame di potere dei partiti e dei loro interessi clientelari e mal
affaristici. Un governo, perciò, di competenti, di persone oneste e senza “storie”
di cui vergognarsi, non necessariamente di appartenenza, privi di vincoli verso
consorterie e massonerie di vario genere. Lo vuole il popolo siciliano, ma è
anche una necessità dovuta alla contingenza di una Regione che si trova sull’orlo
di un baratro economico, una Regione alla quale non solo manca l’autorevolezza
di una classe dirigente all’altezza della situazione, ma che si trova anche
priva di un progetto di futuro. La recente campagna elettorale è stata
caratterizzata da troppi slogans e da pochi proponimenti, dall’assenza di idee
credibili e spendibili, dalla mancanza di autorevolezza senza la quale
qualunque progetto resta solo un buon proposito senza quella spinta
motivazionale capace di conquistare il cuore di un popolo sofferente. Con lo
zainetto sulle spalle, dalle nostre parti si può andare solo a raccogliere “babbaluci”,
non basta l’audacia di un rottamatore, l’arroganza giovanilistica e
inconcludente a mobilitare le masse. A chi rimprovera i cittadini di non essere
stati lungimiranti per avere disertato le urne facendo, così, perdere l’opportunità
di eleggere un deputato locale, occorre rinfacciare come il familismo amorale, fenomeno
di cui si sono occupati autorevoli studiosi come Alberto Alesina e Andrea
Ichino, trova indulgenza soltanto in quelle plaghe sottosviluppate economicamente
e culturalmente, non certo nell’area iblea, dove, fortunatamente, alligna la
fierezza di quelle genti che hanno saputo determinare il proprio destino grazie
alle proprie capacità, all’intelligenza e all’ansia di libertà che le ha
animate. Sono le scelte da intraprendere
che caratterizzerà il nuovo governo della Regione Sicilia, ed i tagli non
possono che essere un corollario necessario e irrinunciabile dell’azione di
Governo, perché solo dai tagli possono arrivare le risorse per pagare il debito
e rilanciare lo sviluppo. Non è più, dunque, rinviabile il nodo della Formazione Professionale, per la quale la
Regione spende oltre 500 milioni di euro l’anno per mantenere un apparato
clientelare di nessuna utilità per i disoccupati; il nodo della forestazione,
altro carrozzone clientelare svicolato da qualunque ipotesi di sviluppo
produttivo del territorio; il pesante carrozzone burocratico della Regione dove
maggiormente si alligna l’intreccio clientelare-affaristico-mafioso; la sanità
sulla quale pesano interessi trasversali di casta che alimentano la spesa senza
contropartite in termini di efficienza ed efficacia dei servizi resi ai cittadini; i
fondi europei, bloccati da interessi clientelari e mafiosi, utilizzati finora in
minima parte e solo per favorire un dilagante malcostume dal quale nessuna
istituzione, anche la scuola, risulta ormai estranea. Da questi comparti, oltre
che da un rinnovato rapporto tra Stato e Regione, possono venire le risorse da
destinare ai territori e ai ceti produttivi per rilanciare l’economia. Ma qui è
necessario allontanare i centri di spesa dalla Regione. Occorre una riforma
dell’istituzione regionale che la privi
da qualunque attività di gestione, se non per quelle altamente qualificate
(quali grandi infrastrutture, gestione
delle calamità naturali ecc.), per dare più risorse, più mezzi, più autonomia ai
territori, riservando ad essa compiti legislativi e di controllo. La
ridefinizione delle provincie può essere l’occasione per fare scelte coraggiose
e innovative in direzione del decentramento, basterebbero tre o quattro macro
aree su cui disegnare il nuovo assetto amministrativo cui far corrispondere
altrettanti progetti di sviluppo in sintonia con le vocazioni territoriali, senza
attardarsi su inutili quanto stereotipate posizioni di retroguardia a difesa
dell’assetto istituzionali esistente. Dieci proposte di legge per cambiare la
Sicilia che il nuovo governo dovrebbe sottoporre all’Assemblea Regionale entro i
primi cento giorni, oppure il ritorno alle elezioni. Su un’ipotesi del genere
si scommette il futuro della Sicilia per evitare la più gattopardesca delle soluzioni: l'inciucio. Crocetta, rivoluzionario bon grè mal grè .
mercoledì 31 ottobre 2012
mercoledì 17 ottobre 2012
Dopo lo "sbarco" di Grillo la Sicilia potrebbe non essere più la stessa
Dopo lo “sbarco” di Grillo, le
elezioni in Sicilia sembrano non avere più storia. Su un aspetto della campagna
elettorale sembra oramai acquisito un fatto: Grillo conquista le piazze. Mai
vista tanta gente dai tempi in cui arrivavano i big nazionali come Berlinguer,
Moro e tanti altri. Qualcuno dice che la gente è attratta dal Grillo comico,
dallo spettacolo. Ma tanto si sa, quando la volpe non arriva all’uva dice che è
acerba. La verità è ben più tragica, ed è chiaro che nell’epoca in cui i
partiti come organizzazioni sono letteralmente spariti dalla scena e tanti
piccoli scilipoti devono confrontarsi sul terreno della comunicazione, allora
veramente non c’è più storia, chi lo frega Grillo che è un guru della
comunicazione, chi può vincerlo sul terreno che gli è proprio? Non sappiamo
cos’altro si inventerà prima della conclusione della campagna elettorale, ma lo
“sbarco” in Sicilia attraversando lo Stretto di Messina a nuoto è stata una
trovata geniale. Ci stanno tutte le proprietà per la costruzione di un evento
capace di tramutarsi in mito. Preparato con l’annuncio attraverso la stampa, ha
creato curiosità ed attesa, ha scommesso sul coraggio e sulla forza. Si è
preparato bene per recitare la parte dell’eroe in quest’arena dove parecchi
sono i cavalieri che competono con le spade spuntate per le loro qualità di onorevoli
falliti o di outsider buttati lì dai pupari più furbi, quelli che capiscono che
non è aria che tira e che è meglio aspettare momenti migliori. D’altronde non
sono stati i dirigenti dei partiti a scommettere sul carisma, sul personalismo
al posto del collettivo? Mi ricordo ancora, tanto tempo fa, quando i comunisti
e i democristiani affiggevano i manifesti con i loro simboli, la falce e il
martello o lo scudo crociato, evitando di esporre facce ammiccanti e spesso
anche stucchevoli, tempi in cui si andava porta a porta a parlare con la gente.
Oggi, a causa di un’errata interpretazione della modernità, nel simbolo si
trovano i nomi dei leader, con il risultato che trombato il leader non resta nemmeno
il partito. Quasi tutti hanno voluto puntare sulla forza del proprio carisma
personale, costruito a colpi di frasi ad effetto, sulla propria capacità di
“bucare il video”, a discapito dei programmi e del buon governo. Ma se tutto
ciò può andare bene per chi si presenta ingenuamente per la prima volta al
cospetto dell’elettorato, altrettanto non si può certo dire per chi ha
governato per venti anni. E’ emblematico il video che mostra il candidato
Presidente Miccichè che parla in una piazza quasi deserta davanti ad uno
striscione sorretto da un gruppetto di ragazzi su cui campeggia la scritta:”17
anni con Lombardo, Berlusconi, Cuffaro, Dell’Utri , Miccichè togliti dalle
liste elettorali!”. Qui non è più sufficiente la seduzione del tribuno bello ed
intelligente, la gente vuole resoconti, fatti e non più parole…parole…parole.
La costruzione mediatica del dirigente non funziona più, su questo terreno vince Grillo perché è il
suo mestiere. La gente chiede partecipazione, confronto delle idee, costruzione
di un progetto e certamente Grillo non è tutto questo. Grillo fa il suo
mestiere di comico, dice alla gente ciò che la gente vuole sentire. La gente sa
che i politici rubano e vuole qualcuno che glielo dice e glielo canta. I
discorsi di Grillo rafforzano il sentimento popolare e amplificano l’antipolitica.
Fanno male i politici a sottovalutare Grillo liquidandolo come un abominevole
pifferaio magico. In Sicilia la sconfitta della politica potrebbe rafforzare il
sistema clientelare-mafioso che potrebbe avere più presa su un’assemblea
regionale composta prevalentemente da personaggi inquinati e da persone
inesperte. Ma la campagna elettorale continua nell’assenza assoluta di
confronto, in piazze deserte e nella continua recita di monologhi così
omolagati che sembrano costruiti in serie dalla moderna fabbrica elettorale.
Manca una visione realistica della Sicilia di domani, manca il coraggio dell’autocritica,
mancano le idee, un progetto a cui legare le ansie e le aspettative
dei giovani, manca la capacità di rigenerare fiducia. E poi c'è un deficit di competenze necessarie per affrontare seriamente il nodo
della riforma della Regione, presupposto utile ed inderogabile per la sua
rinascita morale e civile, senza la quale è impossibile parlare di sviluppo.
Così, mentre i cittadini continuano con sacrificio e timore ad affrontare le
loro giornate pervase ed aggravate dai problemi di sempre, continuano gli
eventi inventati da Grillo tra gli applausi e gli entusiasmi di quel popolo
che, ancora una volta resta sedotto, come scriveva Antonio Gramsci nei
Quaderni:”… «dall’ammirazione ingenua e fanatica per l’intelligenza come tale,
per l’uomo intelligente come tale… forse unica forma di sciovinismo popolare in
Italia”. Alla fine, com’è successo per l’altro “sbarco” più famoso, molti
chiederanno di dedicargli una strada o costruirgli
un monumento, magari senza sapere perché.
martedì 16 ottobre 2012
Risolto il caso della piccola disabile privata dell’assistenza, ma chi paga per l’incuria?
Ho letto oggi sul giornale “La Sicilia” che
l’Assessore Giovanni Caruano ha chiesto scusa alle famiglie per i ritardi con
cui il Comune di Vittoria ha provveduto ad assegnare il personale alle scuole
per occuparsi dei bambini disabili. Ho colto in questo gesto un segno di civiltà
e di educazione che è difficile trovare in questo deserto che è diventato la
politica nel nostro territorio. Ma mi sono chiesto anche, come credo se lo chiedano
tanti altri cittadini, chi paga per questo ritardo che non trova nessuna giustificazione?
In questo caso non si possono addurre scuse banali o di semplice circostanza,
non si possono invocare i soliti ritardi nei trasferimenti della regione, delle
risorse sottratte agli Enti Locali dal Governo Monti, quando poi si assiste,
malgrado i continui piagnistei e mugugni, all’assunzione di esperti per i quali
possono esprimersi solo seri e fondati giudizi di inopportunità. Anzi, in
questa circostanza sono stati addotti motivi legati ai tempi tecnici necessari
per l’espletamento della gara, ma allora viene da chiedersi perché non si è
provveduto in tempo utile? Perché per fare una disinfestazione bisogna
aspettare sempre l’arrivo inoltrato dell’estate, per pulire le spiagge aspettare il mese di agosto? Perché i servizi
arrivano sempre alla fine, quando ormai non servono più? Mi chiedo allora, come
se lo chiedono tanti cittadini, ma che fanno i dirigenti del Comune, come viene
valutato il loro lavoro, ma, soprattutto, con quali criteri sono scelti dall’amministrazione
e quali sono i provvedimenti adottati in caso di inefficienza o di inadeguatezza rispetto al ruolo che svolgono?
Sarebbe ora, che di fronte all’ennesimo ingiustificato ritardo che ha costretto
una famiglia a rivolgersi ai carabinieri per avere riconosciuto un diritto
sacrosanto, subendo l’umiliazione di finire pure sulle pagine dei giornali, ci
fosse un provvedimento disciplinare, uno solo, per potere dimostrare,
finalmente, di esercitare utilmente
l’incarico politico ricevuto dai cittadini. Una volta gli alti burocrati
lamentavano il fatto che da loro ci si aspettavano i miracoli a fronte di
stipendi miserabili, ma oggi ci sono dirigenti che costano alle casse comunali
oltre centomila euro l’anno ed è giusto che vengano censurati quando dimostrano
di non essere all’altezza della situazione.
giovedì 11 ottobre 2012
Noi, i ragazzi del ' 68.
E’ arrivato l’autunno, ma non perché cadono le foglie, perché scendono
in piazza gli studenti. E’ un autunno diverso questo, con tutti i climi caldi,
sul fronte della scuola, della politica, del lavoro, del tempo. La FLC della
CGIL prova a coniugare le rivendicazioni
dei lavoratori con quelle degli studenti chiamandoli a partecipare alla
giornata di mobilitazione del 12 ottobre, per denunciare quel disagio che
colpisce, ormai, fasce molto estese della società italiana. Questa coniugazione
di obiettivi, questo provare a lottare, questa denuncia condivisa di operai e
studenti mi riporta alla memoria il primo autunno caldo, quello del 1969. Fu
quello il periodo che seguiva la straordinaria stagione del ’68, un’epoca
magica che investì tutto il mondo e che anticipò, con tutta la sua carica
innovativa, gli avvenimenti più salienti del secolo scorso, dalla guerra in
Vietnam fino alla caduta del muro di Berlino e all’implosione del sistema
comunista. Ma anche in quella occasione, come oggi, i problemi del nostro Paese
erano diversi rispetto al resto del mondo. Negli Stati Uniti d’America il ’68 si
contrassegnò per l’avversione dei giovani alla guerra in Vietnam, mentre nelle
università si avvertiva forte il bisogno di confrontarsi sui problemi dei
diritti civili, così le istanze pacifiste si mescolavano con la forte insofferenza
verso la guerra in una società in cui la popolazione di colore si raccoglieva e
lottava attratta dal pensiero di Martin Luther King, il quale non si stancava di
ripetere: "Riteniamo queste
verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati
uguali". L’America liberale, così, per la prima volta, si trovava ad affrontare
la soluzione di un nodo cruciale e cioè se in una società libera e democratica
potessero sussistere le gravi discriminazioni razziali e le pratiche
segregazioniste che intellettuali e giovani studenti denunciavano apertamente,
non più soltanto nelle scuole, ma in tutte le piazze d’America. In Italia,
invece, i problemi che masse di giovani denunciavano per primi nelle scuole e
nelle piazze di tutti i paesi, dal nord al sud, riguardavano non solo la
condizione di una scuola pensata e vissuta ancora secondo i canoni di una
legislazione e una prassi organizzativa risalente al ventennio fascista, ma
soprattutto il profilo autoritario e dirigista che ancora caratterizzava i
luoghi della connivenza civile, dalla famiglia alla scuola, dalle fabbriche alle
campagne, perfino le articolazioni dello Stato. Fino ad allora si era pensato
che, con la fine della seconda guerra mondiale, nel mondo si fosse aperta una
pagina nuova nella storia dell’umanità, che i principi conquistati nel corso
della rivoluzione francese, libertà uguaglianza fraternità, potessero
finalmente essere accolti e praticati in tutti i paesi civili, che i milioni di
caduti fossero il prezzo da pagare per dare, finalmente, all’umanità un futuro
di pace e di libertà. Il periodo immediatamente successivo alla guerra fu in
Italia, in effetti, un momento di grande risveglio civile e culturale, capace
di segnare grandi conquiste popolari, come, per esempio, il suffragio
universale, la Costituzione che, ancora oggi, rimane uno degli strumenti
giuridici più efficaci e straordinari del mondo. Ma la guerra fredda, con tutti
i suoi angoscianti postulati di paura e di morte, finì per spegnere quegli
entusiasmi, e la società italiana ripiombò nell’immobilismo, così quel primo
tentativo riformatore, avviato subito dopo la guerra, che avrebbe dovuto
portare l’Italia ad allinearsi con gli altri paesi occidentali, cedette il
passo ad un lungo periodo di stagnazione raffreddando il processo di
cambiamento dello Stato, che pur dotato di una Costituzione avanzata sotto il profilo civile
e sociale, rimaneva, nelle sue forme organizzative, pressappoco ai livelli
dello Statuto Albertino con qualche ritocco operato dal governo fascista che certamente
non si era ispirato a principi di giustizia e di eguaglianza. Il movimento
degli studenti del ’68 fu, così, l’alba di un generale risveglio della società
italiana, all’inizio perfino poco compreso da gran parte della sinistra storica
italiana. Fu una voglia di liberarsi da riti e metodi che avevano caratterizzato una società
chiusa e bigotta, dove una minoranza della popolazione, quella ricca e ben
accreditata, poteva porre fine al matrimonio e perfino abortire, frequentare le
scuole private, prepararsi a diventare classe dirigente apprendendo saperi e
pratiche estranee alla scuola pubblica che, prevalentemente, era rimasta
ancora, dopo sessant’anni, la scuola di Giovanni Gentile, una scuola ancora
fascista nei principi e nella prassi.
Almeno, così appariva a me stesso, costretto a subire ogni mattina il sequestro
del giornale quotidiano dove scrivevo da corrispondente, perché non era
previsto il giornale in classe dai “programmi ministeriali”. Ecco il bisogno di
essere alternativi e dissacranti, non violenti ma rivoluzionari, comunque
portatori di istanze che andavano ben aldilà della mancanza di bidelli o di
aule sovraffollate e prive di riscaldamento.
Un movimento, perciò, diverso dagli altri che nello stesso periodo si
sviluppavano in Francia e Germania o negli Stati Uniti d’America, proprio perché
in Italia toccavano aspetti essenziali della società e dello Stato, una condizione
che ben si confaceva alla critica di Herbert Marcuse, all’epoca molto letto
dagli studenti, secondo il quale le società industriali, ivi ricomprendendo
anche quelle socialiste, erano inevitabilmente portatrici di una morale sostanzialmente
repressiva, includendo nel proprio pensiero pessimista ciò che Adorno e
Horkheimer avevano sostenuto circa il rapporto tra sviluppo tecnologico ed emancipazione delle
masse. Marcuse, per tornare ai giorni nostri, con la sua opera, che io ritengo
fra i più importanti prodotti culturali del secolo scorso, “L’ uomo a una
dimensione”, anticipava di molto ciò che oggi è di tutta evidenza riguardo al
carattere fortemente repressivo della società industriale avanzata, una società
capace soltanto di ridurre l’uomo alla semplice ed unica dimensione di
consumatore, un uomo felice e stupido nello stesso tempo, che considera libertà
quella di potere consumare tra prodotti diversi. E’ questa una condizione che
il ventennio berlusconiano in Italia ha
reso molto più drammatica del resto del mondo, perché rafforzata negativamente
dalla povertà culturale, dal malcostume e dall’incapacità delle classi
dirigenti, cosa che oggi rende più difficile l’affermazione di un processo
civile ed economico in sintonia con i Paesi più avanzati. Spetta ai giovani,
ancora una volta, interpretare il mondo per cambiare in senso progressivo lo
stato delle cose esistente, perché hanno la forza delle idee, la voglia del
cambiamento, il diritto di essere protagonisti. La CGIL, promuovendo questa
giornata, che è anche di incontro tra giovani e lavoratori, non ripete l’errore
di quegli anni, quando gli studenti furono visti con tanto sospetto,
recuperando, invece, tutta la potenzialità di quell’autunno “caldo” del 1969, allorché
operai e studenti si incontrarono per la prima volta in una battaglia comune di
cambiamento. Sono convinto di ciò perché osservo, parlando con molti giovani,
che loro sono portatori, oltre che dei bisogni propri della scuola, anche dei
problemi vissuti drammaticamente nell’ambito familiare, problemi di disagio
economico, di mancanza di prospettive, di solitudine. Io, per motivi di salute,
non potrò essere presente alla manifestazione degli studenti di domani, ma lo
sarò col cuore e con la mente e auguro alle
ragazze e ai ragazzi e a tutti gli operatori della scuola che parteciperanno,
di essere antesignani di un nuovo grande periodo di riscatto morale e civile
che, muovendo dalla scuola e dai suoi bisogni, sappia cogliere l’esigenza di
riappropriarsi dei diritti prima conquistati ed oggi negati e, soprattutto, del
proprio futuro.
martedì 9 ottobre 2012
Psicosociologia del manifesto elettorale
C’è da chiedersi se vale la pena di
finire in coma per difendere il diritto di affissione di un manifesto elettorale. Nel caso di un
ragazzo che trae l’opportunità di guadagnare qualcosa, in tempi davvero grami per chi
ancora un lavoro non ce l'ha, può essere anche comprensibile, ma per
tutti gli altri non lo è. Non lo è per coloro che militanti di un partito
dovrebbero essere rispettosi delle più elementari regole di civiltà, non lo è
per i candidati i quali, ancora non approdati in parlamento, già fanno
esercizio di un discutibile metodo di affidamento della propria propaganda elettorale
ricorrendo ad elementi violenti e, a volte, anche poco raccomandabili sotto il
profilo della fedina penale. C’è da chiedersi, poi, se vale la pena continuare
a svolgere la campagna elettorale veicolando la propria immagine attraverso i
manifesti elettorali, surrogato anche degli spot televisivi che, per contenuti
e qualità, non sono dissimili dai primi. Tutti si affannano a scrivere di onestà
e legalità, ma di fatto sono i primi a violare la legge, disseminando le città
di quintali di cartaccia e di colla che spetta ai Comuni poi bonificare a spese
dei contribuenti. Carta spesso stracciata e buttata con noncuranza per le vie cittadine,
unitamente ad altri quintali di volantini e “santini” pieni di facce multicolori,
ora ammiccanti ora sorridenti, spesso ridondanti di sicula scipitanza. Onestamente occorre dire, ma solo in alcuni
casi, certi candidati, di persona, riescono a dare un’immagine anche migliore
di sé. Per il resto, sembrano tanti pupi siciliani, messi rigorosamente tutti in fila,
appittati di tutto punto, appaiono come tante facce artificiali, ora serie ora felici,
e ci vorrebbero i cantastorie per spiegare il significato dei loro messaggi.
Quasi sempre si tratta di una comunicazione “fai da te”, perché questi futuri
onorevoli hanno anche la fottuta presunzione di capire di comunicazione,
oppure si affidano a qualche pseudo giornalista di quelli che si aggirano in
cerca di fortuna in molti siti istituzionali, retribuiti, come è prassi, a carico del povero contribuente. Così c’è
quello che compiaciuto afferma tout court “sugnu sicilianu”, credendo di
concorrere alle elezioni della Lombardia dove, per l’appunto, nessuno ne conoscerebbe
la provenienza; e c’è quello che, già condannato per peculato, dice: “non parole,
ma fatti”, evidentemente riferendosi ai fatti criminosi per cui è stato processato;
c’è poi quello che fresco reduce dalla galera, comunica di essere umile, alla
faccia di chi ancora non crede nella capacità rieducativa della detenzione. Ci
sono, poi, quelli che si sono riscoperti rivoluzionari tout court, altri che fanno riferimento alla primavera araba e al
protagonismo spontaneo delle grandi masse popolari, la cui domanda di dignità è da intendersi come
rispetto dei diritti e dei bisogni delle persone. Purtroppo ai comizi di questi
novelli rivoluzionari mancano proprie le masse popolari e a stento si
intravedono gli amici e i parenti più
stretti. Per non parlare, infine, di coloro che sostengono che la rivoluzione
si può fare solo governando, e questo mi ha colpito molto, perché sovverte, e
qui c’è il fatto rivoluzionario, il principio stesso su cui poggia la vocazione
rivoluzionaria; infatti, se prima con rivoluzione si è inteso il radicale
cambiamento della forma di governo mediante l’azione del popolo, adesso è il
governo che si propone, mediante l’azione rivoluzionaria, di cambiare il
popolo. L’asserzione è di tale portata che solo un paragone regge al confronto,
allorché Galileo Galilei affermò nel suo manifesto elettorale “.. e pur si
muove!”, intendendo così che era la terra a girare intorno al sole e non
viceversa. A mio avviso, però, il manifesto elettorale che più mi ha affascinato
per l’impeto di sincerità e di onestà che ha saputo esprimere, e che resta una
pietra miliare nella storia della
comunicazione, è quello di Cetto La Qualunque quando afferma: “I have no dream,
ma mi piaci ‘u pilu”.
giovedì 4 ottobre 2012
Dialogo molto serio sull'immondizia
“Mamma, perché il sindaco non
toglie l’immondizia dalla strada?” Chiedeva ieri il piccolo alla sua mamma
mentre lo conduceva a scuola. “Stai attento alla strada, non vedi che passano
le macchine!” . “Mamma, ma il sindaco non deve risolvere i problemi dei
cittadini, perché non toglie l’immondizia? . “Ricordati che oggi viene a
prenderti papà e non dimenticare la merendina dentro lo zainetto!”.” Va bene
mamma, lo chiederò alla maestra perché il sindaco non toglie l’immondizia dalle
strade!” Avranno sicuramente un gran da fare le maestre nelle nostre scuole a
spiegare ai bambini come si fa a rispettare l’ambiente, quando cumuli di
immondizie sovrastano gli ingressi delle scuole e centinaia di discariche
abusive, ormai da anni, abbrutiscono un territorio una volta bellissimo, poi
deturpato dal cemento colato a tonnellate sotto lo sguardo di amministratori “distratti”,
oggi ingiuriato dal fetore e dalla vista
dissacrante di sacchi multicolori. All’immondizia ci si abitua. Come ci si
abitua alle prepotenze e alla violenza. E’ così che il senso comune si forma e
costruisce la coscienza collettiva che s’incunea fino a plasmare la coscienza
del singolo individuo. Oggi si riunisce il consiglio comunale, come l’anno
scorso, per decidere come il sindaco deve togliere l’immondizia dalle strade. Sapranno
i nostri eroi decidere in modo che le maestre diano una risposta ai bambini prima
che arrivino all’esame di maturità?
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