mercoledì 13 marzo 2013

L’8 marzo delle donne: e’ tempo della democrazia paritaria! Se non ora quando?


Molte sono state le donne che, nella ricorrenza dell’8 marzo, hanno voluto sottolineare di non avere nulla da festeggiare, semmai riflettere sul fatto che la condizione della donna subisce, ancora oggi, uno stato di degradazione rispetto allo status sociale e giuridico dei maschi, e di violenza, come i ripetuti casi di femminicidio dimostrano vista l’ ossessiva frequenza con cui se ne occupano le cronache dei giornali. La giornata dell’’8 marzo, comunque, a mio avviso, rimane la Festa delle Donne, la ricorrenza che ne celebra il lunghissimo percorso di riscatto da una condizione di assoggettamento al primato che i maschi hanno imposto più con la cultura che con la differenza biologica. L’Uomo, infatti, alla stregua di tante altre specie animali, è innanzitutto un essere sociale, come le formiche, caratterizzato sì dall’egoismo, cioè, dalla sua necessità di adattamento ai processi naturali, ma anche per il senso innato di solidarietà intesa come strategia capace di assicurargli la sopravvivenza nella mutevolezza delle condizioni dell'ambiente. L’uomo e la donna, quindi, cellula costitutiva del più ampio progetto di società, sono per legge di natura destinati a collaborare fra di loro e ad intessere, oltre il processo procreativo, le condizioni per determinare il successo della vita proprio attraverso lo scambio solidale. Anche quella che potremmo definire la prima divisione del lavoro, la femmina dà la vita e il maschio si adopera per assisterla, si fonda sostanzialmente su un sentimento di solidarietà o su un bisogno di solidarietà. Gli studi più recenti, portati alla ribalta internazionale dal prof. Edward O. Wilson della Harvard University, sembrano confermare, non senza polemiche, questa teoria, sostenendo che se è vero, secondo la teoria darwiniana, che il più forte è destinato alla sopravvivenza,  è anche dimostrato  che i gruppi solidali fra di loro aumentano le proprie possibilità di conservazione. Allora che cosa ha determinato il progressivo ribaltamento di questa originaria condizione solidaristica in uno strumento di coercizione e di assoggettamento dell’uno verso l’altro? E’ probabile, come dimostrano diversi studi, da quelli di Johann Jakob Bachofen a quelli dell’etnologo Bronislaw  Malinowski, che la condizione sociale originaria dei gruppi umani sia stata caratterizzata da una forma di matriarcato: una figura femminile sostanzialmente stabile, dentro la “caverna”, dedita all’organizzazione economica e sociale del gruppo;  un maschio preposto ad attività di approvvigionamento del cibo e, all’occorrenza, di difesa dagli attacchi esterni, situazione che ha consentito alla donna, in questa fase, di disporre di un  ampio potere. Le condizioni, probabilmente, si sarebbero rovesciate allorché,  a causa della penuria di risorse, il gruppo originario ha dovuto muoversi alla ricerca di condizioni più favorevoli ad assicurarsi il  ricambio organico, passando da una situazione di prevalente stanzialità ad un’altra caratterizzata dal nomadismo, condizione questa che ha visto il prevalere dell’esperienza maschile su quella femminile. Sicuramente l’affermazione del potere maschile ha richiesto l’avvicendamento di diversi periodi storici, il perfezionamento tecnologico, l’affermarsi dell’agricoltura e il formarsi della cultura come accumulazione di pratiche, esperienze, codici comportamentali capaci di originare quella propensione all' elaborazione simbolica che è il linguaggio,  tipico della condizione umana. Tra i due sessi, dunque, si è giocata una straordinaria contesa per il potere su terreni diversi e disparati, non escluso quello della rappresentazione simbolica, inclusa, per incorporazione, nella tradizione orale e poi nella raffigurazione pittorica e nella scrittura. Nell’affermare il suo primato sulla donna l’uomo non ha mancato di usare tutti i nuovi strumenti per associarla, di volta in volta, ad un destino crudele ed ineludibile: ora responsabile del peccato originale, causa del loro decadere dallo stato di grazia alla condizione umana pervasa dalla sofferenza e dal sacrificio del lavoro, ora strega, ora seduttrice, ora madonna, ora moglie e madre, tutti simboli usati dai maschi per perpetuare una condizione di permanente subalternità.

C’è stata, quindi, nella giornata dell’8 marzo, che quest’anno è stata celebrata con una riflessione sul rapporto donna e politica, voluta da Rosetta Perupato e dalla Consulta Comunale Femminile, l’occasione non solo di rivisitare questa lotta per il potere combattuta tra uomini e donne nei vari ambiti della cultura, del linguaggio, della società, per capire e comprenderne la dinamica evolutiva, ma per chiedersi, infine, se sono maturi i tempi di una ricomposizione originaria in senso solidale della gestione del potere. La conquista di nuovi spazi nella sfera pubblica da parte delle donne, pone a mio avviso la necessità di porre come condizione non più procrastinabile l’affermazione di una democrazia paritaria da costruire sul presupposto che la rappresentanza non può fondarsi su condizioni di pari opportunità ma sull’uguaglianza effettiva dei generi, “50” e “50” di quote in ogni dove decisionale per consentire alle donne di portare a compimento la loro rivoluzione, l’unica oggi che può permettere realisticamente di modificare i meccanismi del potere, per andare oltre la sensazione che c’è qualcosa che si muove, oltre i segnali che è possibile cogliere nei risultati di tante ricerche e di studi che da anni vengono condotti nel nostro e in tanti altri Paesi. Altrimenti non ha senso parlare di differenza di genere se questa differenza non da un contenuto e una direzione di senso ai risultati, importantissimi, di queste ultime elezioni che hanno visto tante donne in Parlamento quanto non se ne contano nelle democrazie più mature. E una utopia? Allora impariamo a sperare nel senso indicato da Ernst Bloch: “L'importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all'aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L'affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all'esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono “. E il nuovo è la carica di empatia che possono introdurre le donne nel potere decidere, insieme, un diverso orientamento della vita sociale ed economica, un diverso assetto della scuola, della struttura politica, un diverso approccio ai problemi dell’ambiente, della vita delle città. Festeggiare i risultati fin qui raggiunti nella speranza di una nuova prospettiva, mi sembra il modo migliore per celebrare l’8 marzo delle donne nel senso dichiarato dal poeta Kahlil Gibran: “Quando la mano di un uomo tocca la mano di una donna, entrambi toccano il cuore dell'eternità”.

venerdì 25 gennaio 2013

Elezioni politiche 2013… qui si fa un quarantotto!


Certo che ne sono successe di cose nell’anno che ci ha appena lasciati! Probabilmente, presi dall’angoscia della fine del mondo pronosticata dai Maya, non ci siamo accorti del tutto che tante cose , dopo il 2012, non sono più come prima. La politica, che negli ultimi anni non ha certamente dato il meglio di sé, ha finito per perdere quel ruolo di centralità nella vita sociale così come si era venuta a determinare all’indomani delle due rivoluzioni moderne, la rivoluzione industriale e la rivoluzione francese, due eventi che sconvolsero il mondo per l’avvento sul proscenio della Storia delle masse, divenute viepiù protagoniste del loro destino. Il potere, così, di conseguenza, migrò dall’assolutismo delle caste nobiliari alle folle, masse, cioè, organizzate con fini diversi, ora economiche, ora religiose, ora culturali che la politica, nel tempo, ha tentato di armonizzare nella prospettiva di realizzare il bene comune. Il termine rivoluzione, agli inizi dell’ottocento, irruppe, dunque, con veemenza in gran parte dell’Europa avocando a sé la voglia incontenibile di cambiamento, e non tanto di libertà, che questa, piuttosto, non è l’aspirazione delle grandi masse.  Acuto osservatore di questa peculiarità delle masse fu Gustave Le Bone, il quale osservando l’irrompere delle folle nella vita pubblica osservava come gli individui, allorchè confusi in una moltitudine, proiettassero fuori di sé una porzione della propria anima che, in unione con quella degli altri individui ivi convenuti, formava ciò che lui stesso definiva l”anima delle folle”. Purtroppo, a differenza dell’anima individuale, modellata sull’esperienza personale, risultato di una costruzione affettiva e relazionale con l’ambito familiare e sociale di provenienza, l’anima della folle era la risultanza, per Le Bone, degli istinti più primitivi che ciascuno individuo conserva, perché ascritti, come sostenne più tardi Jung, negli archetipi primordiali che caratterizzano le specie viventi. Di queste osservazioni si occupò pure Sigmund Freud riconoscendo a Le Bone il merito di avere scoperto come negli  individui, allorché parte di moltitudini anche occasionali, si determina una regressione dell’attività psichica. Altri studiosi ebbero modo di occuparsi del fenomeno, talché lo stesso J.A.Schumpeter ebbe ad evidenziare come nei parlamenti, ma anche in forme associative più ristrette, è possibile rilevare una diminuzione del livello intellettuale delle persone da ascrivere ad “influenze extralogiche” sicchè “…i lettori dei giornali, gli ascoltatori dei programmi radiofonici, i membri di un partito, anche se non fisicamente riuniti in gruppo, tendono a divenire, dal punto di vista psicologico, una folla, a cadere in uno stato di eccitazione in cui ogni tentativo di ragionamento logico ha il solo effetto di stimolare impulsi bestiali”. Tesi, queste ultime, che a molti sono sembrate azzardate, ma colte, anche se in una prospettiva di analisi scientifica, anche da studiosi come Horkheimer e Adorno che hanno rilevato come anche “nella moderna società tecnica, le tesi di Le Bone, trovano conferma, seppure in superficie”. D'altronde, oggi basta portarsi in uno stadio per assistere ad una partita di calcio, per vedere il nostro vicino di casa, il rigoroso ed impettito avvocato, distinguersi fra i più esagitati per gridare: “ Arbitro cornuto!”, per farsi un’idea dello stato regressivo della psiche cui incorrono persone che mai e poi mai avremmo sospettato nei panni di pericolosi agitatori da stadio. Sarà, forse, per questo motivo, che una giovane africana ha potuto assumere, in Italia, per legge, i connotati di una nipote di un capo di stato straniero nel corso di una agitata seduta parlamentare. E sarà anche per lo stesso motivo che tutte le sconcezze legislative,  in Italia, vengono prodotte nel corso dell’approvazione delle cosiddette leggi finanziarie che, di prassi, vengono portate al voto prima di natale in un clima di straordinaria euforia e concitazione, causa, per l’appunto, di quella regressione psichica di cui ci stiamo occupando. L’irrompere delle masse sulla scena pubblica, dunque, per ritornare al nostro discorso iniziale, avviene subito dopo le due grandi rivoluzioni in Europa e, soprattutto in Italia, sotto lo stimolo di gruppi ed orientamenti diversi, accomunati dal desiderio di determinare un cambiamento dello stato di cose esistenti, così gruppi di rivoluzionari sotto sigle diverse, dalla Carboneria fino agli Adelfi e i Filadelfi, si espansero lungo tutto lo Stivale. Ma fu la Sicilia a dare il via ai moti insurrezionali che successivamente dilagarono in Europa fino a raggiungere la Francia e la Germania, quando il 12 gennaio del 1848 scoppiò un’insurrezione popolare che portò alla proclamazione dell’indipendenza siciliana (lo Stato di Sicilia), durata poco più di un anno. La parola rivoluzione, dunque, correva lungo percorsi accidentati portando con sè un virus capace di contagiare popoli differenti, ceti sociali diversi, accomunati dall’ansia di un cambiamento che ormai le rivoluzioni, quella economica e quella politica, avevano innescato senza alcuna possibilità di arretramento. In quell’anno 1848 successero tali e tanti di quegli avvenimenti che ancora oggi, quando si vuole fare riferimento ad una situazione di scompiglio e di confusione si suole ripetere: “ Qui succede un quarantotto!”. Anche oggi, il termine rivoluzione muove lungo percorsi, a volte apparentemente dissimili, ma nella sostanza convergenti nella direzione di un cambiamento. Oggi, come allora, altre rivoluzioni, una economica (tecnologia dell’informazione), l’altra politica (globalizzazione), costituiscono le premesse di un processo ormai avviato, segnato dalla fine della centralità dei Partiti e dall’irrompere delle folle (mediatiche, televisive) sulla scena pubblica. Ancora una volta i moti partono dalla Sicilia, è il caso della Rivoluzione della Dignità di Crocetta o della Rivoluzione Civile di Ingroia, ma non sono i soli perché anche le forze della Restaurazione organizzano la loro controrivoluzione ed il linguaggio si è fatto confuso, così come confuse sono le forze in campo: il ceto medio si è proletarizzato, i capitalisti rinnegano il libero mercato, i grandi finanzieri rivendicano il potere che prima fu dei nobili e poi della borghesia. Per raggiungere il proprio obiettivo, ogni protagonista cerca di rivolgersi direttamente alle masse, che perlopiù sono costituite da folle televisive, occupando ogni spazio reso disponibile dai nuovi mezzi di comunicazione (anche facebook, twitter), usando un linguaggio omologato che punta direttamente a fare presa in quella parte irrazionale della psiche umana che, davanti la televisione, vive quel processo di retrocessione ad una condizione di primitività. E’ allora possibile che nel volgere di qualche giorno si possa dire tutto ed il contrario di tutto, perfino che il Presidente del Consiglio possa affermare che l’IMU non può essere messa in discussione e, contemporaneamente, alla televisione accanto, ribadire che forse qualcosa va cambiata, e, in tutto questo è difficile scorgere un barlume di logica. Oggi, come allora, di fronte a tanta confusione, è possibile che succeda di nuovo un quarantotto.  Marx, ribaltando la premessa del “Manifesto”, direbbe: “Degli spettri oggi si aggirano per l’Europa…si chiamano Monti, Berlusconi, Merkel, Lagarde, Putin…! ”, e lancerebbe un nuovo monito: “Consumatori di tutto il mondo, unitevi!”