martedì 9 ottobre 2012

Psicosociologia del manifesto elettorale

C’è da chiedersi se vale la pena di finire in coma per difendere il diritto di affissione di un manifesto elettorale. Nel caso di un ragazzo che trae l’opportunità di guadagnare qualcosa,  in tempi davvero grami per chi ancora un lavoro non ce l'ha, può essere anche comprensibile, ma per tutti gli altri non lo è. Non lo è per coloro che militanti di un partito dovrebbero essere rispettosi delle più elementari regole di civiltà, non lo è per i candidati i quali, ancora non approdati in parlamento, già fanno esercizio di un discutibile metodo di affidamento della propria propaganda elettorale ricorrendo ad elementi violenti e, a volte, anche poco raccomandabili sotto il profilo della fedina penale. C’è da chiedersi, poi, se vale la pena continuare a svolgere la campagna elettorale veicolando la propria immagine attraverso i manifesti elettorali, surrogato anche degli spot televisivi che, per contenuti e qualità, non sono dissimili dai primi. Tutti si affannano a scrivere di onestà e legalità, ma di fatto sono i primi a violare la legge, disseminando le città di quintali di cartaccia e di colla che spetta ai Comuni poi bonificare a spese dei contribuenti. Carta spesso stracciata e buttata con noncuranza per le vie cittadine, unitamente ad altri quintali di volantini e “santini” pieni di facce multicolori, ora ammiccanti ora sorridenti, spesso ridondanti di sicula scipitanza.  Onestamente occorre dire, ma solo in alcuni casi, certi candidati, di persona, riescono a dare un’immagine anche migliore di sé. Per il resto, sembrano tanti pupi siciliani, messi rigorosamente tutti in fila, appittati di tutto punto, appaiono come tante facce artificiali, ora serie ora felici, e ci vorrebbero i cantastorie per spiegare il significato dei loro messaggi. Quasi sempre si tratta di una comunicazione “fai da te”, perché questi futuri onorevoli hanno anche la fottuta presunzione di capire di comunicazione, oppure si affidano a qualche pseudo giornalista di quelli che si aggirano in cerca di fortuna in molti siti istituzionali, retribuiti, come è prassi,  a carico del povero contribuente. Così c’è quello che compiaciuto afferma tout court “sugnu sicilianu”, credendo di concorrere alle elezioni della Lombardia dove, per l’appunto, nessuno ne conoscerebbe la provenienza; e c’è quello che, già condannato per peculato, dice: “non parole, ma fatti”, evidentemente riferendosi ai fatti criminosi per cui è stato processato; c’è poi quello che fresco reduce dalla galera, comunica di essere umile, alla faccia di chi ancora non crede nella capacità rieducativa della detenzione. Ci sono, poi, quelli che si sono riscoperti rivoluzionari tout court, altri che  fanno riferimento alla primavera araba e al protagonismo spontaneo delle grandi masse popolari,  la cui domanda di dignità è da intendersi come rispetto dei diritti e dei bisogni delle persone. Purtroppo ai comizi di questi novelli rivoluzionari mancano proprie le masse popolari e a stento si intravedono  gli amici e i parenti più stretti. Per non parlare, infine, di coloro che sostengono che la rivoluzione si può fare solo governando, e questo mi ha colpito molto, perché sovverte, e qui c’è il fatto rivoluzionario, il principio stesso su cui poggia la vocazione rivoluzionaria; infatti, se prima con rivoluzione si è inteso il radicale cambiamento della forma di governo mediante l’azione del popolo, adesso è il governo che si propone, mediante l’azione rivoluzionaria, di cambiare il popolo. L’asserzione è di tale portata che solo un paragone regge al confronto, allorché Galileo Galilei affermò nel suo manifesto elettorale “.. e pur si muove!”, intendendo così che era la terra a girare intorno al sole e non viceversa. A mio avviso, però, il manifesto elettorale che più mi ha affascinato per l’impeto di sincerità e di onestà che ha saputo esprimere, e che resta una pietra miliare  nella storia della comunicazione, è quello di Cetto La Qualunque quando afferma: “I have no dream, ma mi piaci ‘u pilu”.

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