La rapidità con cui accadono gli
avvenimenti oggi nel mondo ci ha fatto precipitare in un’epoca dove è difficile
metabolizzare i cambiamenti; così, nel
volgere di un decennio, tutte le certezze sulle quali avevamo costruito le
nostre aspettative sono crollate, lasciando in ciascuno di noi un senso di
smarrimento misto a paura e angoscia per il futuro che ci attende. L’avanzare
impetuoso dell’Era Digitale ha risucchiato come in un grande trituratore il
pensiero filosofico che ha supportato, per oltre un secolo, l’affermarsi
dell’Era Industriale unitamente a tutti gli strumenti nati per consolidare il
nuovo assetto produttivo-economico-politico. Così, improvvisamente, Capitalismo
e Comunismo, come modalità di esercizio del potere, televisione e giornali, come modi di trasmissione della cultura,
le stesse modalità di accesso al lavoro, ci appaiono come categorie non più
sufficienti a spiegare come e perché siamo nel mondo. Purtuttavia l’Era
Industriale lascia all’umanità conquiste
molto importanti che consolidano il suo lungo percorso di affrancamento dalla
originaria condizione animale per procedere verso un destino che, seppure
ancora ignoto, non può non essere pensato come un progressivo avanzamento verso
nuovi e più esaltanti traguardi. Nella seconda metà del Settecento, quando alle
colture estensive si sostituirono le colture intensive sostenute dalla nascente
meccanizzazione, nessuno avrebbe immaginato che da lì a poco sarebbe scomparsa
la nobiltà, che milioni di uomini e donne si sarebbero trasferiti dalle
campagne alle città, che gli artigiani si sarebbero trasformati in operai, che
le leggi sarebbero state fatte dai parlamenti, che sarebbero sorte le scuole
pubbliche e il Welfare State.
Ci troviamo nel pieno della crisi del mondo occidentale. Nel 2008, per la prima volta, il costo del petrolio è schizzato a 148 dollari al barile. E’ stato il segnale che ha fatto percepire che l’energia fondata sull’estrazione di materiali fossili aveva oltrepassato la curva di massima criticità, cioè da quel momento le Nazioni hanno dovuto fare i conti con l’esaurimento sulla Terra di carbone, gas e petrolio, ciò che ha reso il costo dell’energia sempre più alto, facendo salire vertiginosamente i costi di produzione e i prezzi al consumo. I primi a capirlo sono stati gli investitori, i quali hanno sottratto quote di finanziamento sempre più cospicue alle attività produttive(perché ormai considerate scarsamente remunerative del capitale investito), orientandosi piuttosto verso i capitali finanziari, stimolando l’accesso di grandi masse al credito al consumo, perlopiù orientato all’acquisto della prima casa e di beni tecnologici di più larga presa sui consumatori (come telefonini-computer-televisori) e lucrando, così, sui tassi d’interesse, sicuramente più remunerativi dei titoli di Stato o degli investimenti produttivi. Certo, non è dato sapere, fino a che punto gli investitori non sono stati capaci di prevedere che la smobilitazione finanziaria sulle attività produttive, soprattutto, nelle aree economiche più a rischio (Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna, Italia) avrebbe creato un aumento della disoccupazione e una restrizione della disponibilità finanziaria delle famiglie, costrette oggi a non potere onorare il pagamento del proprio debito alle banche. La crisi bancaria, così, ha fatto esplodere tutte le contraddizioni del mondo capitalistico e, come nel ’29, appare in tutta evidenza che il mercato, così come è stato teorizzato finora, non riesce ad autoregolamentarsi e che può sostenersi solo ed esclusivamente attraverso l’intervento dello Stato, facendo pagare al popolo, attraverso l’imposizione di enormi sacrifici, le proprie interne contraddizioni. Cosa si ricava da queste premesse. Intanto la consapevolezza che ci troviamo nel mezzo di un cambiamento epocale; che, come è già successo, l’uomo si trova a che fare i conti con la limitatezza delle risorse naturali; che tale situazione lo spinge a nuove migrazioni, non solo geografiche, ma anche verso nuove mete culturali e sociali; che le nuove invenzioni spingono da un lato a sperimentare nuove forme produttive, dall’altro ad introdurre un nuovo sistema di relazioni umane, relazioni che Jeremy Rifkin definisce di tipo empatico in contrapposizione al tipo egocentrico individualista di derivazione illuminista. Occorre, allora, promuovere un nuovo sistema economico, decentrato e sorretto da una grande base popolare, non più centrato sulla figura del Padrone ma sulla partecipazione attiva dei produttori, sul modello delle società no-profit, un sistema a rete capace istantaneamente di collegare gli interessi di milioni di uomini solidali, empatici, che oltre a scambiarsi emozioni e pensieri si scambiano beni e servizi. E fra i beni e servizi ci potrà essere anche lo scambio di energia prodotta sotto casa, sfruttando sole e geotermia, vento e marosi; la fine, cioè delle Sette Sorelle, protagoniste, nel secolo dei lumi, di sfruttamento, guerre, genocidi, perpetrati in nome del petrolio e del benessere dell’occidente. Uno sviluppo, quindi, orizzontale, che lentamente porrà fine agli stati nazionali mettendo al centro l’uomo, non più come individuo ma come genere umano unito dalla necessità di salvarsi dalla fine incombente della vita sulla terra. Ci si rende conto, allora, che in un sistema dove l’energia potrà essere distribuita, come del resto le attività produttive, la centralità assunta dal lavoro nella precedente rivoluzione industriale, subirà delle trasformazioni: meno lavoro salariato, più lavoro autonomo,meno produzione di beni, più servizi, meno welfare state, più welfare community, meno stato, più società e solidarietà; entro questa nuova prospettiva i giovani dovranno sperimentare il loro percorso di vita. Mi sovviene in questa circostanza il pensiero di Chiara Lubich, allorchè sottolineava come nel secolo delle rivoluzioni industriali i principi sanciti dalla Rivoluzione Francese non si erano del tutto compiuti, perché mentre è del tutto evidente che i principi di uguaglianza e di libertà sono stati ampiamente sperimentati, il principio della fraternità non è stato completamente realizzato; così, nella nuova era empatica, come viene definita da Rifkin, è probabile che trovi compiutezza lo spirito che animò, all’inizio, la Rivoluzione Francese. Occorre, dunque, contrastare con ogni mezzo il clima di sfiducia che corre non solo lungo la rete, e che s’incunea dentro le famiglie, pervade i discorsi degli esagitati politici, che hanno occupato lo spazio degli imbonitori di altri tempi, che chiude l’ansia delle aspettative giovanili dentro angusti e desolanti spazi di rassegnata solitudine. Ma per uscire da quello che ormai sembra un vicolo cieco, occorre riscoprire la voglia di lottare e di rendersi protagonisti, senza per ciò rinunciare al bene prezioso che ormai abbiamo catalogato fra quelli irrinunciabili che la Storia ci ha lasciato in eredità: la democrazia. E’, dunque, dentro la prospettiva democratica che occorre lottare, con i partiti che devono trovare la voglia di scommettersi attraverso la loro autoriforma, per rendere possibile il grande bisogno di partecipazione avvertito dai cittadini, ma anche per adattarsi ai tempi, ai processi di globalizzazione secondo la logica del “pensare globale ed agire locale”, che sembra la massima più idonea a rappresentare il nostro tempo. Mi piace ricordare, perché positivo e ricco di tanta speranza, questo bellissimo messaggio di Dario Fo e Franca Rame : “La globalizzazione è bellissima… un’idea meravigliosa sta prendendo piede nel mondo: basta con la guerra, basta con le barriere tra gli stati, un’unica legge valida in tutto il pianeta e interessi talmente intrecciati da rendere impossibile nel futuro lo scoppiare di una guerra. La globalizzazione è una rivoluzione straordinaria, resa possibile da internet…basta con i dazi e le dogane…”.
Ci troviamo nel pieno della crisi del mondo occidentale. Nel 2008, per la prima volta, il costo del petrolio è schizzato a 148 dollari al barile. E’ stato il segnale che ha fatto percepire che l’energia fondata sull’estrazione di materiali fossili aveva oltrepassato la curva di massima criticità, cioè da quel momento le Nazioni hanno dovuto fare i conti con l’esaurimento sulla Terra di carbone, gas e petrolio, ciò che ha reso il costo dell’energia sempre più alto, facendo salire vertiginosamente i costi di produzione e i prezzi al consumo. I primi a capirlo sono stati gli investitori, i quali hanno sottratto quote di finanziamento sempre più cospicue alle attività produttive(perché ormai considerate scarsamente remunerative del capitale investito), orientandosi piuttosto verso i capitali finanziari, stimolando l’accesso di grandi masse al credito al consumo, perlopiù orientato all’acquisto della prima casa e di beni tecnologici di più larga presa sui consumatori (come telefonini-computer-televisori) e lucrando, così, sui tassi d’interesse, sicuramente più remunerativi dei titoli di Stato o degli investimenti produttivi. Certo, non è dato sapere, fino a che punto gli investitori non sono stati capaci di prevedere che la smobilitazione finanziaria sulle attività produttive, soprattutto, nelle aree economiche più a rischio (Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna, Italia) avrebbe creato un aumento della disoccupazione e una restrizione della disponibilità finanziaria delle famiglie, costrette oggi a non potere onorare il pagamento del proprio debito alle banche. La crisi bancaria, così, ha fatto esplodere tutte le contraddizioni del mondo capitalistico e, come nel ’29, appare in tutta evidenza che il mercato, così come è stato teorizzato finora, non riesce ad autoregolamentarsi e che può sostenersi solo ed esclusivamente attraverso l’intervento dello Stato, facendo pagare al popolo, attraverso l’imposizione di enormi sacrifici, le proprie interne contraddizioni. Cosa si ricava da queste premesse. Intanto la consapevolezza che ci troviamo nel mezzo di un cambiamento epocale; che, come è già successo, l’uomo si trova a che fare i conti con la limitatezza delle risorse naturali; che tale situazione lo spinge a nuove migrazioni, non solo geografiche, ma anche verso nuove mete culturali e sociali; che le nuove invenzioni spingono da un lato a sperimentare nuove forme produttive, dall’altro ad introdurre un nuovo sistema di relazioni umane, relazioni che Jeremy Rifkin definisce di tipo empatico in contrapposizione al tipo egocentrico individualista di derivazione illuminista. Occorre, allora, promuovere un nuovo sistema economico, decentrato e sorretto da una grande base popolare, non più centrato sulla figura del Padrone ma sulla partecipazione attiva dei produttori, sul modello delle società no-profit, un sistema a rete capace istantaneamente di collegare gli interessi di milioni di uomini solidali, empatici, che oltre a scambiarsi emozioni e pensieri si scambiano beni e servizi. E fra i beni e servizi ci potrà essere anche lo scambio di energia prodotta sotto casa, sfruttando sole e geotermia, vento e marosi; la fine, cioè delle Sette Sorelle, protagoniste, nel secolo dei lumi, di sfruttamento, guerre, genocidi, perpetrati in nome del petrolio e del benessere dell’occidente. Uno sviluppo, quindi, orizzontale, che lentamente porrà fine agli stati nazionali mettendo al centro l’uomo, non più come individuo ma come genere umano unito dalla necessità di salvarsi dalla fine incombente della vita sulla terra. Ci si rende conto, allora, che in un sistema dove l’energia potrà essere distribuita, come del resto le attività produttive, la centralità assunta dal lavoro nella precedente rivoluzione industriale, subirà delle trasformazioni: meno lavoro salariato, più lavoro autonomo,meno produzione di beni, più servizi, meno welfare state, più welfare community, meno stato, più società e solidarietà; entro questa nuova prospettiva i giovani dovranno sperimentare il loro percorso di vita. Mi sovviene in questa circostanza il pensiero di Chiara Lubich, allorchè sottolineava come nel secolo delle rivoluzioni industriali i principi sanciti dalla Rivoluzione Francese non si erano del tutto compiuti, perché mentre è del tutto evidente che i principi di uguaglianza e di libertà sono stati ampiamente sperimentati, il principio della fraternità non è stato completamente realizzato; così, nella nuova era empatica, come viene definita da Rifkin, è probabile che trovi compiutezza lo spirito che animò, all’inizio, la Rivoluzione Francese. Occorre, dunque, contrastare con ogni mezzo il clima di sfiducia che corre non solo lungo la rete, e che s’incunea dentro le famiglie, pervade i discorsi degli esagitati politici, che hanno occupato lo spazio degli imbonitori di altri tempi, che chiude l’ansia delle aspettative giovanili dentro angusti e desolanti spazi di rassegnata solitudine. Ma per uscire da quello che ormai sembra un vicolo cieco, occorre riscoprire la voglia di lottare e di rendersi protagonisti, senza per ciò rinunciare al bene prezioso che ormai abbiamo catalogato fra quelli irrinunciabili che la Storia ci ha lasciato in eredità: la democrazia. E’, dunque, dentro la prospettiva democratica che occorre lottare, con i partiti che devono trovare la voglia di scommettersi attraverso la loro autoriforma, per rendere possibile il grande bisogno di partecipazione avvertito dai cittadini, ma anche per adattarsi ai tempi, ai processi di globalizzazione secondo la logica del “pensare globale ed agire locale”, che sembra la massima più idonea a rappresentare il nostro tempo. Mi piace ricordare, perché positivo e ricco di tanta speranza, questo bellissimo messaggio di Dario Fo e Franca Rame : “La globalizzazione è bellissima… un’idea meravigliosa sta prendendo piede nel mondo: basta con la guerra, basta con le barriere tra gli stati, un’unica legge valida in tutto il pianeta e interessi talmente intrecciati da rendere impossibile nel futuro lo scoppiare di una guerra. La globalizzazione è una rivoluzione straordinaria, resa possibile da internet…basta con i dazi e le dogane…”.