domenica 16 dicembre 2012

Scuola, l'okkupazione che vorrei


Se le nostre scuole fossero permanentemente “occupate” dagli studenti forse si potrebbe scrivere un capitolo nuovo nella storia della scuola italiana. Certo non mi riferisco alle “okkupazioni” di cui si parla in questi giorni, cioè momenti di espressione della protesta e del disagio che in questo momento vivono milioni di giovani, di genitori, di famiglie. Penso, piuttosto, ad una scuola come ad uno spazio fisico da vivere sempre, uno spazio senza tempo, senza campanelle, uno spazio da condividere con tutti, con i  propri compagni, con gli insegnanti, i propri amici, la propria famiglia. Uno spazio da vivere come un’estensione della sfera affettiva familiare proiettata verso la società, dove potere sperimentare la dimensione della propria crescita senza i traumi del taglio netto del cordone ombelicale che lega i giovani alla famiglia, alla scuola, alla società, al lavoro. La scuola, cioè, come luogo di felicità e non come luogo di espiazione, di ansia, di frustrazione o, come a volte accade, di isolamento e solitudine, come luogo dove sperimentare percorsi di solidarietà e di condivisione, necessari in una società pervasa dall’ideologia del merito e della competizione. La mia personale storia scolastica credo che sia paragonabile a quella che ha sperimentato la gran parte delle persone della mia età, ma io ho avuto la fortuna di frequentare la scuola di “donna Pippinedda”, una sorta di scuola materna “ante litteram” che una coppia senza figli decise di istituire a casa propria, probabilmente per soddisfare l’istinto materno represso di una donna straordinaria che non poteva avere figli. Quella di donna Pippinedda era una scuola senza regole particolari, dove non si pagava alcuna retta, dove non c’erano programmi ministeriali, c’era soltanto lo spirito creativo e l’amore, grande, di Pippinedda per i bambini. In quella scuola non vigeva la regola che i bambini dovessero restare separati dalle bambine, per cui tutti potevano sperimentare il gioco in comune senza alcuna malizia o pregiudizio, non c’erano orari da rispettare per cui le famiglie erano libere di riprendere i figli in qualunque momento senza l’obbligo di rendere alcuna giustificazione, e ciascuno poteva verificare autonomamente il livello di beneficio che traevano i bambini frequentando quella scuola così insolita. Tra i  giochi che ricordo con immagini mentali vivide e per nulla offuscate dal tempo c’è quello che consisteva nell’aiutare Pippinedda, da tutti chiamata zia Pippina, a “fabbricare il pane”. Non era una cosa semplice, eppure Pippina riusciva a coinvolgere tutti affidando a ciascuno un compito particolare, che cambiava ogni qualvolta il gioco si ripeteva, per cui c’era chi aiutava a “scaniare” l’impasto della farina con l’acqua, il lievito e il sale sulla “sbrivola”; chi con pezzetti di pasta “scaniata” formava i “pupiddi”, chi, infine, porgeva il pane lievitato per essere cotto nel forno, precedentemente riscaldato con piccoli tronchi di legno e “magghiola”. Poi, quando finiva il lavoro “duro”, Pippina ci riuniva in cerchio e, dopo una rapida distribuzione di piccole formelle di marmellata di cotogne, cominciava a raccontare “i cunti”, un garbuglio di personaggi e di fatti capace di risvegliare qualunque sentimento ed espressione, dalle risate a  squarciagola fino alle lacrime e ai singhiozzi, fino a mezzogiorno quando Pippina ci lasciava  liberi di giocare per preparare la minestra per tutti. Mi ricordo che la mattina mi alzavo prestissimo, preso dall’ansia di andare a “scuola”, ma prima passavo a prendere la mia compagnetta preferita, Olga, che abitava dirimpetto la mia casa; la tenevo stretta per mano e mi sentivo responsabile della sua incolumità. Ero felice di andare a “scuola” e le giornate, anche quelle calde d’estate, correvano veloci; quella “scuola” era il luogo non solo della nostra crescita, era soprattutto il luogo della relazione, dell’empatia tra di noi e tra ciascuno di noi e la “maestra”, l’amore di Pippina si respirava nell’aria. Quando arrivò il primo giorno della prima elementare, in classe mi ritrovai con un altro bambino proveniente dalla “scuola” di Pippinedda, fu una gioia indicibile, eravamo gli unici felici mentre tutti piangevano e si attaccavano alle gonne delle madri; da quel giorno, per noi, la scuola divenne un’altra storia. Da allora ho sognato la scuola come un luogo aperto, dove potere interagire, sperimentare,  collaborare con gli insegnanti, da vivere sempre, da eleggere come luogo in cui sperimentare la libertà e la responsabilità, dove coniugare impegno e svago, dove potere utilizzare tutti gli strumenti secondo una logica di bisogni individuali entro una prospettiva di crescita comune e solidale, dove potere liberamente tracciare i confini delle proprie naturali vocazioni senza subire il pregiudizio e la fatale predeterminazione del proprio futuro. Oggi gli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione ci consentirebbero di costruire una scuola diversa, non che quella di prima fosse necessariamente sbagliata, ma oggi occorre una scuola per i tempi che viviamo, occorrono dei “luoghi” ove ai giovani sia data la possibilità di sperimentare il proprio percorso di emancipazione dalla famiglia per “migrare” verso una società che è in fase di cambiamento e dove non è assicurata nessuna certezza circa la propria futura collocazione se non in rapporto alle esperienze e ai vissuti che ciascuno potrà realizzare in questi nuovi “luoghi della conoscenza”, aperti alla contaminazione con il territorio, pronti a “incubare” pure necessità e bisogni espressi dalla società, dall’economia, dall’ambiente. Gli insegnanti sono pronti, sono pure loro figli di quest’epoca e ne sono interpreti, ma va ripensato fino in fondo il loro stato giuridico e la loro centralità nel contesto di una società il cui processo di cambiamento, incentrandosi sulla conoscenza, rende fondamentale la figura dell’insegnante per l’avvenire di ogni paese. Giovani ed insegnanti, pertanto, entrano da protagonisti in qualunque ipotesi di riforma, perché prima che di risorse economiche, ancora prima di una qualunque “spending review”, occorre stabilire che tipo di società vogliamo costruire, a quali bisogni occorre dare risposte, definire le priorità, chi e come deve farsi carico dei processi di riorganizzazione amministrativa e didattica, a quali valori si dovrà fare riferimento, soltanto dopo, e non prima, potrebbe essere necessario mettere mano ai “cordoni della borsa”, e chissà che pure si potrebbe risparmiare qualcosa.

2 commenti:

  1. Anche io ho vissuto l'esperienza della scuola "privata" ma credo sia un'esperienza non trasportabile in una grande istituzione e,comunque penso sia necessario superare la concezione "ludica" della scuola ( e della vita)che troppo spesso abbiamo prospettato, e rivalutare il concetto di "dovere" soprattutto di dovere civico;alimentare nei nostri figli il concetto di rispetto della scuola che è una grande risorsa che la collettività mette a loro disposizione. I nostri figli si troveranno a competere con i ragazzi asiatici, forgiati dalla disciplina imposta dal bisogno, da cui faticosamente stanno uscendo. Il loro successo dipenderà essenzialmente dall'impegno profuso negli studi, anche con risorse economiche limitate (e questo credo sarà inevitabile per vari anni ancora).

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    1. Il gioco è un aspeto ineludibile della vita dell'uomo. E' attraverso il gioco che tutte le specie animali apprendono i saperi e le tecniche per la sopravvivenza. La mancanza del gioco, soprattutto nel corso dell'infanzia, procura agli individui significative carenze a livello psicologico e gravi turbe della personalità. Il problema dei "doveri" attiene, invece, alla costruzione della personalità attraverso il contributo sinergico delle varie agenzie educative. Nel corso degli ultimi anni, però, sono prevalse nella nostra società culture consumistiche che hanno notevolmente ridotto il senso morale e degli obblighi verso la comunità, rendendo "liquido" il senso dell'appartenenza come sostiene il filosofo e sociologo Zigmut Bauman.

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