Noi, i ragazzi del ' 68.
E’ arrivato l’autunno, ma non perché cadono le foglie, perché scendono
in piazza gli studenti. E’ un autunno diverso questo, con tutti i climi caldi,
sul fronte della scuola, della politica, del lavoro, del tempo. La FLC della
CGIL prova a coniugare le rivendicazioni
dei lavoratori con quelle degli studenti chiamandoli a partecipare alla
giornata di mobilitazione del 12 ottobre, per denunciare quel disagio che
colpisce, ormai, fasce molto estese della società italiana. Questa coniugazione
di obiettivi, questo provare a lottare, questa denuncia condivisa di operai e
studenti mi riporta alla memoria il primo autunno caldo, quello del 1969. Fu
quello il periodo che seguiva la straordinaria stagione del ’68, un’epoca
magica che investì tutto il mondo e che anticipò, con tutta la sua carica
innovativa, gli avvenimenti più salienti del secolo scorso, dalla guerra in
Vietnam fino alla caduta del muro di Berlino e all’implosione del sistema
comunista. Ma anche in quella occasione, come oggi, i problemi del nostro Paese
erano diversi rispetto al resto del mondo. Negli Stati Uniti d’America il ’68 si
contrassegnò per l’avversione dei giovani alla guerra in Vietnam, mentre nelle
università si avvertiva forte il bisogno di confrontarsi sui problemi dei
diritti civili, così le istanze pacifiste si mescolavano con la forte insofferenza
verso la guerra in una società in cui la popolazione di colore si raccoglieva e
lottava attratta dal pensiero di Martin Luther King, il quale non si stancava di
ripetere: "Riteniamo queste
verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati
uguali". L’America liberale, così, per la prima volta, si trovava ad affrontare
la soluzione di un nodo cruciale e cioè se in una società libera e democratica
potessero sussistere le gravi discriminazioni razziali e le pratiche
segregazioniste che intellettuali e giovani studenti denunciavano apertamente,
non più soltanto nelle scuole, ma in tutte le piazze d’America. In Italia,
invece, i problemi che masse di giovani denunciavano per primi nelle scuole e
nelle piazze di tutti i paesi, dal nord al sud, riguardavano non solo la
condizione di una scuola pensata e vissuta ancora secondo i canoni di una
legislazione e una prassi organizzativa risalente al ventennio fascista, ma
soprattutto il profilo autoritario e dirigista che ancora caratterizzava i
luoghi della connivenza civile, dalla famiglia alla scuola, dalle fabbriche alle
campagne, perfino le articolazioni dello Stato. Fino ad allora si era pensato
che, con la fine della seconda guerra mondiale, nel mondo si fosse aperta una
pagina nuova nella storia dell’umanità, che i principi conquistati nel corso
della rivoluzione francese, libertà uguaglianza fraternità, potessero
finalmente essere accolti e praticati in tutti i paesi civili, che i milioni di
caduti fossero il prezzo da pagare per dare, finalmente, all’umanità un futuro
di pace e di libertà. Il periodo immediatamente successivo alla guerra fu in
Italia, in effetti, un momento di grande risveglio civile e culturale, capace
di segnare grandi conquiste popolari, come, per esempio, il suffragio
universale, la Costituzione che, ancora oggi, rimane uno degli strumenti
giuridici più efficaci e straordinari del mondo. Ma la guerra fredda, con tutti
i suoi angoscianti postulati di paura e di morte, finì per spegnere quegli
entusiasmi, e la società italiana ripiombò nell’immobilismo, così quel primo
tentativo riformatore, avviato subito dopo la guerra, che avrebbe dovuto
portare l’Italia ad allinearsi con gli altri paesi occidentali, cedette il
passo ad un lungo periodo di stagnazione raffreddando il processo di
cambiamento dello Stato, che pur dotato di una Costituzione avanzata sotto il profilo civile
e sociale, rimaneva, nelle sue forme organizzative, pressappoco ai livelli
dello Statuto Albertino con qualche ritocco operato dal governo fascista che certamente
non si era ispirato a principi di giustizia e di eguaglianza. Il movimento
degli studenti del ’68 fu, così, l’alba di un generale risveglio della società
italiana, all’inizio perfino poco compreso da gran parte della sinistra storica
italiana. Fu una voglia di liberarsi da riti e metodi che avevano caratterizzato una società
chiusa e bigotta, dove una minoranza della popolazione, quella ricca e ben
accreditata, poteva porre fine al matrimonio e perfino abortire, frequentare le
scuole private, prepararsi a diventare classe dirigente apprendendo saperi e
pratiche estranee alla scuola pubblica che, prevalentemente, era rimasta
ancora, dopo sessant’anni, la scuola di Giovanni Gentile, una scuola ancora
fascista nei principi e nella prassi.
Almeno, così appariva a me stesso, costretto a subire ogni mattina il sequestro
del giornale quotidiano dove scrivevo da corrispondente, perché non era
previsto il giornale in classe dai “programmi ministeriali”. Ecco il bisogno di
essere alternativi e dissacranti, non violenti ma rivoluzionari, comunque
portatori di istanze che andavano ben aldilà della mancanza di bidelli o di
aule sovraffollate e prive di riscaldamento.
Un movimento, perciò, diverso dagli altri che nello stesso periodo si
sviluppavano in Francia e Germania o negli Stati Uniti d’America, proprio perché
in Italia toccavano aspetti essenziali della società e dello Stato, una condizione
che ben si confaceva alla critica di Herbert Marcuse, all’epoca molto letto
dagli studenti, secondo il quale le società industriali, ivi ricomprendendo
anche quelle socialiste, erano inevitabilmente portatrici di una morale sostanzialmente
repressiva, includendo nel proprio pensiero pessimista ciò che Adorno e
Horkheimer avevano sostenuto circa il rapporto tra sviluppo tecnologico ed emancipazione delle
masse. Marcuse, per tornare ai giorni nostri, con la sua opera, che io ritengo
fra i più importanti prodotti culturali del secolo scorso, “L’ uomo a una
dimensione”, anticipava di molto ciò che oggi è di tutta evidenza riguardo al
carattere fortemente repressivo della società industriale avanzata, una società
capace soltanto di ridurre l’uomo alla semplice ed unica dimensione di
consumatore, un uomo felice e stupido nello stesso tempo, che considera libertà
quella di potere consumare tra prodotti diversi. E’ questa una condizione che
il ventennio berlusconiano in Italia ha
reso molto più drammatica del resto del mondo, perché rafforzata negativamente
dalla povertà culturale, dal malcostume e dall’incapacità delle classi
dirigenti, cosa che oggi rende più difficile l’affermazione di un processo
civile ed economico in sintonia con i Paesi più avanzati. Spetta ai giovani,
ancora una volta, interpretare il mondo per cambiare in senso progressivo lo
stato delle cose esistente, perché hanno la forza delle idee, la voglia del
cambiamento, il diritto di essere protagonisti. La CGIL, promuovendo questa
giornata, che è anche di incontro tra giovani e lavoratori, non ripete l’errore
di quegli anni, quando gli studenti furono visti con tanto sospetto,
recuperando, invece, tutta la potenzialità di quell’autunno “caldo” del 1969, allorché
operai e studenti si incontrarono per la prima volta in una battaglia comune di
cambiamento. Sono convinto di ciò perché osservo, parlando con molti giovani,
che loro sono portatori, oltre che dei bisogni propri della scuola, anche dei
problemi vissuti drammaticamente nell’ambito familiare, problemi di disagio
economico, di mancanza di prospettive, di solitudine. Io, per motivi di salute,
non potrò essere presente alla manifestazione degli studenti di domani, ma lo
sarò col cuore e con la mente e auguro alle
ragazze e ai ragazzi e a tutti gli operatori della scuola che parteciperanno,
di essere antesignani di un nuovo grande periodo di riscatto morale e civile
che, muovendo dalla scuola e dai suoi bisogni, sappia cogliere l’esigenza di
riappropriarsi dei diritti prima conquistati ed oggi negati e, soprattutto, del
proprio futuro.

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