Molte sono state le donne che,
nella ricorrenza dell’8 marzo, hanno voluto sottolineare di non avere nulla da
festeggiare, semmai riflettere sul fatto che la condizione della donna subisce,
ancora oggi, uno stato di degradazione rispetto allo status sociale e giuridico
dei maschi, e di violenza, come i ripetuti casi di femminicidio dimostrano vista
l’ ossessiva frequenza con cui se ne occupano le cronache dei giornali. La
giornata dell’’8 marzo, comunque, a mio avviso, rimane la Festa delle Donne, la
ricorrenza che ne celebra il lunghissimo percorso di riscatto da una condizione
di assoggettamento al primato che i maschi hanno imposto più con la cultura che
con la differenza biologica. L’Uomo, infatti, alla stregua di tante altre
specie animali, è innanzitutto un essere sociale, come le formiche, caratterizzato
sì dall’egoismo, cioè, dalla sua necessità di adattamento ai processi naturali,
ma anche per il senso innato di solidarietà intesa come strategia capace di
assicurargli la sopravvivenza nella mutevolezza delle condizioni dell'ambiente.
L’uomo e la donna, quindi, cellula costitutiva del più ampio progetto di
società, sono per legge di natura destinati a collaborare fra di loro e ad
intessere, oltre il processo procreativo, le condizioni per determinare il
successo della vita proprio attraverso lo scambio solidale. Anche quella che
potremmo definire la prima divisione del lavoro, la femmina dà la vita e il
maschio si adopera per assisterla, si fonda sostanzialmente su un sentimento di
solidarietà o su un bisogno di solidarietà. Gli studi più recenti, portati alla
ribalta internazionale dal prof. Edward O. Wilson della Harvard University,
sembrano confermare, non senza polemiche, questa teoria, sostenendo che se è
vero, secondo la teoria darwiniana, che il più forte è destinato alla
sopravvivenza, è anche dimostrato che i gruppi solidali fra di loro aumentano le
proprie possibilità di conservazione. Allora che cosa ha determinato il
progressivo ribaltamento di questa originaria condizione solidaristica in
uno strumento di coercizione e di assoggettamento dell’uno verso l’altro? E’
probabile, come dimostrano diversi studi, da quelli di Johann Jakob Bachofen a
quelli dell’etnologo Bronislaw Malinowski, che la condizione sociale
originaria dei gruppi umani sia stata caratterizzata da una forma di
matriarcato: una figura femminile sostanzialmente stabile, dentro la “caverna”,
dedita all’organizzazione economica e sociale del gruppo; un maschio preposto ad attività di
approvvigionamento del cibo e, all’occorrenza, di difesa dagli attacchi
esterni, situazione che ha consentito alla donna, in questa fase, di disporre
di un ampio potere. Le condizioni,
probabilmente, si sarebbero rovesciate allorché, a causa della penuria di risorse, il gruppo
originario ha dovuto muoversi alla ricerca di condizioni più favorevoli ad
assicurarsi il ricambio organico,
passando da una situazione di prevalente stanzialità ad un’altra caratterizzata
dal nomadismo, condizione questa che ha visto il prevalere dell’esperienza
maschile su quella femminile. Sicuramente l’affermazione del potere maschile ha
richiesto l’avvicendamento di diversi periodi storici, il perfezionamento
tecnologico, l’affermarsi dell’agricoltura e il formarsi della cultura come
accumulazione di pratiche, esperienze, codici comportamentali capaci di
originare quella propensione all' elaborazione simbolica che è il linguaggio, tipico della condizione umana. Tra i due
sessi, dunque, si è giocata una straordinaria contesa per il potere su terreni
diversi e disparati, non escluso quello della rappresentazione simbolica,
inclusa, per incorporazione, nella tradizione orale e poi nella raffigurazione
pittorica e nella scrittura. Nell’affermare il suo primato sulla donna l’uomo
non ha mancato di usare tutti i nuovi strumenti per associarla, di volta
in volta, ad un destino crudele ed ineludibile: ora responsabile del peccato
originale, causa del loro decadere dallo stato di grazia alla condizione umana pervasa
dalla sofferenza e dal sacrificio del lavoro, ora strega, ora seduttrice, ora
madonna, ora moglie e madre, tutti simboli usati dai maschi per perpetuare una
condizione di permanente subalternità.
C’è stata, quindi, nella giornata
dell’8 marzo, che quest’anno è stata celebrata con una riflessione sul rapporto
donna e politica, voluta da Rosetta Perupato e dalla Consulta Comunale
Femminile, l’occasione non solo di rivisitare questa lotta per il potere combattuta
tra uomini e donne nei vari ambiti della cultura, del linguaggio, della
società, per capire e comprenderne la dinamica evolutiva, ma per chiedersi,
infine, se sono maturi i tempi di una ricomposizione originaria in senso
solidale della gestione del potere. La conquista di nuovi spazi nella sfera
pubblica da parte delle donne, pone a mio avviso la necessità di porre come
condizione non più procrastinabile l’affermazione di una democrazia paritaria
da costruire sul presupposto che la rappresentanza non può fondarsi su
condizioni di pari opportunità ma sull’uguaglianza effettiva dei generi, “50” e
“50” di quote in ogni dove decisionale per consentire alle donne di portare a
compimento la loro rivoluzione, l’unica oggi che può permettere realisticamente
di modificare i meccanismi del potere, per andare oltre la sensazione che c’è
qualcosa che si muove, oltre i segnali che è possibile cogliere nei risultati
di tante ricerche e di studi che da anni vengono condotti nel nostro e in tanti
altri Paesi. Altrimenti non ha senso parlare di differenza di genere se questa
differenza non da un contenuto e una direzione di senso ai risultati,
importantissimi, di queste ultime elezioni che hanno visto tante donne in
Parlamento quanto non se ne contano nelle democrazie più mature. E una utopia?
Allora impariamo a sperare nel senso indicato da Ernst Bloch: “L'importante è
imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per
sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all'aver
paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato
nel nulla. L'affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di
restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a
uno scopo e che cosa all'esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo
affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e
cui essi stessi appartengono “. E il nuovo è la carica di empatia che possono
introdurre le donne nel potere decidere, insieme, un diverso orientamento della
vita sociale ed economica, un diverso assetto della scuola, della struttura
politica, un diverso approccio ai problemi dell’ambiente, della vita delle
città. Festeggiare i risultati fin qui raggiunti nella speranza di una nuova
prospettiva, mi sembra il modo migliore per celebrare l’8 marzo delle donne nel
senso dichiarato dal poeta Kahlil Gibran: “Quando la mano di un uomo tocca la
mano di una donna, entrambi toccano il cuore dell'eternità”.