Scuola, l'okkupazione che vorrei
Se le nostre scuole fossero permanentemente
“occupate” dagli studenti forse si potrebbe scrivere un capitolo nuovo nella
storia della scuola italiana. Certo non mi riferisco alle “okkupazioni” di cui
si parla in questi giorni, cioè momenti di espressione della protesta e del
disagio che in questo momento vivono milioni di giovani, di genitori, di
famiglie. Penso, piuttosto, ad una scuola come ad uno spazio fisico da vivere
sempre, uno spazio senza tempo, senza campanelle, uno spazio da condividere con
tutti, con i propri compagni, con gli
insegnanti, i propri amici, la propria famiglia. Uno spazio da vivere come un’estensione
della sfera affettiva familiare proiettata verso la società, dove potere
sperimentare la dimensione della propria crescita senza i traumi del taglio netto
del cordone ombelicale che lega i giovani alla famiglia, alla scuola, alla società, al lavoro. La scuola,
cioè, come luogo di felicità e non come luogo di espiazione, di ansia, di
frustrazione o, come a volte accade, di isolamento e solitudine, come luogo
dove sperimentare percorsi di solidarietà e di condivisione, necessari in una
società pervasa dall’ideologia del merito e della competizione. La mia
personale storia scolastica credo che sia paragonabile a quella che ha
sperimentato la gran parte delle persone della mia età, ma io ho avuto la
fortuna di frequentare la scuola di “donna Pippinedda”, una sorta di scuola
materna “ante litteram” che una coppia senza figli decise di istituire a casa
propria, probabilmente per soddisfare l’istinto materno represso di una donna
straordinaria che non poteva avere figli. Quella di donna Pippinedda era una
scuola senza regole particolari, dove non si pagava alcuna retta, dove non c’erano
programmi ministeriali, c’era soltanto lo spirito creativo e l’amore, grande,
di Pippinedda per i bambini. In quella scuola non vigeva la regola che i
bambini dovessero restare separati dalle bambine, per cui tutti potevano
sperimentare il gioco in comune senza alcuna malizia o pregiudizio, non c’erano
orari da rispettare per cui le famiglie erano libere di riprendere i figli in
qualunque momento senza l’obbligo di rendere alcuna giustificazione, e ciascuno
poteva verificare autonomamente il livello di beneficio che traevano i bambini frequentando
quella scuola così insolita. Tra i giochi
che ricordo con immagini mentali vivide e per nulla offuscate dal tempo c’è
quello che consisteva nell’aiutare Pippinedda, da tutti chiamata zia Pippina, a
“fabbricare il pane”. Non era una cosa semplice, eppure Pippina riusciva a
coinvolgere tutti affidando a ciascuno un compito particolare, che cambiava
ogni qualvolta il gioco si ripeteva, per cui c’era chi aiutava a “scaniare” l’impasto
della farina con l’acqua, il lievito e il sale sulla “sbrivola”; chi con
pezzetti di pasta “scaniata” formava i “pupiddi”, chi, infine, porgeva il pane
lievitato per essere cotto nel forno, precedentemente riscaldato con piccoli
tronchi di legno e “magghiola”. Poi, quando finiva il lavoro “duro”, Pippina ci
riuniva in cerchio e, dopo una rapida distribuzione di piccole formelle di marmellata
di cotogne, cominciava a raccontare “i cunti”, un garbuglio di personaggi e di
fatti capace di risvegliare qualunque sentimento ed espressione, dalle risate a
squarciagola fino alle lacrime e ai
singhiozzi, fino a mezzogiorno quando Pippina ci lasciava liberi di giocare per preparare la minestra
per tutti. Mi ricordo che la mattina mi alzavo prestissimo, preso dall’ansia di
andare a “scuola”, ma prima passavo a prendere la mia compagnetta preferita,
Olga, che abitava dirimpetto la mia casa; la tenevo stretta per mano e mi
sentivo responsabile della sua incolumità. Ero felice di andare a “scuola” e le
giornate, anche quelle calde d’estate, correvano veloci; quella “scuola” era il
luogo non solo della nostra crescita, era soprattutto il luogo della relazione,
dell’empatia tra di noi e tra ciascuno di noi e la “maestra”, l’amore di
Pippina si respirava nell’aria. Quando arrivò il primo giorno della prima
elementare, in classe mi ritrovai con un altro bambino proveniente dalla “scuola”
di Pippinedda, fu una gioia indicibile, eravamo gli unici felici mentre tutti
piangevano e si attaccavano alle gonne delle madri; da quel giorno, per noi, la
scuola divenne un’altra storia. Da allora ho sognato la scuola come un luogo
aperto, dove potere interagire, sperimentare, collaborare con gli insegnanti, da vivere
sempre, da eleggere come luogo in cui sperimentare la libertà e la
responsabilità, dove coniugare impegno e svago, dove potere utilizzare tutti
gli strumenti secondo una logica di bisogni individuali entro una prospettiva
di crescita comune e solidale, dove potere liberamente tracciare i confini
delle proprie naturali vocazioni senza subire il pregiudizio e la fatale predeterminazione
del proprio futuro. Oggi gli strumenti che la tecnologia ci mette a
disposizione ci consentirebbero di costruire una scuola diversa, non che quella
di prima fosse necessariamente sbagliata, ma oggi occorre una scuola per i
tempi che viviamo, occorrono dei “luoghi” ove ai giovani sia data la
possibilità di sperimentare il proprio percorso di emancipazione dalla famiglia
per “migrare” verso una società che è in fase di cambiamento e dove non è
assicurata nessuna certezza circa la propria futura collocazione se non in
rapporto alle esperienze e ai vissuti che ciascuno potrà realizzare in questi
nuovi “luoghi della conoscenza”, aperti alla contaminazione con il territorio,
pronti a “incubare” pure necessità e bisogni espressi dalla società, dall’economia,
dall’ambiente. Gli insegnanti sono pronti, sono pure loro figli di quest’epoca
e ne sono interpreti, ma va ripensato fino in fondo il loro stato giuridico e
la loro centralità nel contesto di una società il cui processo di cambiamento, incentrandosi
sulla conoscenza, rende fondamentale la figura dell’insegnante per l’avvenire di
ogni paese. Giovani ed insegnanti, pertanto, entrano da protagonisti in
qualunque ipotesi di riforma, perché prima che di risorse economiche, ancora
prima di una qualunque “spending review”, occorre stabilire che tipo di società
vogliamo costruire, a quali bisogni occorre dare risposte, definire
le priorità, chi e come deve farsi carico dei processi di riorganizzazione
amministrativa e didattica, a quali valori si dovrà fare riferimento, soltanto dopo, e non prima, potrebbe essere necessario mettere
mano ai “cordoni della borsa”, e chissà che pure si potrebbe risparmiare qualcosa.
Anche io ho vissuto l'esperienza della scuola "privata" ma credo sia un'esperienza non trasportabile in una grande istituzione e,comunque penso sia necessario superare la concezione "ludica" della scuola ( e della vita)che troppo spesso abbiamo prospettato, e rivalutare il concetto di "dovere" soprattutto di dovere civico;alimentare nei nostri figli il concetto di rispetto della scuola che è una grande risorsa che la collettività mette a loro disposizione. I nostri figli si troveranno a competere con i ragazzi asiatici, forgiati dalla disciplina imposta dal bisogno, da cui faticosamente stanno uscendo. Il loro successo dipenderà essenzialmente dall'impegno profuso negli studi, anche con risorse economiche limitate (e questo credo sarà inevitabile per vari anni ancora).
RispondiEliminaIl gioco è un aspeto ineludibile della vita dell'uomo. E' attraverso il gioco che tutte le specie animali apprendono i saperi e le tecniche per la sopravvivenza. La mancanza del gioco, soprattutto nel corso dell'infanzia, procura agli individui significative carenze a livello psicologico e gravi turbe della personalità. Il problema dei "doveri" attiene, invece, alla costruzione della personalità attraverso il contributo sinergico delle varie agenzie educative. Nel corso degli ultimi anni, però, sono prevalse nella nostra società culture consumistiche che hanno notevolmente ridotto il senso morale e degli obblighi verso la comunità, rendendo "liquido" il senso dell'appartenenza come sostiene il filosofo e sociologo Zigmut Bauman.
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