lunedì 18 marzo 2019

Noi, figli orgogliosi di Psaumida di Kamarina


Non so che idea s’è fatto il dott. Franco Di Mare, esimio conduttore di RAIUNO MATTINA, ascoltando quell’espressione, “esattamente”, buttata lì, memento audere semper, a perenne ignominia dei vittoriesi onesti, tutti, senza eccezione alcuna, collocati a loro insaputa entro il cerchio delle “famiglie” dedite a “spartirsi” con ferocia il territorio. A lui è rivolto il ricordo di questa Ode di Pindaro che parla di un figlio di questa nostra terra che nel 452 a.C. vinse ad Atene tre gare dei LXXXII giochi olimpici di Olimpia, tra cui la gara più ambita, quella con la quadriga. Noi vittoriesi siamo tante cose, alcune brutte, ma c’è anche una storia nostra che parla di fatica, di orgoglio, di sacrifici, di intelligenza, di operosità, delle quali la RAI dovrebbe opportunamente parlare, anche perché il canone lo paghiamo anche noi.

PER PSAUMIS DI KAMARINA, COL CARRO DA MULE

Fiore dolce d'imprese eccelse
e di ghirlande olimpiche accogli
con cuore ridente, figlia dell'Okeanós:
doni di Psaûmis
e del carro dai piedi instancabili.
Lui, o Kamárina, accrebbe la tua città
popolosa, quando i sei duplici altari
onorò alla festa suprema dei numi
con sacrificî di armenti
e in lotta in gare di cinque giorni:
quadriga e mule e cavallo montato. Ed a te
dedicò vincitore una gloria
soave, e il nome del padre bandì -
di Ákron - e della patria or ora risorta.
Viene dall'amabile terra
d'Oinómaos e Pélops, e canta, o Pallás
poliade, il tuo bosco puro
e il corso dell'Óanos e
il lago di questo paese,
e i sacri canali onde l'Hípparis
bagna le genti e veloce
salda una selva di tetti
robusti, traendo un'intera
città dalla penuria alla luce.
Sempre combattono tesi al successo
sforzo e denaro, a una meta pur sempre
velata di rischio. Ma è saggio
anche per i concittadini chi riesce.
Zeus Salvatore alto fra i nembi,
tu che abiti il colle Krónios e onori
il maestoso Alpheiós e l'antro augusto
sull'Ída, supplice tuo cantando
al suono di flauti lidî io giungo:
adorna, ti prego, di schiere di forti
questa città. E a te, vincitore
d'Olimpia, conceda il dio tra cavalli
di Poseidôn la gioia d'un'età
fino in fondo serena, attorniato
di figli, o Psaûmis. Chi irriga
una sana fortuna
e ai beni, appagato, aggiunge
la gloria, non chieda di farsi dio.

martedì 12 febbraio 2019

Da Hegel a Rifkin, com'è cambiato il concetto di ricchezza e povertà.

A ragione il secolo XVII può essere considerato lo spartiacque tra Vecchio e Nuovo Mondo. Uno dei segni di questo cambiamento è dato dall'aumento demografico come, d'altronde, lo era stato per i secoli XI e XII quando l'Occidente era stato interessato da momenti di forte vivacità economica e di relativa prosperità. Ma mentre nei secoli precedenti l'aumento era stato relativo, in questo secolo si assiste ad una vera esplosione demografica, tanto che in quasi tutti i Paesi europei si registra il raddoppio della popolazione. Questo cambiamento è, tra l'altro, il risultato delle modificazioni che nel Settecento subiscono le strutture agrarie a seguito delle importazioni di piante dalle colonie quali il mais e le patate, con le quali era possibile realizzare maggiori rese produttive attraverso una più efficace e razionale organizzazione del lavoro. Questa nuova situazione aveva prodotto uno sconvolgimento nei vecchi assetti sociali, necessitando i proprietari di una maggiore libertà di movimento, di un cospicuo investimento di capitali e di molto spirito di inizativa. Sono queste le premesse di una nuova stagione politica alla cui base sta la rivendicazione di una maggiore libertà dell'iniziativa privata e del diritto di proprietà, che si conclude con la privatizzazione dei demani pubblici e di una razionalizzazione dei sistemi di coltivazione, innovazioni che da un lato migliorarono il sistema alimentare delle popolazioni e dall'altro incrementarono il commercio mondiale.
Il processo di trasformazione dell'agricoltura costituisce, così,  la premessa di una radicale e quanto mai sconvolgente riorganizzazione della società. Ne sono convinti sostenitori i fisiocrati, i quali nel processo di sviluppo dell'agricoltura individuano quel sistema di riproduzione del surplus capace di incrementare la produzione. Le loro idee costituiscono i presupposti culturali e programmatici del pensiero illuminista e pongono le basi di quella rivoluzione che, puntando sull'abbattimento di tutte quelle leggi, privilrgi e vincoli propri del sistema feudale, crea le condizioni dello sviluppo del profitto, del commercio e dell'avvento del capitalismo. Da queste premesse nasce e si sviluppa la Rivoluzione Industriale. L'inghilterra è il Paese dove questa rivoluzione si sviluppa fino a produrre tali rivolgimenti sociali ed economici, che il ruolo politico della nobiltà, compresi i privilegi, ne risultano irrimediabilmente compromessi, mentre consente alla borghesia di promuovere, prima nelle campagne e poi nelle città, un nuovo sistema di produzione, che sfruttando le conquiste del progresso scientifico e massimizzando il profitto attraverso la divisione del lavoro, rivoluziona l'insieme dei rapporti sociali e pone le basi per la conquista del potere politico. la borghesia agraria e commerciale investe ora nell'industria, utilizza nuove fonti di energia, i vecchi attrezzi di lavoro vengono sostituiti dalle macchine, le nuove tecnologie accrescono il ritmo di produzione della ricchezza. Nuovi attori entrano sulla scena di questo grande palcoscenico che è costituito dal mondo moderno della produzione. I proprietari delle manifatture e delle fabbriche, la borghesia capitalistica, gli operai specializzati, i lavoratori comuni al limite della sussitenza, i disoccuipati proiettati verso una prospettiva di abbrutimento e di disperazione. E' la società commerciale, nella quale Hobbes valuta l'uomo per ciò che vale e dove Smith giudica ciascuno ricco o povero a seconda della capacità di soddisfare i propri bisogni, una società dove gli uomini sono condizionati da una molteplicità di bisogni artificiali e dove la divisione del lavoro permette soltanto di produrre una piccolissima parte di beni necessari a soddisfarli, per cui una persona è ricca o povera nella misura in cui riesce ad acquistare il lavoro degli altri. Lo scambio e la divisione del lavoro costituiscono i mezzi per aumentare la ricchezza sociale. Per Smith lo scambio consente l'armonia e la mediazione dei molteplici interessi sociali, potendo, infatti, scambiare i propri beni con quelli degli altri (il di più rispetto alle proprie necessità) ciascuno può aumentare il proprio benessere e, nel contempo, ampliare la propria gamma di bisogni. Il lavoro, dunque,crea e produce la ricchezza, è il mezzo universale che permette lo scambio, la moneta con la quale è possibile acquistare ogni cosa. Inoltre, il lavoro permette di produrre il sovrappiù che reinvestito dal capitalista permette di espandere la produzione e di trarre, detratto il costo del salario e delle materie prime, il giusto profitto. L'economia politica classica considera il profitto un reddito particolare, qualcosa di diverso dalla rendita parassitaria o di posizione di cui beneficia la nobiltà. Questo reddito infatti non è diretto al consumo, bensì alla produzione e ciò non fa che incentivare l'occupazione di tanti operai, i quali, a loro volta, producono altro sovrapiù che investito espande la produzione, aumentando il benessere e la ricchezza universale. Il processo produttivo assume, così,  un carattere circolare che, secondo la teoria di Ricardo, produce per la produzione e non per il consumo, anzi quest'ultimo costituisce solo un elemento funzionale del processo. Ad una società di consumatori, secondo Smith, si sostiuisce ora una società di produttori e la produzione diventa il fine dell'azione sociale, si consuma per produrre, si affermano nuovi valori morali: l'operosità, il risparmio. Si condanna l'ozio, il vizio, il consumo fine a se stesso.
Lo stesso Smith, però, si accorge che il sistema da lui stesso teorizzato, è causa di conseguenze gravissime per la comunità e non solo perchè il capitalismo è causa di una nuova e più crudele condizione di emarginazione, di povertà e di una enorme massa di disoccupati, ma anche perchè a tutti quegli operai legati al lavoro particolarizzato delle fabbriche, a causa dell'affermarsi della divisione del lavoro, che restringe l'attività dell'uomo a poche operazioni, non resta altra prospettiva che una vita di miseria fisica e spirituale: "L'uomo che trascorre l'intera sua vita nel compiere poche e semplici operazioni, i cui effetti sono, peraltro, sempre gli stessi o quasi, non ha occasione di esercitare la propria intelligenza o la propria capacità inventiva nel cercare espedienti per superare delle difficoltà che egli non incontra mai. E' così che smarrisce l'abitudine ad esercitare la propria facoltà e diventa, in generale stupido e ignorante" (Adam Smith, "La ricchezza delle Nazioni", Editori Riuniti, Roma 1969). Sono gli operai dell'industria, quelli che lavorano duramente nelle miniere, nelle aciaerie, sono i contadini che la rivoluzione agraria ha espulso dalle campagne e gli artigiani vinti dalla concorrenza delle prime macchine a vapore, uomini, donne e fanciulli "alla mercè dei padroni che li tenevano rinchiusi in edifici isolati, lontani da testimoni che si potessero commuovere per le loro sofferenze, erano sottoposti ad una schiavitù disumana. La giornata lavorativa era limitata soltanto dal completo sfinimento delle loro forze, e durava quattordici, sedici e anche diciotto ore. I capireparto, il cui salario dipendenva dal lavoro eseguito nei settori che dirigevano, non permettevano momenti di pausa. Nella maggior parte delle fabbriche, dei quaranta minuti concessi per il principale o meglio l'unico pasto, venti circa erano dedicati alla pulitura delle macchine. Il lavoro continuava ininterrotamente giorno e notte. In questo caso venivano formati dei gruppi che si davano il cambio: "i letti on si freddavano mai". Gli infortuni erano molto frequenti soprattutto al termine delle giornate più dure, quando i bambini, stremati, si addormentavano sul lavoro: le dita strappate, le membra maciullate dagli ingranaggi non si contavano più". (Paul Mantoux, "La rivoluzione industriale", Einaudi, Torino, 1971).
La fabbrica costringe il lavoratore a mantenere un rapporto costante soltanto con la macchina in una catena di atti sempre uguali, dove risulta impossibile un qualsiasi movimento di vita di relazione. La particolarità del lavoro, è vero, aumenta la specializzazione dell'operaio, ma è anche vero che lo estranea dal contesto sociale in cui egli opera, impedendogli il godimento di una vita vissuta con gioia: "In ogni società progredita e civile questa è la condizione nella quale non può che necessariamente cadere il povero lavoratore, e allora la maggior parte del popolo, se il governo non si dia la pena di impedirlo." (Adam Smith, "Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni" Milano, Isedi, 1973).
Questa drammatica complessità del mondo moderno della produzione è colta pure da Hegel: "Il decadere di una grande massa al di sotto della misura d'un certo modo di sussistenza, il quale si regola da se stesso come il modo necessario, per un membro della società, e con ciò il decadere alla perdita del sentimento del diritto, della rettitudine e dell'onore di sussistere mediante propria attività e lavoro, genera la produzione della plebe, produzione che in pari tempo porta con sè d'altro lato una maggiore facilità di concentrare in poche mani ricchezze sproporzionate," (Hegel, "Lineamneti di filosofia del diritto" Laterza, Bari 1991). Hegel si rende conto che il mondo della produzione non è sempre il mondo dell'armonia e del benessere e avverte che la classe legata al lavoro è quella che più subisce il contraccolpo di azioni estranee, lontane e incontrollabili e perciò proiettata alla miseria più grave. La povertà è causa di irrequietezza e, quindi, produttrice di odio e di ribellione. Hegel avverte, dunque, la contraddizione e i pericoli che l'eccessiva ricchezza e povertà producono all'interno della società civile senza, tuttavia, trovare una via d'uscita: "Vien qui in evidenza che malgrado l'eccesso della ricchezza la società civile non è ricca abbastanza, cioè nelle risorse ad essa peculiari non possiede abbastanza per ovviare all'eccesso della povertà e alla produzione della plebe." (Ibidem,§ 245). Hegel percepisce, altresì, che "la dipendenza di grandi rami dell'industria da circostanze estere e contaminazioni remote, che gli individui...non possono abbracciare nella loro connessione, rende necessaria una previdenza e guida generale" (Ibidem, § 236).
Di fronte all'accumularsi di una enorme ricchezza nelle mani di pochi e il manifestarsi di una povertà estrema che, per varie cause, non è possibile ricomporsi nella naturale dialettica della società civile, i due filosofi che più di ogni altro hanno teorizzato il liberismo economico, avvertono con grande onestà intellettuale la necessità di un intervento dello Stato (la Polizei in Heghel) qualora le contraddizioni del sistema portano all'estrema consuguenza dell'odio e della ribellione. Si dia da fare lo Stato, allora, con interventi pubblici, dall'illuminazione delle strade, agli ospedali, alle scuole "l'autorità generale prenda su di sè il posto della famiglia presso i poveri" (Ibidem, § 241)
Dalla rivoluzione industriale alla Rivoluzione informatica passano tre secoli e anche se la situazione odierna, per quanto riguarda la condizione di grandi masse popolari, non è per nulla paragonabile a quella descritta da Paul Manteaux, non c'è dubbio che un clima di grande incertezza e preoccupazione pervade l'Europa, centro e crogiolo di avvenimenti che, nel bene e nel male, hanno segnato i destini del mondo.
Oggi in Europa ci sono 36 milioni di disoccupati, in Italia la disoccupazione raggiunge il 12% della popolazione attiva e supera il 20% nel Mezzogiorno. Il 3% della disoccupazione è disoccupazione strutturale, il restante 9%, depurato dalla disoccupazione endemica da sottosviluppo, è la conseguenza del progresso tecnologico e della rapidità con cui l'innovazione pervade le strutture produttive che crea un forte tasso di produttività accompagnata da alti livelli di disoccupazione. Il fenomeno non è affatto nuovo se Keynes nel 1932 poteva affermare: "...siamo colpiti da una nuova malattia, di cui alcuni lettori possono non conoscere ancorail nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: la disoccupazione tecnologica. Ciò significa che la disoccupazione dovuta agli strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo sempre più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera." (AA.VV. "Disoccupazione di fine secolo", Bollati Boringhieri, Torino, 1997). L'avvento della tecnologia informatica e la rapidità delle innovazioni accompagnate da misure di ordine organizzativo e gestionali, hanno prodotto un fenomeno del tutto nuovo: la crescita dello sviluppo senza occupazione. La fine del lavoro è il titolo del libro di Jeremy Rifkin (Baldini e Castoldi, 1995, Milano) nel quale il leader dei verdi americani si spinge a sostenere che il lavoro finisce e non ritorna, come gli alberi della foresta brasiliana, una volta tagliati non crescono più.
Ma questa prospettiva appare per il momento lontana e la situazione è ben altra, visto che per per effetto della globalizzazione si assiste ad una crescita del lavoro in tutto il mondo tranne che in Europa, dove i vincoli sul piano sociale, contrattuale, legislativo, costituiscono dei limiti allo sviluppo capitalistico rispetto a Paesi ove la crescita del sistema capitalistico avviene sulla base di un modello senza regole e senza vincoli. Risulta allora evidente la contraddizione tra uno sviluppo compatibile con le scelte di civiltà acquisite in anni di lotte durissime e uno sviluppo caratterizzato dalla concorrenza, dall'assenza di regole, di condizioni e di garanzie che costituisce il modello a cui tende il "pensiero unico" dei grandi circoli finanziari mondiali.
Si ricostituiscono così quelle condizioni originarie dello sviluppo capitalistico caratterizzato dalla concentrazione di grandi ricchezze nelle mani di poche persone a fronte di una crescente massa di cittadini condannati al non-lavoro. I rimedi proposti rimangono comunque quelli della liberazione del mercato del lavoro dalla "rigidità" imposta dai numerosi vincoli di tipo normativo e contrattuale, il ricorso ad una maggiore flessibilità del  mercato del lavoro, che significa più libertà per le imprese di potere licenziare e disporre della manodopera secondo le proprie esigenze, senza che esista la pur minima garanzia di un aumento dell'occupazione. Ciò dimostra, dopo secoli di discussioni, che il mercato non è in grado da solo di risolvere la contraddizione tra soddisfazione dei bisogni fondamentali dell'uomo e disoccupazione. Ma questo era stato pure il dilemma non risolto di Smith ed Hegel, che pure erano tra i più qualificati sostenitori del libero mercato.




mercoledì 30 gennaio 2019

Una storia di braccianti, riflessioni sulla mia città.


La lettera del clero locale rivolta alla cittadinanza sembra avere stimolato  un dibattito politico ormai assente da tempo nella città di Vittoria. Ce n’era bisogno? Io credo di si. Aldilà dei giudizi e delle prese di posizione fin qui registrate, i sacerdoti, che non sono dei  politicanti adusi alle finezze della propaganda politica, hanno espresso un disagio, l’hanno fatto con gli strumenti che gli sono propri, interpretando umori e sentimenti di una città che ormai da tempo vive un disorientamento, un’incapacità a ritrovare il bandolo della matassa, dopo anni di crescita ed espansione della sua forza produttiva. Forse i sacerdoti non sono consapevoli che tutta la verità non sta scritta nel loro comunicato, ma sicuramente hanno presente di muoversi in un deserto di relazioni e di progetti. Perché bisogna dirlo con forza che questo deserto non è nato con lo scioglimento del consiglio comunale e la cacciata del sindaco per presunte collusioni con ambienti mafiosi. Il deserto della società civile a Vittoria c’era da tempo, e semmai lo scioglimento intervenuto di recente non è che la conclusione di un lungo processo di inaridimento del complesso sistema di relazioni tra forze politiche e sociali, sistema produttivo e istituzioni pubbliche, in un contesto sempre più aggravato da condizionamenti di tipo mafioso.

A Vittoria si è concluso, da tempo, il ciclo storico che ebbe inizio tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, allorché migliaia di braccianti senza terra, avviando la sperimentazione delle coltivazioni degli ortaggi sotto serra, si trasformarono in piccoli produttori agricoli, acquistando modesti appezzamenti di terreno. Non fu un movimento spontaneo. I braccianti erano organizzati nei sindacati ed esprimevano una consistente rappresentanza politica raccolta attorno ai partiti di sinistra. A seguito di quelle trasformazioni, una nuova categoria di piccoli imprenditori agricoli si conquistò uno spazio entro l’alveo del ceto medio cittadino. Dentro le logiche di quello che viene considerato l’ascensore sociale, i nuovi arrivati oltre ad affrancarsi dall’antica servitù del lavoro salariato, iniziarono ad esprimere bisogni nuovi, quali possedere una casa, avere un’automobile, il telefono, fare studiare i figli, aspirare ad una seconda casa. Tutto ciò avvenne in una Sicilia attraversata da mille contraddizioni, mentre Vittoria sperimentava un originale laboratorio sociale ed economico. All’interno del Partito Comunista, che rappresentava la maggioranza del movimento bracciantile, si aprì perfino una discussione di non secondaria importanza. Il Partito, allora,  era reduce dalla lotta per la conquista della terra, negli anni precedenti si era dovuto confrontare in numerose realtà dell’isola con il fallimento della riforma agraria. La rincorsa all’acquisto della terra da parte dei braccianti ragusani apparve come una naturale conseguenza di quel fallimento, finché un congresso cittadino  che si tenne a Vittoria, si concluse con una mozione sintetizzata nella parola d’ordine “la terra si acquista e non si conquista”. Il gruppo dirigente in questo modo anticipava di qualche decennio la svolta riformista del Partito Comunista. Ma il confronto non si fermò solo a dirimere la questione tra acquisto o conquista della terra. Nello stesso periodo nelle terre del Buonincontro, tra Vittoria e Gela, venne scoperto un grosso giacimento di petrolio che accese speranze in larghe fasce dell’opinione pubblica, inducendo un lungo e appassionato dibattito, che si concluse con la definitiva ed irreversibile scelta delle nascenti trasformazioni agrarie. All’oro nero si preferì l’oro verde.

Le trasformazioni produttive ebbero uno sviluppo tumultuoso ed imprevisto. Sebbene le amministrazioni di sinistra, suffragate da un’imponente rete associativa promossa dai partiti  e dai sindacati, si impegnarono a rivitalizzare il tessuto sociale e civile del territorio, alcuni settori del ceto medio cittadino, avvalendosi di autorevoli complicità, diedero vita ad una fitta rete di speculazioni, correlate in parte alla vendita di terreni agricoli data la forte richiesta di appezzamenti di terreno da destinare alle colture serricole, in parte sui terreni necessari a soddisfare il bisogno di case cui aspiravano i nuovi produttori. Ci fu perfino chi festeggiò con gli amici il raggiungimento di un miliardo di patrimonio. Le dune sabbiose che nessuno avrebbe mai acquistato perché considerate improduttive, furono vendute a caro prezzo e la stragrande maggioranza dei braccianti dovette indebitarsi per poterne acquistare tanto quanto necessario a mantenere la famiglia. La stessa cosa si verificò per le aree destinate all’edificazione. Con il favore di alcuni notai i terreni che avrebbero dovuto prima essere lottizzati, venivano venduti come frustoli di terreno agrario, mediamente di cento metri quadrati, favorendo in tal modo la proliferazione di interi quartieri abusivi, e lasciando alla pubblica amministrazione l’onere di sanare gli stessi quartieri portandovi  acqua potabile, fognature, illuminazione pubblica e scuole. Di fronte alla complessità dei problemi che incombevano, il dibattito pubblico si inasprì e nel 1963 l’amministrazione di sinistra fu estromessa dal governo cittadino nel pieno delle trasformazioni in atto, grazie al cambio di casacca,  indotto dalle promesse dell’opposizione, di alcuni  consiglieri comunali. Durante questo periodo, lungo sette anni, intervallato da gestioni commissariali, il piano regolatore generale stentava a decollare, le previsioni urbanistiche prestavano il fianco a speculazioni edilizie di vasta portata; ebbe inizio il sacco urbanistico e la città si espanse a dismisura. Il PRG, nel frattempo,   venne bocciato dalla regione ripetutamente,  mentre la speculazione  si ingrassava attirando l’attenzione di gruppi criminali interessati all’investimento di capitali di dubbia provenienza. Bisogna aspettare il 1975 per venire a capo della complessa situazione. Le nuove amministrazioni che si susseguirono, approvarono il nuovo programma di fabbricazione e avviarono un vasto programma di risanamento: scuole materne, asili nido, servizi sociali, attività culturali, acqua, fognature, mercato ortofrutticolo. Ma mentre la città procedeva a consolidare il proprio modello di sviluppo, vasti interessi speculativi, una complicata matassa di interessi trasversali che non disdegnavano l’apporto di inquietanti sostegni mafiosi, ne segnavano la crescita. Ad un certo punto le forze politiche di sinistra non riuscirono più a governare quel lungo e faticoso processo di cambiamento. Dilaniate dalla conflittualità dei propri gruppi dirigenti, negli anni  assistettero immobili allo sfaldamento di quel tessuto associativo che aveva funzionato da freno alla pervasività di interessi parassitari contigui ad una criminalità raffinata, che si esprimeva non soltanto contaminandosi con i gruppi di fuoco che si contendevano le tradizionali attività dello spaccio di droga e del racket delle estorsioni, ma riuscendo perfino ad occultarsi dentro un verminaio di relazioni affollato da interessi di varia natura, cui non rimasero estranei settori non ben identificati delle istituzioni pubbliche.

Come se non bastasse, i cambiamenti economici introdotti dalla globalizzazione hanno finito per  accentuare il processo di degradazione del tessuto economico e sociale della città. L’emergere della Grande Distribuzione Organizzata ha radicalmente cambiato il sistema mercantile che nel tempo si era consolidato attorno al mercato ortofrutticolo, ed il sistema produttivo, per sopravvivere, ha fatto ricorso alla manodopera degli immigrati dando origine ad una inedita condizione economica, dove produttori e lavoratori agricoli si trovano nella stessa condizione di mera sussistenza, caratterizzata dalla bassa remunerazione del prodotto e dallo svilimento dei salari, così i due protagonisti dell’attività di impresa, il produttore ed il lavoratore salariato, vivono ai limiti del proprio sostentamento i primi, ed ai limiti della dignità umana  i secondi. Migliaia di produttori, per  mantenere il livello di vita guadagnato dopo anni di duri sacrifici e continuare la loro attività di impresa, negli anni si sono indebitati sottoponendosi a nuove forme di sfruttamento, testimoniato anche dalle decine di sportelli bancari che in dispregio di qualunque logica economica continuano a sorgere come funghi. Sono migliaia le case pignorate poste all’asta per insolvenza nei pagamenti da parte di tantissime imprese ridotte al lastrico. Vecchi e nuovi speculatori, evidenti ed occulti, alimentano quel verminaio mai estinto che si nutre di antiche e  nuove forme di connivenza criminale di cui si stenta, ancora una volta, a comprenderne i perversi meccanismi.

Dentro questo quadro disarmante, la città negli ultimi anni ha assistito al graduale, e ora definitivo, impoverimento del proprio tessuto associativo. Associazioni professionali e partiti sono letteralmente scomparsi e se qualcuno ancora dà segni di una qualche testimonianza, manca, comunque, di un progetto, di una capacità di analisi della realtà complessa in cui si muovono i vari attori sociali. Le amministrazioni comunali si sono fermate alla gestione ordinaria, non comprendendo che nel nuovo assetto globale delle relazioni umane, spetta alla rappresentanza locale  dare slancio al tessuto associativo, promuovendo, attraverso una rinnovata progettualità, un proficuo rapporto con le istituzioni nazionali ed europee anche attraverso una riqualificazione delle risorse umane di cui dispone. La gestione spicciola del potere, l’alimentare  il proliferare di clientele vecchie e nuove, muoversi dentro un labile confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, ha contrassegnato l’attività di non pochi politici lungo questi anni, sempre con l’occhio  puntato ad un seggio al parlamento regionale o al parlamento nazionale, obiettivo che assicura piccoli privilegi e una rendita sicura a politici di poco pregio, perlopiù svincolati dagli ideali e dall’etica di chi li ha preceduti, considerati questi ultimi poco più che dei rincoglioniti. La Regione e lo Stato assenti, succubi di un’Europa considerata nemica dai produttori per non avere saputo valorizzare non solo le trasformazioni intervenute, ma per non avere percepito per tempo come questa plaga meridionale fosse diventata strategica entro i nuovi scenari mondiali e, soprattutto, con l’emergere dell’Africa come interlocutore necessario per la stabilità in Europa.

Dentro questo quadro disarmante, vecchie e nuove forme criminali si organizzano per dare il colpo definitivo a ciò che resta dell’economia florida e promittente di una volta. Ed è per questo motivo che lo scioglimento del consiglio comunale non spiega di per sè tutto il malessere in cui versa la città, che non può essere ridotto allo scambio di qualche voto da parte di piccoli criminali interessati ad una promessa di assunzione al comune. Dentro il verminaio in cui allignano interessi di vasta portata,  agiscono attori di vario livello, molti dei quali riescono ad occultarsi grazie a complicità e connivenze che sfuggono alle lenti piuttosto appannate degli inquirenti. Perché non ci si chiede come è possibile che in una fase di grave recessione economica, migliaia di case pignorate a famiglie arrivate sul lastrico, vengono messe all’asta e vendute a prezzi stracciati? Forse che tale meccanismo non è in correlazione con un’economia che si nutre di vecchie e nuove attività criminali? All’interno di questo perverso sistema  vanno anche approfondite le scelte di natura urbanistica contenute  nel piano regolatore varato dalle ultime amministrazioni. Le nuove previsioni urbanistiche prevedono l'edificazione lungo ciò che resta della costa che partendo da Vittoria si snoda fino a quasi la città di Acate,  dove il patrimonio costruito, per densità, risulta già ampiamente sovradimensionato e che solo per tale motivo sarebbe necessario l’approfondimento, per capire quali interessi si celano dietro scelte apparentemente illogiche e perciò incomprensibili. Basterebbe esaminare i passaggi di proprietà che si sono succedute negli ultimi dieci anni lungo la costa per trarre le necessarie considerazioni. La città è in ginocchio, ma non ha perso la speranza, non ha smesso di sognare. Solo chi questa storia di braccianti non l’ha vissuta e non la conosce, può azzardare di pensarla arresa e frustrata. Malgrado le conseguenze della crisi economica, che Vittoria vive alla stregua delle altre città del Meridione d’Italia, ogni mattina partono dal mercato centinaia di camion pieni di primizie che profumano ancora di intelligenza operosa e di consapevolezza delle proprie potenzialità. Mai, comunque, come in questi anni l’interlocuzione è stata così difficile con i governi regionali e nazionali, e ciò rende complicato riprogettare un nuovo ciclo economico. I produttori sono soli, e da soli tutto diventa più difficile e maledettamente complicato. Eppure la gente a Vittoria continua con coraggio a scommettere, a sperimentare, a soffrire ma non ad arrendersi. Ha solo bisogno di darsi una nuova classe dirigente capace di sapere interpretare i  suoi bisogni, indicare la via, esplicitare gli obiettivi e sapere come mobilitare le energie che ci sono. Ma il clero locale, se può avvertire e denunciare il disagio in cui versa la città,  non ha impresso nella propria missione il compito di svelare il complicato bandolo della matassa. La città ha bisogno di una ripartenza per la quale da un lato non è più procrastinabile lo smantellamento alla radice del perverso intreccio di interessi illegali, dall’altro è necessario fare emergere al più presto alla vita pubblica il tessuto sano di cui dispone ampiamente, e questo è il compito della commissione prefettizia.