giovedì 11 ottobre 2012

Noi, i ragazzi del ' 68.


E’ arrivato l’autunno, ma non perché cadono le foglie, perché scendono in piazza gli studenti. E’ un autunno diverso questo, con tutti i climi caldi, sul fronte della scuola, della politica, del lavoro, del tempo. La FLC della CGIL  prova a coniugare le rivendicazioni dei lavoratori con quelle degli studenti chiamandoli a partecipare alla giornata di mobilitazione del 12 ottobre, per denunciare quel disagio che colpisce, ormai, fasce molto estese della società italiana. Questa coniugazione di obiettivi, questo provare a lottare, questa denuncia condivisa di operai e studenti mi riporta alla memoria il primo autunno caldo, quello del 1969. Fu quello il periodo che seguiva la straordinaria stagione del ’68, un’epoca magica che investì tutto il mondo e che anticipò, con tutta la sua carica innovativa, gli avvenimenti più salienti del secolo scorso, dalla guerra in Vietnam fino alla caduta del muro di Berlino e all’implosione del sistema comunista. Ma anche in quella occasione, come oggi, i problemi del nostro Paese erano diversi rispetto al resto del mondo. Negli Stati Uniti d’America il ’68 si contrassegnò per l’avversione dei giovani alla guerra in Vietnam, mentre nelle università si avvertiva forte il bisogno di confrontarsi sui problemi dei diritti civili, così le istanze pacifiste si mescolavano con la forte insofferenza verso la guerra in una società in cui la popolazione di colore si raccoglieva e lottava attratta dal pensiero di Martin Luther King, il quale non si stancava di ripetere: "Riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali". L’America liberale, così, per la prima volta, si trovava ad affrontare la soluzione di un nodo cruciale e cioè se in una società libera e democratica potessero sussistere le gravi discriminazioni razziali e le pratiche segregazioniste che intellettuali e giovani studenti denunciavano apertamente, non più soltanto nelle scuole, ma in tutte le piazze d’America. In Italia, invece, i problemi che masse di giovani denunciavano per primi nelle scuole e nelle piazze di tutti i paesi, dal nord al sud, riguardavano non solo la condizione di una scuola pensata e vissuta ancora secondo i canoni di una legislazione e una prassi organizzativa risalente al ventennio fascista, ma soprattutto il profilo autoritario e dirigista che ancora caratterizzava i luoghi della connivenza civile, dalla famiglia alla scuola, dalle fabbriche alle campagne, perfino le articolazioni dello Stato. Fino ad allora si era pensato che, con la fine della seconda guerra mondiale, nel mondo si fosse aperta una pagina nuova nella storia dell’umanità, che i principi conquistati nel corso della rivoluzione francese, libertà uguaglianza fraternità, potessero finalmente essere accolti e praticati in tutti i paesi civili, che i milioni di caduti fossero il prezzo da pagare per dare, finalmente, all’umanità un futuro di pace e di libertà. Il periodo immediatamente successivo alla guerra fu in Italia, in effetti, un momento di grande risveglio civile e culturale, capace di segnare grandi conquiste popolari, come, per esempio, il suffragio universale, la Costituzione che, ancora oggi, rimane uno degli strumenti giuridici più efficaci e straordinari del mondo. Ma la guerra fredda, con tutti i suoi angoscianti postulati di paura e di morte, finì per spegnere quegli entusiasmi, e la società italiana ripiombò nell’immobilismo, così quel primo tentativo riformatore, avviato subito dopo la guerra, che avrebbe dovuto portare l’Italia ad allinearsi con gli altri paesi occidentali, cedette il passo ad un lungo periodo di stagnazione raffreddando il processo di cambiamento dello Stato, che pur dotato di una  Costituzione avanzata sotto il profilo civile e sociale, rimaneva, nelle sue forme organizzative, pressappoco ai livelli dello Statuto Albertino con qualche ritocco operato dal governo fascista che certamente non si era ispirato a principi di giustizia e di eguaglianza. Il movimento degli studenti del ’68 fu, così, l’alba di un generale risveglio della società italiana, all’inizio perfino poco compreso da gran parte della sinistra storica italiana. Fu una voglia di liberarsi da riti e  metodi che avevano caratterizzato una società chiusa e bigotta, dove una minoranza della popolazione, quella ricca e ben accreditata, poteva porre fine al matrimonio e perfino abortire, frequentare le scuole private, prepararsi a diventare classe dirigente apprendendo saperi e pratiche estranee alla scuola pubblica che, prevalentemente, era rimasta ancora, dopo sessant’anni, la scuola di Giovanni Gentile, una scuola ancora fascista nei principi  e nella prassi. Almeno, così appariva a me stesso, costretto a subire ogni mattina il sequestro del giornale quotidiano dove scrivevo da corrispondente, perché non era previsto il giornale in classe dai “programmi ministeriali”. Ecco il bisogno di essere alternativi e dissacranti, non violenti ma rivoluzionari, comunque portatori di istanze che andavano ben aldilà della mancanza di bidelli o di aule sovraffollate e prive di  riscaldamento. Un movimento, perciò, diverso dagli altri che nello stesso periodo si sviluppavano in Francia e Germania o negli Stati Uniti d’America, proprio perché in Italia toccavano aspetti essenziali della società e dello Stato, una condizione che ben si confaceva alla critica di Herbert Marcuse, all’epoca molto letto dagli studenti, secondo il quale le società industriali, ivi ricomprendendo anche quelle socialiste, erano inevitabilmente portatrici di una morale sostanzialmente repressiva, includendo nel proprio pensiero pessimista ciò che Adorno e Horkheimer avevano sostenuto circa il rapporto tra  sviluppo tecnologico ed emancipazione delle masse. Marcuse, per tornare ai giorni nostri, con la sua opera, che io ritengo fra i più importanti prodotti culturali del secolo scorso, “L’ uomo a una dimensione”, anticipava di molto ciò che oggi è di tutta evidenza riguardo al carattere fortemente repressivo della società industriale avanzata, una società capace soltanto di ridurre l’uomo alla semplice ed unica dimensione di consumatore, un uomo felice e stupido nello stesso tempo, che considera libertà quella di potere consumare tra prodotti diversi. E’ questa una condizione che il ventennio berlusconiano in Italia  ha reso molto più drammatica del resto del mondo, perché rafforzata negativamente dalla povertà culturale, dal malcostume e dall’incapacità delle classi dirigenti, cosa che oggi rende più difficile l’affermazione di un processo civile ed economico in sintonia con i Paesi più avanzati. Spetta ai giovani, ancora una volta, interpretare il mondo per cambiare in senso progressivo lo stato delle cose esistente, perché hanno la forza delle idee, la voglia del cambiamento, il diritto di essere protagonisti. La CGIL, promuovendo questa giornata, che è anche di incontro tra giovani e lavoratori, non ripete l’errore di quegli anni, quando gli studenti furono visti con tanto sospetto, recuperando, invece, tutta la potenzialità di quell’autunno “caldo” del 1969, allorché operai e studenti si incontrarono per la prima volta in una battaglia comune di cambiamento. Sono convinto di ciò perché osservo, parlando con molti giovani, che loro sono portatori, oltre che dei bisogni propri della scuola, anche dei problemi vissuti drammaticamente nell’ambito familiare, problemi di disagio economico, di mancanza di prospettive, di solitudine. Io, per motivi di salute, non potrò essere presente alla manifestazione degli studenti di domani, ma lo sarò col cuore e con la mente e auguro  alle ragazze e ai ragazzi e a tutti gli operatori della scuola che parteciperanno, di essere antesignani di un nuovo grande periodo di riscatto morale e civile che, muovendo dalla scuola e dai suoi bisogni, sappia cogliere l’esigenza di riappropriarsi dei diritti prima conquistati ed oggi negati e, soprattutto, del proprio futuro.



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