mercoledì 31 ottobre 2012

Le sfide di Crocetta tra ipotesi di sviluppo e timori di immobilismo

Le elezioni regionali del 28 ottobre scorso consegnano ai siciliani un risultato di grande sconvolgimento del panorama sociale e politico dell’isola. L’elezione di Rosario Crocetta costituisce senza alcun dubbio una rottura significativa con una prassi consolidata che ha visto susseguirsi alla Presidenza della Regione, tranne qualche eccezione,  personaggi del blocco di potere dominante, cioè il blocco affaristico-mafioso-clientelare. L’irrompere sulla scena politica siciliana di quello che, a ragione, è stato definito il ciclone Grillo, costituisce, altresì, un altro elemento di rottura rispetto all’atteggiamento, spesso corresponsabile, che larga parte del popolo siciliano ha conservato nei confronti della propria classe dirigente. Parlare di una presa di coscienza popolare del declino di una Regione, che della propria autonomia ha fatto una fiera prerogativa, e dell’esigenza di avviare una nuova fase di riscatto e di libertà, è ancora troppo presto, ma non c’è alcun dubbio che queste elezioni hanno creato uno spartiacque tra il prima e il dopo di questa stagione elettorale. La presenza di Grillo, sottovalutata fino alla vigilia da tutte le forze politiche in campo, ha sparigliato le carte della politica siciliana e reso definitivamente  impraticabile quel nuovo connubio che fino a pochi mesi prima aveva caratterizzato il nuovo blocco di potere tra  MPA-PD-UDC, anche se durante la campagna elettorale molti dei protagonisti si sono affannati a riproporlo come possibile rimedio rispetto alla palesata impossibilità, rilevata attraverso i sondaggi, di dare vita ad una maggioranza organica di governo, giusto sull’esempio delle larghe intese che sostengono il governo Monti. Malgrado, però, queste novità e questi stravolgimenti, le elezioni non hanno sciolto tutti i nodi lasciati in eredità dal precedente governo Lombardo, per l’impossibilità di costituire un governo al quale affiancare una organica maggioranza parlamentare. Anzi, ad un’attenta lettura dei risultati, la composizione dei seggi in larga parte rappresenta proprio il vecchio blocco di potere, anche se in qualche caso rinnovato negli uomini ma non certo nella volontà di favorire il rinnovamento delle istituzioni. Crocetta, dunque, dovrà muoversi necessariamente al di fuori degli schemi classici e formare un governo capace di raccogliere consenso innanzitutto fuori dall’istituzione, nell’opinione pubblica, per condizionare l’assemblea regionale e puntare su una forma di trasversalità capace di privilegiare cambiamento e innovazione a discapito della fame di potere dei partiti e dei loro interessi clientelari e mal affaristici. Un governo, perciò, di competenti, di persone oneste e senza “storie” di cui vergognarsi, non necessariamente di appartenenza, privi di vincoli verso consorterie e massonerie di vario genere. Lo vuole il popolo siciliano, ma è anche una necessità dovuta alla contingenza di una Regione che si trova sull’orlo di un baratro economico, una Regione alla quale non solo manca l’autorevolezza di una classe dirigente all’altezza della situazione, ma che si trova anche priva di un progetto di futuro. La recente campagna elettorale è stata caratterizzata da troppi slogans e da pochi proponimenti, dall’assenza di idee credibili e spendibili, dalla mancanza di autorevolezza senza la quale qualunque progetto resta solo un buon proposito senza quella spinta motivazionale capace di conquistare il cuore di un popolo sofferente. Con lo zainetto sulle spalle, dalle nostre parti si può andare solo a raccogliere “babbaluci”, non basta l’audacia di un rottamatore, l’arroganza giovanilistica e inconcludente a mobilitare le masse. A chi rimprovera i cittadini di non essere stati lungimiranti per avere disertato le urne facendo, così, perdere l’opportunità di eleggere un deputato locale, occorre rinfacciare come il familismo amorale, fenomeno di cui si sono occupati autorevoli studiosi come Alberto Alesina e Andrea Ichino, trova indulgenza soltanto in quelle plaghe sottosviluppate economicamente e culturalmente, non certo nell’area iblea, dove, fortunatamente, alligna la fierezza di quelle genti che hanno saputo determinare il proprio destino grazie alle proprie capacità, all’intelligenza e all’ansia di libertà che le ha animate.  Sono le scelte da intraprendere che  caratterizzerà il nuovo governo della Regione Sicilia, ed i tagli non possono che essere un corollario necessario e irrinunciabile dell’azione di Governo, perché solo dai tagli possono arrivare le risorse per pagare il debito e rilanciare lo sviluppo. Non è più, dunque, rinviabile il nodo della  Formazione Professionale, per la quale la Regione spende oltre 500 milioni di euro l’anno per mantenere un apparato clientelare di nessuna utilità per i disoccupati; il nodo della forestazione, altro carrozzone clientelare svicolato da qualunque ipotesi di sviluppo produttivo del territorio; il pesante carrozzone burocratico della Regione dove maggiormente si alligna l’intreccio clientelare-affaristico-mafioso; la sanità sulla quale pesano interessi trasversali di casta che alimentano la spesa senza contropartite in termini di efficienza ed efficacia dei servizi resi ai cittadini; i fondi europei, bloccati da interessi clientelari e mafiosi, utilizzati finora in minima parte e solo per favorire un dilagante malcostume dal quale nessuna istituzione, anche la scuola, risulta ormai estranea. Da questi comparti, oltre che da un rinnovato rapporto tra Stato e Regione, possono venire le risorse da destinare ai territori e ai ceti produttivi per rilanciare l’economia. Ma qui è necessario allontanare i centri di spesa dalla Regione. Occorre una riforma dell’istituzione  regionale che la privi da qualunque attività di gestione, se non per quelle altamente qualificate (quali grandi  infrastrutture, gestione delle calamità naturali ecc.), per dare più risorse, più mezzi, più autonomia ai territori, riservando ad essa compiti legislativi e di controllo. La ridefinizione delle provincie può essere l’occasione per fare scelte coraggiose e innovative in direzione del decentramento, basterebbero tre o quattro macro aree su cui disegnare il nuovo assetto amministrativo cui far corrispondere altrettanti progetti di sviluppo in sintonia con le vocazioni territoriali, senza attardarsi su inutili quanto stereotipate posizioni di retroguardia a difesa dell’assetto istituzionali esistente. Dieci proposte di legge per cambiare la Sicilia che il nuovo governo dovrebbe sottoporre all’Assemblea Regionale entro i primi cento giorni, oppure il ritorno alle elezioni.  Su un’ipotesi del genere si scommette il futuro della Sicilia per evitare la più gattopardesca delle soluzioni: l'inciucio. Crocetta, rivoluzionario bon grè mal grè .

      



                            
                                


mercoledì 17 ottobre 2012

Dopo lo "sbarco" di Grillo la Sicilia potrebbe non essere più la stessa


Dopo lo “sbarco” di Grillo, le elezioni in Sicilia sembrano non avere più storia. Su un aspetto della campagna elettorale sembra oramai acquisito un fatto: Grillo conquista le piazze. Mai vista tanta gente dai tempi in cui arrivavano i big nazionali come Berlinguer, Moro e tanti altri. Qualcuno dice che la gente è attratta dal Grillo comico, dallo spettacolo. Ma tanto si sa, quando la volpe non arriva all’uva dice che è acerba. La verità è ben più tragica, ed è chiaro che nell’epoca in cui i partiti come organizzazioni sono letteralmente spariti dalla scena e tanti piccoli scilipoti devono confrontarsi sul terreno della comunicazione, allora veramente non c’è più storia, chi lo frega Grillo che è un guru della comunicazione, chi può vincerlo sul terreno che gli è proprio? Non sappiamo cos’altro si inventerà prima della conclusione della campagna elettorale, ma lo “sbarco” in Sicilia attraversando lo Stretto di Messina a nuoto è stata una trovata geniale. Ci stanno tutte le proprietà per la costruzione di un evento capace di tramutarsi in mito. Preparato con l’annuncio attraverso la stampa, ha creato curiosità ed attesa, ha scommesso sul coraggio e sulla forza. Si è preparato bene per recitare la parte dell’eroe in quest’arena dove parecchi sono i cavalieri che competono con le spade spuntate per le loro qualità di onorevoli falliti o di outsider buttati lì dai pupari più furbi, quelli che capiscono che non è aria che tira e che è meglio aspettare momenti migliori. D’altronde non sono stati i dirigenti dei partiti a scommettere sul carisma, sul personalismo al posto del collettivo? Mi ricordo ancora, tanto tempo fa, quando i comunisti e i democristiani affiggevano i manifesti con i loro simboli, la falce e il martello o lo scudo crociato, evitando di esporre facce ammiccanti e spesso anche stucchevoli, tempi in cui si andava porta a porta a parlare con la gente. Oggi, a causa di un’errata interpretazione della modernità, nel simbolo si trovano i nomi dei leader, con il risultato che trombato il leader non resta nemmeno il partito. Quasi tutti hanno voluto puntare sulla forza del proprio carisma personale, costruito a colpi di frasi ad effetto, sulla propria capacità di “bucare il video”, a discapito dei programmi e del buon governo. Ma se tutto ciò può andare bene per chi si presenta ingenuamente per la prima volta al cospetto dell’elettorato, altrettanto non si può certo dire per chi ha governato per venti anni. E’ emblematico il video che mostra il candidato Presidente Miccichè che parla in una piazza quasi deserta davanti ad uno striscione sorretto da un gruppetto di ragazzi su cui campeggia la scritta:”17 anni con Lombardo, Berlusconi, Cuffaro, Dell’Utri , Miccichè togliti dalle liste elettorali!”. Qui non è più sufficiente la seduzione del tribuno bello ed intelligente, la gente vuole resoconti, fatti e non più parole…parole…parole. La costruzione mediatica del dirigente non funziona più,  su questo terreno vince Grillo perché è il suo mestiere. La gente chiede partecipazione, confronto delle idee, costruzione di un progetto e certamente Grillo non è tutto questo. Grillo fa il suo mestiere di comico, dice alla gente ciò che la gente vuole sentire. La gente sa che i politici rubano e vuole qualcuno che glielo dice e glielo canta. I discorsi di Grillo rafforzano il sentimento popolare e amplificano l’antipolitica. Fanno male i politici a sottovalutare Grillo liquidandolo come un abominevole pifferaio magico. In Sicilia la sconfitta della politica potrebbe rafforzare il sistema clientelare-mafioso che potrebbe avere più presa su un’assemblea regionale composta prevalentemente da personaggi inquinati e da persone inesperte. Ma la campagna elettorale continua nell’assenza assoluta di confronto, in piazze deserte e nella continua recita di monologhi così omolagati che sembrano costruiti in serie dalla moderna fabbrica elettorale. Manca una visione realistica della Sicilia di domani, manca il coraggio dell’autocritica, mancano le idee, un progetto a cui legare le ansie e le aspettative dei giovani, manca la capacità di rigenerare fiducia. E poi c'è un deficit di competenze necessarie per affrontare seriamente il nodo della riforma della Regione, presupposto utile ed inderogabile per la sua rinascita morale e civile, senza la quale è impossibile parlare di sviluppo. Così, mentre i cittadini continuano con sacrificio e timore ad affrontare le loro giornate pervase ed aggravate dai problemi di sempre, continuano gli eventi inventati da Grillo tra gli applausi e gli entusiasmi di quel popolo che, ancora una volta resta sedotto, come scriveva Antonio Gramsci nei Quaderni:”… «dall’ammirazione ingenua e fanatica per l’intelligenza come tale, per l’uomo intelligente come tale… forse unica forma di sciovinismo popolare in Italia”. Alla fine, com’è successo per l’altro “sbarco” più famoso, molti chiederanno di dedicargli una strada o  costruirgli un monumento, magari senza sapere perché.

martedì 16 ottobre 2012

Risolto il caso della piccola disabile privata dell’assistenza, ma chi paga per l’incuria?


Ho letto oggi sul giornale “La Sicilia” che l’Assessore Giovanni Caruano ha chiesto scusa alle famiglie per i ritardi con cui il Comune di Vittoria ha provveduto ad assegnare il personale alle scuole per occuparsi dei bambini disabili. Ho colto in questo gesto un segno di civiltà e di educazione che è difficile trovare in questo deserto che è diventato la politica nel nostro territorio. Ma mi sono chiesto anche, come credo se lo chiedano tanti altri cittadini, chi paga per questo ritardo che non trova nessuna giustificazione? In questo caso non si possono addurre scuse banali o di semplice circostanza, non si possono invocare i soliti ritardi nei trasferimenti della regione, delle risorse sottratte agli Enti Locali dal Governo Monti, quando poi si assiste, malgrado i continui piagnistei e mugugni, all’assunzione di esperti per i quali possono esprimersi solo seri e fondati giudizi di inopportunità. Anzi, in questa circostanza sono stati addotti motivi legati ai tempi tecnici necessari per l’espletamento della gara, ma allora viene da chiedersi perché non si è provveduto in tempo utile? Perché per fare una disinfestazione bisogna aspettare sempre l’arrivo inoltrato dell’estate, per pulire le spiagge  aspettare il mese di agosto? Perché i servizi arrivano sempre alla fine, quando ormai non servono più? Mi chiedo allora, come se lo chiedono tanti cittadini, ma che fanno i dirigenti del Comune, come viene valutato il loro lavoro, ma, soprattutto, con quali criteri sono scelti dall’amministrazione e quali sono i provvedimenti adottati in caso di inefficienza o di  inadeguatezza rispetto al ruolo che svolgono? Sarebbe ora, che di fronte all’ennesimo ingiustificato ritardo che ha costretto una famiglia a rivolgersi ai carabinieri per avere riconosciuto un diritto sacrosanto, subendo l’umiliazione di finire pure sulle pagine dei giornali, ci fosse un provvedimento disciplinare, uno solo, per potere dimostrare, finalmente,  di esercitare utilmente l’incarico politico ricevuto dai cittadini. Una volta gli alti burocrati lamentavano il fatto che da loro ci si aspettavano i miracoli a fronte di stipendi miserabili, ma oggi ci sono dirigenti che costano alle casse comunali oltre centomila euro l’anno ed è giusto che vengano censurati quando dimostrano di non essere all’altezza della situazione.

giovedì 11 ottobre 2012

Noi, i ragazzi del ' 68.


E’ arrivato l’autunno, ma non perché cadono le foglie, perché scendono in piazza gli studenti. E’ un autunno diverso questo, con tutti i climi caldi, sul fronte della scuola, della politica, del lavoro, del tempo. La FLC della CGIL  prova a coniugare le rivendicazioni dei lavoratori con quelle degli studenti chiamandoli a partecipare alla giornata di mobilitazione del 12 ottobre, per denunciare quel disagio che colpisce, ormai, fasce molto estese della società italiana. Questa coniugazione di obiettivi, questo provare a lottare, questa denuncia condivisa di operai e studenti mi riporta alla memoria il primo autunno caldo, quello del 1969. Fu quello il periodo che seguiva la straordinaria stagione del ’68, un’epoca magica che investì tutto il mondo e che anticipò, con tutta la sua carica innovativa, gli avvenimenti più salienti del secolo scorso, dalla guerra in Vietnam fino alla caduta del muro di Berlino e all’implosione del sistema comunista. Ma anche in quella occasione, come oggi, i problemi del nostro Paese erano diversi rispetto al resto del mondo. Negli Stati Uniti d’America il ’68 si contrassegnò per l’avversione dei giovani alla guerra in Vietnam, mentre nelle università si avvertiva forte il bisogno di confrontarsi sui problemi dei diritti civili, così le istanze pacifiste si mescolavano con la forte insofferenza verso la guerra in una società in cui la popolazione di colore si raccoglieva e lottava attratta dal pensiero di Martin Luther King, il quale non si stancava di ripetere: "Riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali". L’America liberale, così, per la prima volta, si trovava ad affrontare la soluzione di un nodo cruciale e cioè se in una società libera e democratica potessero sussistere le gravi discriminazioni razziali e le pratiche segregazioniste che intellettuali e giovani studenti denunciavano apertamente, non più soltanto nelle scuole, ma in tutte le piazze d’America. In Italia, invece, i problemi che masse di giovani denunciavano per primi nelle scuole e nelle piazze di tutti i paesi, dal nord al sud, riguardavano non solo la condizione di una scuola pensata e vissuta ancora secondo i canoni di una legislazione e una prassi organizzativa risalente al ventennio fascista, ma soprattutto il profilo autoritario e dirigista che ancora caratterizzava i luoghi della connivenza civile, dalla famiglia alla scuola, dalle fabbriche alle campagne, perfino le articolazioni dello Stato. Fino ad allora si era pensato che, con la fine della seconda guerra mondiale, nel mondo si fosse aperta una pagina nuova nella storia dell’umanità, che i principi conquistati nel corso della rivoluzione francese, libertà uguaglianza fraternità, potessero finalmente essere accolti e praticati in tutti i paesi civili, che i milioni di caduti fossero il prezzo da pagare per dare, finalmente, all’umanità un futuro di pace e di libertà. Il periodo immediatamente successivo alla guerra fu in Italia, in effetti, un momento di grande risveglio civile e culturale, capace di segnare grandi conquiste popolari, come, per esempio, il suffragio universale, la Costituzione che, ancora oggi, rimane uno degli strumenti giuridici più efficaci e straordinari del mondo. Ma la guerra fredda, con tutti i suoi angoscianti postulati di paura e di morte, finì per spegnere quegli entusiasmi, e la società italiana ripiombò nell’immobilismo, così quel primo tentativo riformatore, avviato subito dopo la guerra, che avrebbe dovuto portare l’Italia ad allinearsi con gli altri paesi occidentali, cedette il passo ad un lungo periodo di stagnazione raffreddando il processo di cambiamento dello Stato, che pur dotato di una  Costituzione avanzata sotto il profilo civile e sociale, rimaneva, nelle sue forme organizzative, pressappoco ai livelli dello Statuto Albertino con qualche ritocco operato dal governo fascista che certamente non si era ispirato a principi di giustizia e di eguaglianza. Il movimento degli studenti del ’68 fu, così, l’alba di un generale risveglio della società italiana, all’inizio perfino poco compreso da gran parte della sinistra storica italiana. Fu una voglia di liberarsi da riti e  metodi che avevano caratterizzato una società chiusa e bigotta, dove una minoranza della popolazione, quella ricca e ben accreditata, poteva porre fine al matrimonio e perfino abortire, frequentare le scuole private, prepararsi a diventare classe dirigente apprendendo saperi e pratiche estranee alla scuola pubblica che, prevalentemente, era rimasta ancora, dopo sessant’anni, la scuola di Giovanni Gentile, una scuola ancora fascista nei principi  e nella prassi. Almeno, così appariva a me stesso, costretto a subire ogni mattina il sequestro del giornale quotidiano dove scrivevo da corrispondente, perché non era previsto il giornale in classe dai “programmi ministeriali”. Ecco il bisogno di essere alternativi e dissacranti, non violenti ma rivoluzionari, comunque portatori di istanze che andavano ben aldilà della mancanza di bidelli o di aule sovraffollate e prive di  riscaldamento. Un movimento, perciò, diverso dagli altri che nello stesso periodo si sviluppavano in Francia e Germania o negli Stati Uniti d’America, proprio perché in Italia toccavano aspetti essenziali della società e dello Stato, una condizione che ben si confaceva alla critica di Herbert Marcuse, all’epoca molto letto dagli studenti, secondo il quale le società industriali, ivi ricomprendendo anche quelle socialiste, erano inevitabilmente portatrici di una morale sostanzialmente repressiva, includendo nel proprio pensiero pessimista ciò che Adorno e Horkheimer avevano sostenuto circa il rapporto tra  sviluppo tecnologico ed emancipazione delle masse. Marcuse, per tornare ai giorni nostri, con la sua opera, che io ritengo fra i più importanti prodotti culturali del secolo scorso, “L’ uomo a una dimensione”, anticipava di molto ciò che oggi è di tutta evidenza riguardo al carattere fortemente repressivo della società industriale avanzata, una società capace soltanto di ridurre l’uomo alla semplice ed unica dimensione di consumatore, un uomo felice e stupido nello stesso tempo, che considera libertà quella di potere consumare tra prodotti diversi. E’ questa una condizione che il ventennio berlusconiano in Italia  ha reso molto più drammatica del resto del mondo, perché rafforzata negativamente dalla povertà culturale, dal malcostume e dall’incapacità delle classi dirigenti, cosa che oggi rende più difficile l’affermazione di un processo civile ed economico in sintonia con i Paesi più avanzati. Spetta ai giovani, ancora una volta, interpretare il mondo per cambiare in senso progressivo lo stato delle cose esistente, perché hanno la forza delle idee, la voglia del cambiamento, il diritto di essere protagonisti. La CGIL, promuovendo questa giornata, che è anche di incontro tra giovani e lavoratori, non ripete l’errore di quegli anni, quando gli studenti furono visti con tanto sospetto, recuperando, invece, tutta la potenzialità di quell’autunno “caldo” del 1969, allorché operai e studenti si incontrarono per la prima volta in una battaglia comune di cambiamento. Sono convinto di ciò perché osservo, parlando con molti giovani, che loro sono portatori, oltre che dei bisogni propri della scuola, anche dei problemi vissuti drammaticamente nell’ambito familiare, problemi di disagio economico, di mancanza di prospettive, di solitudine. Io, per motivi di salute, non potrò essere presente alla manifestazione degli studenti di domani, ma lo sarò col cuore e con la mente e auguro  alle ragazze e ai ragazzi e a tutti gli operatori della scuola che parteciperanno, di essere antesignani di un nuovo grande periodo di riscatto morale e civile che, muovendo dalla scuola e dai suoi bisogni, sappia cogliere l’esigenza di riappropriarsi dei diritti prima conquistati ed oggi negati e, soprattutto, del proprio futuro.



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martedì 9 ottobre 2012

Psicosociologia del manifesto elettorale

C’è da chiedersi se vale la pena di finire in coma per difendere il diritto di affissione di un manifesto elettorale. Nel caso di un ragazzo che trae l’opportunità di guadagnare qualcosa,  in tempi davvero grami per chi ancora un lavoro non ce l'ha, può essere anche comprensibile, ma per tutti gli altri non lo è. Non lo è per coloro che militanti di un partito dovrebbero essere rispettosi delle più elementari regole di civiltà, non lo è per i candidati i quali, ancora non approdati in parlamento, già fanno esercizio di un discutibile metodo di affidamento della propria propaganda elettorale ricorrendo ad elementi violenti e, a volte, anche poco raccomandabili sotto il profilo della fedina penale. C’è da chiedersi, poi, se vale la pena continuare a svolgere la campagna elettorale veicolando la propria immagine attraverso i manifesti elettorali, surrogato anche degli spot televisivi che, per contenuti e qualità, non sono dissimili dai primi. Tutti si affannano a scrivere di onestà e legalità, ma di fatto sono i primi a violare la legge, disseminando le città di quintali di cartaccia e di colla che spetta ai Comuni poi bonificare a spese dei contribuenti. Carta spesso stracciata e buttata con noncuranza per le vie cittadine, unitamente ad altri quintali di volantini e “santini” pieni di facce multicolori, ora ammiccanti ora sorridenti, spesso ridondanti di sicula scipitanza.  Onestamente occorre dire, ma solo in alcuni casi, certi candidati, di persona, riescono a dare un’immagine anche migliore di sé. Per il resto, sembrano tanti pupi siciliani, messi rigorosamente tutti in fila, appittati di tutto punto, appaiono come tante facce artificiali, ora serie ora felici, e ci vorrebbero i cantastorie per spiegare il significato dei loro messaggi. Quasi sempre si tratta di una comunicazione “fai da te”, perché questi futuri onorevoli hanno anche la fottuta presunzione di capire di comunicazione, oppure si affidano a qualche pseudo giornalista di quelli che si aggirano in cerca di fortuna in molti siti istituzionali, retribuiti, come è prassi,  a carico del povero contribuente. Così c’è quello che compiaciuto afferma tout court “sugnu sicilianu”, credendo di concorrere alle elezioni della Lombardia dove, per l’appunto, nessuno ne conoscerebbe la provenienza; e c’è quello che, già condannato per peculato, dice: “non parole, ma fatti”, evidentemente riferendosi ai fatti criminosi per cui è stato processato; c’è poi quello che fresco reduce dalla galera, comunica di essere umile, alla faccia di chi ancora non crede nella capacità rieducativa della detenzione. Ci sono, poi, quelli che si sono riscoperti rivoluzionari tout court, altri che  fanno riferimento alla primavera araba e al protagonismo spontaneo delle grandi masse popolari,  la cui domanda di dignità è da intendersi come rispetto dei diritti e dei bisogni delle persone. Purtroppo ai comizi di questi novelli rivoluzionari mancano proprie le masse popolari e a stento si intravedono  gli amici e i parenti più stretti. Per non parlare, infine, di coloro che sostengono che la rivoluzione si può fare solo governando, e questo mi ha colpito molto, perché sovverte, e qui c’è il fatto rivoluzionario, il principio stesso su cui poggia la vocazione rivoluzionaria; infatti, se prima con rivoluzione si è inteso il radicale cambiamento della forma di governo mediante l’azione del popolo, adesso è il governo che si propone, mediante l’azione rivoluzionaria, di cambiare il popolo. L’asserzione è di tale portata che solo un paragone regge al confronto, allorché Galileo Galilei affermò nel suo manifesto elettorale “.. e pur si muove!”, intendendo così che era la terra a girare intorno al sole e non viceversa. A mio avviso, però, il manifesto elettorale che più mi ha affascinato per l’impeto di sincerità e di onestà che ha saputo esprimere, e che resta una pietra miliare  nella storia della comunicazione, è quello di Cetto La Qualunque quando afferma: “I have no dream, ma mi piaci ‘u pilu”.

giovedì 4 ottobre 2012

Dialogo molto serio sull'immondizia


“Mamma, perché il sindaco non toglie l’immondizia dalla strada?” Chiedeva ieri il piccolo alla sua mamma mentre lo conduceva a scuola. “Stai attento alla strada, non vedi che passano le macchine!” . “Mamma, ma il sindaco non deve risolvere i problemi dei cittadini, perché non toglie l’immondizia? . “Ricordati che oggi viene a prenderti papà e non dimenticare la merendina dentro lo zainetto!”.” Va bene mamma, lo chiederò alla maestra perché il sindaco non toglie l’immondizia dalle strade!” Avranno sicuramente un gran da fare le maestre nelle nostre scuole a spiegare ai bambini come si fa a rispettare l’ambiente, quando cumuli di immondizie sovrastano gli ingressi delle scuole e centinaia di discariche abusive, ormai da anni, abbrutiscono un territorio una volta bellissimo, poi deturpato dal cemento colato a tonnellate sotto lo sguardo di amministratori “distratti”,  oggi ingiuriato dal fetore e dalla vista dissacrante di sacchi multicolori. All’immondizia ci si abitua. Come ci si abitua alle prepotenze e alla violenza. E’ così che il senso comune si forma e costruisce la coscienza collettiva che s’incunea fino a plasmare la coscienza del singolo individuo. Oggi si riunisce il consiglio comunale, come l’anno scorso, per decidere come il sindaco deve togliere l’immondizia dalle strade. Sapranno i nostri eroi decidere in modo che le maestre diano una risposta ai bambini prima che arrivino all’esame di maturità?