mercoledì 4 luglio 2012

La Fiera EMAIA ovvero la “fiera delle vanità”




E’ calato il sipario sul 30° MEDIEXPO, la rassegna fieristica che l’EMAIA dedica alla celebrazione del Santo Patrono di Vittoria San Giovanni Battista. Aldilà della retorica dei suoi amministratori, sempre felici e contenti anche quando le cose vanno malissimo, questa edizione credo che sia stato il peggio di quanto si sia visto negli ultimi trent’anni, un luogo dove si entra con un minimo di ottimismo e si esce semi-depressi. E’ vero che siamo in un  periodo di forte recessione economica, ma le fiere, da sempre, sono state uno stimolo per l’economia. Nel Medioevo venivano promosse, anche grazie a sgravi ed esenzioni di gabelle, per rendere le merci più allettanti e stimolare la partecipazione di compratori provenienti dai paesi vicini in modo da favorire il commercio locale. Con l’Esposizione Universale, l’Ottocento celebra l’avvento del Capitalismo mondiale ed offre agli Stati la possibilità di esibire in un unico spazio opportunamente organizzato ed attrezzato i prodotti capaci di stimolare i consumi e, quindi, l’economia. Nel corso degli anni, sono cresciute iniziative su scala minore ai vari livelli territoriali, sempre con lo scopo di promuovere la vendita dei prodotti locali suscitando l’interesse dei compratori.

A Vittoria, l’EMAIA (Esposizione Macchine Agricole Industria ed Artigianato) nacque sull’onda dello sviluppo della serricoltura che aveva stimolato il sorgere di una miriade di piccole attività industriali, grazie all’intuito di artigiani locali che intravedevano nello sviluppo agricolo una parallela espansione della richiesta di abitazioni e macchine da destinare all’agricoltura. Sorsero così piccole attività industriali con la formazione di un discreto nucleo operaio, testimoniato dalla CAMIS (settore infissi in alluminio), DOMUS SICILIA (Infissi in legno), TRINGALI (Metalmeccanica), BALLONI (Metalmeccanica), VINDIGNI (Metalmeccanica), SCIACCO (Metalmeccanica), DESARI (Meccanica di precisione), e tante altre che meriterebbero di essere pure citate almeno per testimoniare lo spirito di iniziativa e di inventiva dei nostri artigiani. Questo primo nucleo di piccoli imprenditori decise, attorno agli anni ’70, di mettersi in vetrina con lo scopo di attrarre compratori dai Comuni viciniori mediante l’offerta di una molteplicità di prodotti che spaziavano dalle macchine agricole ai prodotti per l’edilizia, attraversando una vasta gamma di beni utili a soddisfare i più disparati bisogni. La tradizionale Fiera di San Martino, che si è sempre celebrata l’11 di novembre, annoverava,  così,  una più moderna esposizione, l’EMAIA appunto, che, in un certo senso, stravolgeva il senso originario della Fiera. La tradizionale fiera di San Martino, che si svolgeva lungo la Via Rosario Cancellieri, il Calvario, e la Via dei Mille nell’area adiacente la Villa Comunale, aveva avuto, fino ad allora, il ruolo di “mercato speciale” per approvvigionare le famiglie soprattutto di beni strumentali per l’avvio della nuova annata agraria e di beni di consumo durevole per la casa; si acquistavano dalle zappe alle carriole, dalle pentole alle coperte di lana. Il mese di novembre era, soprattutto, il periodo in cui si effettuavano le transazioni per la vendita del vino novello, ed era un fiorire di attività con protagonisti sensali e piccoli proprietari o mezzadri, quindi il momento clou dell’anno quando le famiglie raccoglievano il frutto dei propri sacrifici e spendevano per soddisfare i propri bisogni fondamentali. L’EMAIA, all’inizio ospitata dentro la Villa Comunale,  invece, testimoniava la volontà degli artigiani locali di fare un passo più avanti, un’esposizione capace di proiettare i propri prodotti oltre il mercato locale, per richiamare commercianti ed operatori dei vari settori ed ampliare il giro delle commesse,  consolidare ed estendere il proprio apparato produttivo,  incrementare fatturato e manodopera.

Varie ragioni, nel tempo, hanno condotto alla crisi delle piccole “fabbriche” locali, ragioni che andrebbero, e lo saranno sicuramente, analizzate in un contesto più approfondito rispetto ad una semplice riflessione sulla Fiera. L’affievolirsi, comunque, della spinta industriale nel corso degli anni,  ha sicuramente trasformato il senso, il rigore, l’impianto organizzativo dell’EMAIA, cosicché, perdendo ogni relazione con il sistema produttivo, questo grande evento promozionale del territorio  si è trasformato in una  fiera delle vanità, campionaria di tutto e di niente, passerella di attori e comparse della politica locale in cerca di un’effimera quanto gratuita pubblicità.

L’EMAIA, così, non più vetrina dei prodotti locali, rimase un’opportunità per tanti commercianti, piccoli e grandi, provenienti da ogni dove, per vendere le proprie merci. Mi ricordo, un giorno di tanti anni fa, a conclusione di un’edizione novembrina, il direttore di una banca locale mi disse: “ E così oggi sono andati via cinque miliardi di lire!”. Come per dire, il territorio con questo tipo di fiera non guadagna nulla, anzi si indeboliscono le attività commerciali locali e va in fumo il risparmio. La fiera ha finito, ma già da tempo, di interpretare le aspettative dei produttori locali. Forse  la fiera in sé, come istituto di promozione ha fatto il suo tempo. E se non fosse per le forti ricadute in termini di investimenti pubblici, altre realtà più famose, ed è discussione di questi giorni, come la Fiera di Milano, andrebbero fortemente ripensate, anzi, reinventate, adattandone i contenuti e gli scopi ai nuovi scenari economici e politici internazionali. Occorre, allora,  un progetto e questo si costruisce muovendo dai bisogni del territorio e con le risorse di cui esso dispone, tenendo conto che il contesto di riferimento oggi è la società della conoscenza, naturale prosecuzione della società industriale, che a sua volta è stata la naturale prosecuzione della società agraria. La società della conoscenza si basa sostanzialmente sui prodotti culturali, sulla “fabbricazione di eventi”, per cui qualunque prodotto, si tratti pure del ciliegino, non si commercializza se non è legato appunto alla cultura, ad un evento. Oggi i bisogni urgenti della Città di Vittoria sono contenuti nella necessità di:

§  dare sbocco occupazionale alle migliaia di ragazzi e ragazze che hanno scommesso sullo studio per garantirsi un futuro migliore;

§  favorire la riconversione colturale coniugando i saperi appresi nella coltivazione protetta con le nuove tecnologie, per sviluppare nuovi prodotti per nuovi mercati in una prospettiva di sviluppo sostenibile;

§  sfruttare i beni culturali ed ambientali, la tradizione e la cultura locale per apprestare nuovi prodotti per il mercato turistico, stante che nei prossimi dieci anni si prevede l’arrivo in Europa di oltre cento milioni di nuovi turisti dai Paesi in via di sviluppo.

Entro queste direttrici la Fiera, adeguatamente ripensata, potrebbe promuovere le giuste sinergie tra gli  attori dello sviluppo locale interessati ad elaborare una nuova strategia di crescita economica. La Fiera, dunque, potrebbe diventare incubatore di impresa, laboratorio di ricerca, organismo di formazione, servizi logistici e consulenziali,  esposizione permanente.  Si potrebbe cominciare con il convocare gli Stati Generali della Fiera, ed anche cambiarne, perché no, la denominazione.

Quando, nel 1976, iniziai la trattativa con il Genio Militare della Regione Sicilia per l’acquisizione dell’area “ex campo di prigionia”, attuale sede dell’EMAIA, il comandante mi chiese: “ Come mai avete tanto interesse per quest’area? Gli risposi:”In quell’area c’è un pezzo di futuro della nostra Città”. Ed è ancora vero.

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