C’è da chiedersi se vale la pena di
finire in coma per difendere il diritto di affissione di un manifesto elettorale. Nel caso di un
ragazzo che trae l’opportunità di guadagnare qualcosa, in tempi davvero grami per chi
ancora un lavoro non ce l'ha, può essere anche comprensibile, ma per
tutti gli altri non lo è. Non lo è per coloro che militanti di un partito
dovrebbero essere rispettosi delle più elementari regole di civiltà, non lo è
per i candidati i quali, ancora non approdati in parlamento, già fanno
esercizio di un discutibile metodo di affidamento della propria propaganda elettorale
ricorrendo ad elementi violenti e, a volte, anche poco raccomandabili sotto il
profilo della fedina penale. C’è da chiedersi, poi, se vale la pena continuare
a svolgere la campagna elettorale veicolando la propria immagine attraverso i
manifesti elettorali, surrogato anche degli spot televisivi che, per contenuti
e qualità, non sono dissimili dai primi. Tutti si affannano a scrivere di onestà
e legalità, ma di fatto sono i primi a violare la legge, disseminando le città
di quintali di cartaccia e di colla che spetta ai Comuni poi bonificare a spese
dei contribuenti. Carta spesso stracciata e buttata con noncuranza per le vie cittadine,
unitamente ad altri quintali di volantini e “santini” pieni di facce multicolori,
ora ammiccanti ora sorridenti, spesso ridondanti di sicula scipitanza. Onestamente occorre dire, ma solo in alcuni
casi, certi candidati, di persona, riescono a dare un’immagine anche migliore
di sé. Per il resto, sembrano tanti pupi siciliani, messi rigorosamente tutti in fila,
appittati di tutto punto, appaiono come tante facce artificiali, ora serie ora felici,
e ci vorrebbero i cantastorie per spiegare il significato dei loro messaggi.
Quasi sempre si tratta di una comunicazione “fai da te”, perché questi futuri
onorevoli hanno anche la fottuta presunzione di capire di comunicazione,
oppure si affidano a qualche pseudo giornalista di quelli che si aggirano in
cerca di fortuna in molti siti istituzionali, retribuiti, come è prassi, a carico del povero contribuente. Così c’è
quello che compiaciuto afferma tout court “sugnu sicilianu”, credendo di
concorrere alle elezioni della Lombardia dove, per l’appunto, nessuno ne conoscerebbe
la provenienza; e c’è quello che, già condannato per peculato, dice: “non parole,
ma fatti”, evidentemente riferendosi ai fatti criminosi per cui è stato processato;
c’è poi quello che fresco reduce dalla galera, comunica di essere umile, alla
faccia di chi ancora non crede nella capacità rieducativa della detenzione. Ci
sono, poi, quelli che si sono riscoperti rivoluzionari tout court, altri che fanno riferimento alla primavera araba e al
protagonismo spontaneo delle grandi masse popolari, la cui domanda di dignità è da intendersi come
rispetto dei diritti e dei bisogni delle persone. Purtroppo ai comizi di questi
novelli rivoluzionari mancano proprie le masse popolari e a stento si
intravedono gli amici e i parenti più
stretti. Per non parlare, infine, di coloro che sostengono che la rivoluzione
si può fare solo governando, e questo mi ha colpito molto, perché sovverte, e
qui c’è il fatto rivoluzionario, il principio stesso su cui poggia la vocazione
rivoluzionaria; infatti, se prima con rivoluzione si è inteso il radicale
cambiamento della forma di governo mediante l’azione del popolo, adesso è il
governo che si propone, mediante l’azione rivoluzionaria, di cambiare il
popolo. L’asserzione è di tale portata che solo un paragone regge al confronto,
allorché Galileo Galilei affermò nel suo manifesto elettorale “.. e pur si
muove!”, intendendo così che era la terra a girare intorno al sole e non
viceversa. A mio avviso, però, il manifesto elettorale che più mi ha affascinato
per l’impeto di sincerità e di onestà che ha saputo esprimere, e che resta una
pietra miliare nella storia della
comunicazione, è quello di Cetto La Qualunque quando afferma: “I have no dream,
ma mi piaci ‘u pilu”.

Nessun commento:
Posta un commento