E’ calato il sipario sul 30° MEDIEXPO, la
rassegna fieristica che l’EMAIA dedica alla celebrazione del Santo Patrono di
Vittoria San Giovanni Battista. Aldilà della retorica dei suoi amministratori,
sempre felici e contenti anche quando le cose vanno malissimo, questa edizione
credo che sia stato il peggio di quanto si sia visto negli ultimi trent’anni, un
luogo dove si entra con un minimo di ottimismo e si esce semi-depressi. E’ vero
che siamo in un periodo di forte
recessione economica, ma le fiere, da sempre, sono state uno stimolo per l’economia.
Nel Medioevo venivano promosse, anche grazie a sgravi ed esenzioni di gabelle,
per rendere le merci più allettanti e stimolare la partecipazione di compratori
provenienti dai paesi vicini in modo da favorire il commercio locale. Con
l’Esposizione Universale, l’Ottocento celebra l’avvento del Capitalismo
mondiale ed offre agli Stati la possibilità di esibire in un unico spazio opportunamente
organizzato ed attrezzato i prodotti capaci di stimolare i consumi e, quindi,
l’economia. Nel corso degli anni, sono cresciute iniziative su scala minore ai
vari livelli territoriali, sempre con lo scopo di promuovere la vendita dei
prodotti locali suscitando l’interesse dei compratori.
A Vittoria, l’EMAIA (Esposizione Macchine
Agricole Industria ed Artigianato) nacque sull’onda dello sviluppo della
serricoltura che aveva stimolato il sorgere di una miriade di piccole attività
industriali, grazie all’intuito di artigiani locali che intravedevano nello
sviluppo agricolo una parallela espansione della richiesta di abitazioni e
macchine da destinare all’agricoltura. Sorsero così piccole attività
industriali con la formazione di un discreto nucleo operaio, testimoniato dalla
CAMIS (settore infissi in alluminio), DOMUS SICILIA (Infissi in legno), TRINGALI
(Metalmeccanica), BALLONI (Metalmeccanica), VINDIGNI (Metalmeccanica), SCIACCO
(Metalmeccanica), DESARI (Meccanica di precisione), e tante altre che meriterebbero
di essere pure citate almeno per testimoniare lo spirito di iniziativa e di
inventiva dei nostri artigiani. Questo primo nucleo di piccoli imprenditori
decise, attorno agli anni ’70, di mettersi in vetrina con lo scopo di attrarre
compratori dai Comuni viciniori mediante l’offerta di una molteplicità di
prodotti che spaziavano dalle macchine agricole ai prodotti per l’edilizia,
attraversando una vasta gamma di beni utili a soddisfare i più disparati
bisogni. La tradizionale Fiera di San Martino, che si è sempre celebrata l’11
di novembre, annoverava, così, una più moderna esposizione, l’EMAIA appunto,
che, in un certo senso, stravolgeva il senso originario della Fiera. La
tradizionale fiera di San Martino, che si svolgeva lungo la Via Rosario Cancellieri,
il Calvario, e la Via dei Mille nell’area adiacente la Villa Comunale, aveva
avuto, fino ad allora, il ruolo di “mercato speciale” per approvvigionare le
famiglie soprattutto di beni strumentali per l’avvio della nuova annata agraria
e di beni di consumo durevole per la casa; si acquistavano dalle zappe alle
carriole, dalle pentole alle coperte di lana. Il mese di novembre era,
soprattutto, il periodo in cui si effettuavano le transazioni per la vendita
del vino novello, ed era un fiorire di attività con protagonisti sensali e
piccoli proprietari o mezzadri, quindi il momento clou dell’anno quando le
famiglie raccoglievano il frutto dei propri sacrifici e spendevano per
soddisfare i propri bisogni fondamentali. L’EMAIA, all’inizio ospitata dentro
la Villa Comunale, invece, testimoniava
la volontà degli artigiani locali di fare un passo più avanti, un’esposizione
capace di proiettare i propri prodotti oltre il mercato locale, per richiamare
commercianti ed operatori dei vari settori ed ampliare il giro delle commesse, consolidare ed estendere il proprio apparato
produttivo, incrementare fatturato e
manodopera.
Varie ragioni, nel tempo, hanno condotto
alla crisi delle piccole “fabbriche” locali, ragioni che andrebbero, e lo
saranno sicuramente, analizzate in un contesto più approfondito rispetto ad una
semplice riflessione sulla Fiera. L’affievolirsi, comunque, della spinta
industriale nel corso degli anni, ha
sicuramente trasformato il senso, il rigore, l’impianto organizzativo
dell’EMAIA, cosicché, perdendo ogni relazione con il sistema produttivo, questo
grande evento promozionale del territorio
si è trasformato in una fiera
delle vanità, campionaria di tutto e di niente, passerella di attori e comparse
della politica locale in cerca di un’effimera quanto gratuita pubblicità.
L’EMAIA, così, non più vetrina dei
prodotti locali, rimase un’opportunità per tanti commercianti, piccoli e
grandi, provenienti da ogni dove, per vendere le proprie merci. Mi ricordo, un
giorno di tanti anni fa, a conclusione di un’edizione novembrina, il direttore
di una banca locale mi disse: “ E così oggi sono andati via cinque miliardi di
lire!”. Come per dire, il territorio con questo tipo di fiera non guadagna
nulla, anzi si indeboliscono le attività commerciali locali e va in fumo il
risparmio. La fiera ha finito, ma già da tempo, di interpretare le aspettative
dei produttori locali. Forse la fiera in
sé, come istituto di promozione ha fatto il suo tempo. E se non fosse per le
forti ricadute in termini di investimenti pubblici, altre realtà più famose, ed
è discussione di questi giorni, come la Fiera di Milano, andrebbero fortemente
ripensate, anzi, reinventate, adattandone i contenuti e gli scopi ai nuovi
scenari economici e politici internazionali. Occorre, allora, un progetto e questo si costruisce muovendo
dai bisogni del territorio e con le risorse di cui esso dispone, tenendo conto
che il contesto di riferimento oggi è la società della conoscenza, naturale
prosecuzione della società industriale, che a sua volta è stata la naturale
prosecuzione della società agraria. La società della conoscenza si basa
sostanzialmente sui prodotti culturali, sulla “fabbricazione di eventi”, per
cui qualunque prodotto, si tratti pure del ciliegino, non si commercializza se
non è legato appunto alla cultura, ad un evento. Oggi i bisogni urgenti della
Città di Vittoria sono contenuti nella necessità di:
§ dare sbocco occupazionale alle migliaia di
ragazzi e ragazze che hanno scommesso sullo studio per garantirsi un futuro
migliore;
§ favorire la riconversione colturale
coniugando i saperi appresi nella coltivazione protetta con le nuove
tecnologie, per sviluppare nuovi prodotti per nuovi mercati in una prospettiva
di sviluppo sostenibile;
§ sfruttare i beni culturali ed ambientali,
la tradizione e la cultura locale per apprestare nuovi prodotti per il mercato
turistico, stante che nei prossimi dieci anni si prevede l’arrivo in Europa di oltre
cento milioni di nuovi turisti dai Paesi in via di sviluppo.
Entro queste direttrici la Fiera, adeguatamente
ripensata, potrebbe promuovere le giuste sinergie tra gli attori dello sviluppo locale interessati ad
elaborare una nuova strategia di crescita economica. La Fiera, dunque, potrebbe diventare
incubatore di impresa, laboratorio di ricerca, organismo di formazione, servizi
logistici e consulenziali, esposizione permanente. Si potrebbe cominciare con il convocare gli
Stati Generali della Fiera, ed anche cambiarne, perché no, la denominazione.
Quando, nel 1976, iniziai la trattativa
con il Genio Militare della Regione Sicilia per l’acquisizione dell’area “ex
campo di prigionia”, attuale sede dell’EMAIA, il comandante mi chiese: “ Come
mai avete tanto interesse per quest’area? Gli risposi:”In quell’area c’è un
pezzo di futuro della nostra Città”. Ed è ancora vero.