Di tutto si parla in questi
terribili giorni, di economia, di salute, soprattutto di soldi. Poca attenzione
è riservata dai media ai giovani, agli anziani, alla società che cambia
velocemente. Di questo mi voglio occupare con questa riflessione. Il mio pensiero
è rivolto subito ai giovani, alla Generazione C, quella del Coronavirus, per
intenderci, che segue i Millenials, la generazione perduta. Sono i giovani
cresciuti nel corso della recessione economica più terribile dal dopoguerra ad
oggi; entrano a far parte di un Paese con il debito pubblico più alto al Mondo
e, quindi, sono già carichi di un fardello che nessuna generazione aveva dovuto
sopportare prima di loro. Una generazione bloccata non solo dai debiti, ma
senza nessuna realistica prospettiva di fare carriera, e non significa nulla
essere un medico in una sanità depauperata da anni di scandali e
privatizzazioni selvagge; essere un ingegnere in assenza di investimenti
infrastrutturali; essere imprenditori senza un piano di sviluppo economico;
essere un ricercatore senza finanziamenti alla ricerca. Oggi quando i giovani
affrontano il problema del lavoro si devono confrontare con il reddito di
cittadinanza, nella prospettiva di trovarsi in una condizione di assistenza
permanente, poco sopra della soglia di sopravvivenza, perché il lavoro
semplicemente non c’è ed è pure difficile inventarlo. Perché, come sostiene
l’economista Jeremy Rifkin, la tecnologia taglia i posti di lavoro che non
ricrescono più, come gli alberi della foresta amazzonica. Un destino tragico,
quello di passare alla storia come la generazione più povera seguita ai loro
genitori, quella con meno diritti e più precarietà, quella che si dovrà fare
carico di rimborsare l’enorme debito che ci accingiamo a negoziare per uscire
indenni dalla pandemia, la generazione che ha studiato più di qualunque altra
per ambire ad un lavoro di pizzaiolo, netturbino o rider, il fattorino
pedalante che mentre consegna cibo scadente a domicilio, inala quintali di
polveri sottili nelle città metropolitane, ciò che gli garantisce più
vulnerabilità agli effetti del Covid-19 rispetto ad un giovane, altrettanto
morto di fame, che vive in Africa. E mentre l’economia dei consumi si ferma a
causa dell’epidemia, per una strana congiunzione astrale, questi giovani lavorano
di meno e sono più esposti al rischio di contrarre la malattia. E parliamo dei
giovani che per natura dovrebbero essere i più avvantaggiati, perché dei vecchi
sembra non importare più a nessuno. Rottamati. E come rottami, in silenzio, la
malattia ne fa scarti da smaltire di notte, a umma a umma, con discrezione,
senza un cenno di commiato, esclusi da una forma qualsiasi di pietas, presto
dimenticati. Numeri che non fanno impressione a nessuno, 100, mille, diecimila,
centomila, numeri e non più storie. Sono lontani ormai i tempi in cui le storie
dei vecchi coltivavano la mente di noi ragazzi. Oggi i nonni non esistono più
nemmeno nelle fiabe per i più piccoli. Le loro fantasie sono permeate da
giganti tecnologici, macchine parlanti, niente più principi né principesse,
niente più Pinocchio, non c’è Coretti e nemmeno Precossi, i personaggi che
riuscivano a commuovere quelli come me nel mentre ci mettevano a contatto con
una realtà fatta di sacrifici, di emozioni, di fatica, ma anche di sentimenti
quali l’amicizia, l’amore, la condivisione.
E allora? Allora è chiaro che bisogna ricominciare. Da dove? Ricominciare
da noi stessi, con un’opera di demolizione, per rimodellare quell’Io gigantesco
che abbiamo fatto crescere dentro di noi e trovare nuovo spazio per tutto ciò
che è stato perso. Scopriremo così l’altro che non abbiamo più voluto vedere,
dagli affetti familiari, a partire dagli anziani, al tempo da dedicare ai
nostri figli. Ricominciare a guardare la nostra comunità predisponendoci
all’accoglienza e all’ascolto dei bisogni individuali e collettivi, ripensando
il nostro sviluppo rifuggendo dall’individualismo inconcludente degli ultimi
anni per avviare una fase di ricostituzione solidale delle categorie
produttive. Pensare globale e agire locale, può essere una parola d’ordine per
promuovere nuove opportunità per la
nostra economia, per il nostro territorio. La nostra è la storia di un popolo
che si è saputo organizzare. Intuito, tenacia, intelligenza, coraggio, sono
ingredienti fondamentali per affrontare un nuovo processo di cambiamento. Per
noi la resilienza è non piegarci agli effetti dell’emergenza, ma trarne
opportunità per ripartire. Abbiamo esperienza, coltiviamo saperi oltre a
cetrioli e pomodori, abbiamo risorse materiali, ci dobbiamo organizzare.
Partiamo dal Comune. Il Comune ha oggi l’opportunità storica di assumere su di
sé il compito di sostenere i propri cittadini
nelle varie articolazioni produttive, intellettive, sociali, entro la
nuova dimensione globale per competere empaticamente. Per il raggiungimento di
questo obiettivo la nuova istituzione dovrà necessariamente ristrutturarsi
secondo logiche organizzative adeguate alle nuove esigenze. Attardarsi nella
riorganizzazione degli uffici e dei servizi estende ulteriormente il gap che
divide le aree più depresse dalle aree
più sviluppate. Nell’era della conoscenza,
una nuova leva di impiegati, espressione delle nuove generazioni, dovrà
essere capace di progettare e realizzare servizi capaci di rispondere ai nuovi
bisogni del territorio. Molti uffici, ormai residui del vecchio Stato
ottocentesco, preposti più al controllo sociale che non alla promozione delle
libere attività umane, vanno soppressi o accorpati, per dare spazio ad uffici
in grado di promuovere più capacità organizzativa, nuove forme associative,
idee di sviluppo, cooperazione con altri territori, impulso alla conoscenza,
inclusione sociale, collaborazione intergenerazionale, nuova logistica, ricerca
scientifica e tecnologica, nuove attività produttive, formazione culturale e professionale.
L’Ente Locale deve diventare il centro
propulsore di tutte le attività umane del territorio ove il governo si
identifica con la partecipazione attiva dei cittadini. Il Comune dovrà fornire l’impulso per una nuova
riconversione produttiva. Terra, mare, cultura costituiscono le direttrici
verso le quali muovere un nuovo modo di fare economia. Nelle campagne occorre
portare più conoscenza, più tecnologia, più cooperazione, nel pieno rispetto
della tradizione e della salvaguardia ambientale . L’individualismo è stato
considerato il peggior difetto dei nostri contadini, ma non è vero. L’unità
produttiva familiare nel nostro comprensorio è stata capace di coniugare
solidarietà e spirito di sacrificio, dedizione al lavoro e voglia di crescere,
conservazione dei propri valori identificativi. Oggi questa realtà familiare va
tutelata e salvaguardata, ma va dotata di strumenti che l’aiutino ad essere
competitiva entro un contesto molto più vasto come quello globale, ciò
significa che va accorciata la filiera produttiva per ricondurre tutte le
attività entro i confini territoriali:
ricerca, produzione, trasformazione, marketing, logistica, nuove rotte
commerciali. Il prodotto deve potersi identificare con il territorio ed il
territorio deve garantire qualità, salubrità, benessere alimentare, giusto
valore per chi vende e per chi acquista. La nuova occupazione nasce e si
sviluppa entro questa visione della realtà che ci circonda. Il Comune dovrà diventare il centro propulsore
per la nuova riconversione produttiva che segue quella serricola, offrendo nuovi servizi, coordinando tutti gli attori
della filiera, contrattando con la Regione nuovi livelli di intervento
nell’ambito della programmazione regionale e comunitaria, rappresentando il
territorio ed interloquendo con soggetti istituzionali di altri territori
interni ed esterni all’Europa. L’agricoltura rimane l’asse portante
dell’economia, ma interagisce con attività industriali per la trasformazione
dei prodotti, promuove il commercio, sostiene la ricerca e la formazione
nell’ambito di una programmazione partecipata da tutte le forze produttive. Le
attività industriali, nell’ottica di uno sviluppo multicentrico, debbono trarre
dall’agricoltura la materia prima per le necessarie trasformazioni, la
produzione di licopene dal pomodoro e la coltivazione di altre varietà vegetali, ad esempio, possono segnare
l’inizio di un nuovo processo di sviluppo, stabilendo inediti rapporti tra
agricoltura ed industria di trasformazione.
Per raggiungere questi obiettivi non è sufficiente aspirare agli aiuti
comunitari, occorre reperire nuove risorse finanziarie nel mercato dei
capitali, ma per riuscirci è necessario che il territorio diventi attrattivo.
Un territorio attrattivo è un’area a criminalità zero, è un’area dove i servizi
funzionano, dove la pubblica
amministrazione è trasparente, dove i
cittadini sviluppano e difendono un alto grado di civiltà. Se i cittadini
pretendono il lavoro, allora devono curare il decoro delle loro città, devono
combattere il crimine denunciando ed isolando i criminali, devono mandare i
figli a scuola, non devono mai smettere di acculturarsi e di migliorare la
propria professionalità, devono partecipare alla vita politica della propria
comunità, devono contribuire con le proprie azioni al benessere collettivo. E'
questa la nuova sfida. Il Comune dovrà favorire la crescita civile dei
propri rappresentati pretendendo dai più abbienti il giusto tributo ed aiutando
i più deboli a recuperare i propri ritardi materiali e culturali, nello stesso
tempo esercita con rigore l’applicazione delle norme. Un territorio attrattivo,
anche per un ipotesi di sviluppo turistico, necessita di servizi che
funzionano, dall’igiene e pulizia urbana ai trasporti, dall’accoglienza agli
eventi culturali, dagli spazi ricreativi alla valorizzazione delle risorse
naturali ed ambientali. Nell’ epoca attuale nel Comune i processi risultano invertiti: il Comune non
è il luogo dove una classe dirigente esercita il proprio potere sui cittadini,
bensì il luogo dove i cittadini utilizzano gli strumenti della partecipazione
per raggiungere i propri obiettivi di crescita materiale e culturale servendosi
di una classe dirigente esperta, dotata di competenze culturali e
professionali, capace di agire in maniera efficace ed efficiente. Non solo, il
Comune non considera la partecipazione ed il confronto una perdita di tempo. Tutto questo è
resilienza, lo sanno bene i vittoriesi che nei secoli hanno fatto
dell'innovazione una loro peculiare prerogativa.