PIF, uno strano caso di immedesimazione.
![]() |
pagine di riflessione politica e sociale
PIF, uno strano caso di immedesimazione.
![]() |
Ha destato grande cordoglio la morte del giovane studente diciottenne mentre sperimentava il lavoro nel corso di uno stage in un’azienda privata. Altrettanto cordoglio e commozione ha suscitato la morte di un giovane precipitato, non si sa come, in una grande vasca di raccolta dell’acqua per l’irrigazione nei pressi di Acate appena qualche giorno fa. Il susseguirsi di questi infortuni che ha raggiunto un numero da bollettino di guerra nel corso del 2021, ben 1404, pone la necessità di un intervento urgente del governo con misure di contrasto al fenomeno di carattere straordinario. I dati mettono in risalto il fatto che la maggior parte degli infortuni riguardano le piccole e medie imprese, mentre nella grande impresa il fenomeno è quasi irrisorio. Gli infortuni si verificano di più al Sud e meno al Nord. I settori dove si registrano più infortuni riguardano l’agricoltura con il 30,22% del totale, l’edilizia con il 15%, l’autotrasporto con il 10,75%. Di questi molti lavoratori hanno oltre 60 anni, ma ci sono anche moltissimi ventenni, gli anziani pagano la durezza delle condizioni di lavoro, i giovani soprattutto la loro inesperienza. Questo quadro della situazione ci racconta che la maggiore vulnerabilità del sistema della sicurezza si registra soprattutto nelle imprese medio piccole dove più carente è il sistema organizzativo e dove l'attività sconta l'improvvisazione di imprenditori scarsamente professionalizzati a fronte di una complessità produttiva che reclama conoscenze e capacità organizzative. Non bastano solo i capitali per fare impresa, occorre anche competenza ed un certo livello di specializzazione. Queste carenze si notano a ben vedere nel settore delle costruzioni dove 9 imprese su 10 di quelle controllate risultano non in regola, ma anche in agricoltura la situazione non è certo migliore. Non è un problema di norme sulla sicurezza , il Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro raccoglie tutte le direttive europee e costituisce una normativa d'avanguardia, il problema attiene quasi esclusivamente al modo come si esercita l'attivitá d'impresa in questo Paese e al sistema dei controlli. Sarebbe quanto mai opportuno operare una rivoluzione nel sistema assicurativo-previdenziale ponendo a carico della collettività gli oneri della sicurezza per le piccole e piccolissime imprese, accorpando alcuni grandi Istituti, l’INPS, l’INAIL e l’Ispettorato del Lavoro, per realizzare economie, aumentare l’efficienza sia nel momento di raccolta degli oneri finanziari, sia nel momento della prevenzione e del controllo potendo disporre di una maggiore quantità di personale disponibile, e anche per investire in formazione cominciando ad abituare tutti i cittadini, fin da bambini, a coltivare l’attenzione per la propria sicurezza. Un discorso a parte meriterebbe il modo in cui regolare l’attività d’impresa in questo Paese.
Alla ricerca del significato della parola Mafia
Si può raccontare la Mafia a scuola? Penso di si, penso che qualunque mezzo sia utile per diffondere conoscenza, e se un fenomeno, terribile, non si conosce nelle sue dinamiche più complesse, allora è più difficile contrastarlo. La Mafia è come un virus, nasce e si sviluppa in determinate condizioni e come i virus, per i quali non esistono farmaci in grado di debellarli, si insinua negli anfratti più nascosti del corpo sociale. Si sconfigge solo favorendo lo sviluppo di anticorpi capaci di immunizzare il sistema, la conoscenza è “l’antivirale” più efficace contro la Mafia e ci aiuta anche nell’autodiagnosi, si perché tutti noi siamo impregnati di quello “spirito di mafiosità” del quale rimaniamo contaminati nel nostro agire quotidiano. Pensiamo a quando neghiamo il diritto di precedenza nel guidare un’auto o, quando, furbescamente, evitiamo di fare la fila dal fornaio. Nel raccontare la Mafia mi sono lasciato ispirare da Leonardo Sciascia e da Gesualdo Bufalino. Sciascia nel suo libro “La Storia della Mafia” ha dato della Mafia la seguente definizione: “la mafia è un’associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà ed il lavoro, tra la produzione ed il consumo, tra il cittadino e lo Stato”. Questa di Sciascia non è una semplice definizione, ma un modello interpretativo con il quale è possibile, in maniera scientifica, riconoscere le mafie. Gesualdo Bufalino ha sostenuto che “la mafia sarà sconfitta da un esercito di maestre”, esprimendo in questo modo una verità incontrovertibile, perché le maestre trasmettono conoscenza in una fase costitutiva dell’Io di ciascuna persona e, quindi, sono per definizione “produttrici di anticorpi”. Iniziamo con questa iniziativa una sperimentazione, non il solito racconto storico, bensì un viaggio nella Storia della Sicilia per mettere in risalto gli aspetti meno conosciuti della Mafia, per scovare le sue implicazioni sociali, giuridiche ed economiche, perché sono convinto che più e meglio conosciamo questo dannato fenomeno criminale, più forte sarà la nostra capacità di difendere la nostra società, noi stessi, le nostre famiglie da questo cancro che costituisce un impedimento all’ordinato sviluppo dei nostri territori.
Così come hanno fatto molti autori che hanno scritto sulla mafia, la prima cosa che viene spontaneo chiedersi è: che significa la parola mafia? Il termine sembra avere diverse origini etimologiche, ma nessuna può essere assunta con certezza. Mafia può derivare dalla parola araba Ma Hias, che significa "spacconeria", ciò può trovare una relazione con l’atteggiamento arrogante che caratterizza gli appartenenti all’ organizzazione. Ma sempre dall’arabo può avere origine dalla parola mu'afak, che significa "protezione dei deboli. Oppure si può fare riferimento al toscano maffia che ha il significato di "miseria" oppure "ostentazione vistosa, spocchia". Questa origine araba del termine, però, non convince molto, stante che la dominazione araba in Sicilia terminò nel 1072 e perciò appare difficile pensare che il termine sia rimasto sotterraneo per otto secoli per apparire a metà dell’800
Altri autori la fanno derivare da un motto usato
durante la rivolta dei Vespri siciliani “Morte Ai Francesi Indipendenza Anela”
che ridotto in sigla da appunto la parola mafia. Si narra pure che durante la
dominazione angioina un soldato francese di nome Droetto pare abbia abusato di
una giovane ragazza e la madre, terrorizzata per quanto accaduto alla figlia,
sia corsa per strada invocando aiuto al grido di “Ma, ffia” “Ma, ffia” (mia
figlia, mia figlia), voce che corse ripetutamente lungo i quartieri e poi i
paesi fino a coinvolgere l’intera Sicilia, lasciando così nell’immaginario
collettivo la perpetrazione di una violenza, comunque di una prepotenza, nei
confronti di una persona debole ed indifesa. Ma questa sembra piuttosto una
versione romanzata più che il risultato di un’indagine filologica. Si racconta,
altresì, che nel 1897 lo storico William
Heckethorn abbia collegato la parola mafia ad un soggiorno di Mazzini in
Sicilia prima dell’Unità, il quale avrebbe lasciato un motto ai massoni siciliani
“Mazzini Autorizza Furti Incendi
Avvelenamenti” il cui acronimo sarebbe divenuto appunto la parola mafia.
Il termine mafia, comunque, secondo molti autori, era da tempo in uso in
Sicilia per significare “eleganza,
eccellenza, braveria”, ed anche in altre regioni italiane, come ad esempio in
Toscana, la parola maffia veniva usata per indicare uno stato di indigenza,
così come a Torino mafiu per indicare una persona rozza e ignorante, o il
milanese brüt mafee per dire di
una persona un ‘uomo brutto’. Lo stesso Gaetano Mosca, illustre politologo e storico delle dottrine
politiche, nel suo libretto “Che cos’è la mafia” risalente al 1900, risultato
di una conferenza che lo stesso ebbe a tenere in Milano che aveva per oggetto
l’assassinio Notarbartolo, ad un certo punto, per dare significato allo spirito
di mafiosità che costituisce il brodo di coltura che origina la mafia, fa
riferimento al Manzoni e al suo libro, vi ricordate “I promessi sposi”? Io ne avevo uno di 850 pagine che già era un
problema portarlo a scuola, una storia lunghissima che non finiva mai, e se non
ti trovavi un professore di italiano capace di fartelo amare, allora erano noie
mortali. A me è capitato un professore davvero bravo, ma non sempre è stato
così nei 147 anni in cui questo romanzo è stato obbligatorio nell’insegnamento.
Oggi ci si chiede se vale la pena ancora annoiare i ragazzi nelle scuole con la
lettura delle vicende di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella . Io credo che ne
valga ancora la pena e condivido il pensiero della docente Marisa Moles la
quale ritiene I promessi sposi il romanzo per antonomasia, perché racchiude
in sé ogni aspetto tipico della narratologia, perché imparando a conoscerlo, ad
analizzarlo e ad apprezzarlo ci si impossessa di una chiave di lettura universale, una specie di passepartout che permette poi di
affrontare la lettura di qualsiasi altra opera narrativa.
Ma al di fuori degli schemi scolastici tradizionali, il romanzo "I promessi sposi" è avvincente, con la sua galleria di personaggi e situazioni, con la
descrizione, a volte garbatamente ironica, di caratteri differenti e debolezze
umane che è possibile trovare, al di là della vicenda particolare, in
ogni tempo e luogo.
Seguendo le vicende di Renzo, Lucia e
tutti i personaggi che animano il capolavoro manzoniano, abbiamo la possibilità di “metterci nei loro
panni”, di prendere le parti di chi agisce nel modo a noi più congeniale,
di pensare a cosa avremmo fatto noi in una certa situazione. Forse sarà stato
questo il motivo per cui Gaetano Mosca, volendo esplicitare il suo concetto di
spirito di mafiosità ha voluto fare riferimento al Manzoni proprio nella parte in
cui descrive la figura di Renzo, caratterizzato, dice il Manzoni, ”da una certa
aria di braveria comune allora anche agli uomini più quieti” i quali nel non
volere sottostare alla soperchieria dei potenti, magari si lasciavano andare in
atteggiamenti boriosi. E chi erano i bravi che abbiamo conosciuto ne “I
promessi sposi se non dei mafiosi, dei prepotenti al soldo del potente di turno per affliggere
le persone per bene. Lo stesso Mosca, però, ritiene un’esagerazione il paragone
della Lombardia dell’epoca descritta dal Manzoni con la Sicilia post unitaria,
però alla fine conviene che quella braveria descritta dal Manzoni un po’ il
profumo dello spirito di mafia siciliana ce l’ha.
La parola mafia, sebbene risulta usata anche in alcuni rapporti di polizia ancora prima del compimento dell’Unità d’Italia, fa il suo ingresso ufficiale nella letteratura nel 1863 attraverso un’opera teatrale intitolata “I mafiusi de la Vicaria”, di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, dapprima rappresentata sotto forme di scene che venivano rappresentate nelle strade e nei quartieri popolari di Palermo, successivamente raccolte in una commedia composta di tre atti che venne rappresentata a Palermo con grande successo a partire dal 1875, dopodiché l'opera venne rappresentata con discreto successo in quasi tutte le maggiori città italiane. Nella sola Palermo furono oltre trecento le repliche, e tantissime rappresentazioni si svolsero in molte città d’Italia con grande partecipazione di pubblico, a Napoli alla rappresentazione partecipò, pensate, anche Umberto I, re d'Italia. Rizzotto non fu certamente l’inventore della parola mafia, termine già usato da tempo nei quartieri popolari di Palermo. Lo sostenne l'etnologo Giuseppe Pitrè, nato nel quartiere popolare di Santa Lucia a Palermo, nel suo libro “Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano” evidenziando che la parola mafia era stata sentita da lui fin dalla sua infanzia. Nello stesso libro il Pitrè rileva testualmente:
"La voce mafia all'epoca valeva bellezza, grandiosità, sicurtà d'animo ed in eccesso di questa, baldezza, ma non mai braveria in cattivo senso, non mai arroganza, non mai tracotanza. L'uomo di mafia o mafioso, intesi in questo senso ottocentesco, non dovrebbe metter paura a nessuno perché pochi quanto lui sono creanzati e rispettosi". Ma nella commedia i personaggi assumono contorni alquanto diversi. I personaggi si esprimono con semplicità, Gioacchino Funciazza, protagonista della narrazione, segue il modello suggerito agli autori dal camorrista Gioacchino D'Angelo il quale conosceva bene il carcere della Vicaria di Palermo per esserne stato ospite per qualche anno. Lui è il capo, ed in queste veste domina tutti i compagni di cella, dotato di un certo carisma impone le regole e si fa pagare il “pizzo”, una sorta di tassa per potere dormire su un letto accomodato alla meglio. Funciazza è il prototipo dell’uomo d’onore e si fa carico di difendere i più deboli dalle vessazioni dei potenti, e di buon grado offre la sua protezione; tiene a battesimo i nuovi adepti accogliendoli come fratelli principiandoli alle regole dell’associazione; riconosce le qualità degli affiliati più furbi e abili preparandoli a far carriera nella “cosca”. Il capo è il “mafioso”, come dire, come si usa da noi, è “u spertu”. In questa commedia la parola Mafia non compare mai, viene, però, usata spesso la parola “mafiusu”. I due autori non hanno idea dell’esistenza di un’organizzazione criminale e il mafioso viene piuttosto visto secondo canoni camorristici; l’autore Rizzotto rileva le caratteristiche comportamentali, il tipo di relazione sociale, il linguaggio, le attitudini, in modo particolare la teatralità tipica di certi atteggiamenti popolareschi inclini alla “guapperia”, senza quegli approfondimenti che potessero rilevare l’emergere di un nuovo ceto criminale. Ma se queste sono le premesse, la parola mafia allora quando assunse il significato che oggi abitualmente gli viene attribuito e quali sono le ragioni che hanno determinato tali cambiamenti. Per capirlo abbiamo bisogno di conoscere meglio la Sicilia pre-unitaria. E quale migliore testimone dell’epoca se non Johann Wolfgang von Goethe, uno dei più grandi letterati tedeschi. Goethe scrisse “Viaggio in Italia”, una sorta di diario nel quale non mancano considerazioni e giudizi, sul viaggio da lui compiuto in Italia, e segnatamente in Sicilia, nel 1787.L’espressione più conosciuta di Goethe sulla Sicilia, che più colpisce l’immaginazione delle persone, è questa: “L'Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto […] La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l'unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra… chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita“.E qui è il Goethe poeta che racconta, affascinato dai colori, dall’asprezza dei luoghi, dalla bellezza dei paesaggi. Ma c’è anche un Goethe cronista che non manca di osservare i costumi e i comportamenti della gente. Ed è in questo dialogo che lui riporta nei suoi appunti di viaggio che possiamo cogliere alcune peculiarità del carattere e del comportamento dei siciliani su cui, poi, ritorneremo più avanti. Ecco cosa racconta il grande scrittore tedesco: “Verso sera faccio la divertente conoscenza di un piccolo commerciante sulla strada lunga, dal quale ero entrato per fare alcuni piccoli acquisti. Mentre stavo guardando la merce davanti al negozio c’è stato un colpo di vento che, lungo la trada, ha distribuito polvere in egual misura tra banchi e finestre.“Per tutti i santi, ditemi”, esclamai, “da dove viene la sporcizia della vostra città? Non c'è rimedio? Questa strada concorre in lunghezza e bellezza con il Corso di Roma. Su ambedue i lati i proprietari di negozi e botteghe tengono puliti i marciapiedi spazzando continuamente e spingendo tutto in mezzo alla strada, dove lo sporco si accumula e da dove viene però mandato indietro a ogni brezza di vento. A Napoli i muli operosi trasportano la spazzatura nei giardini e sui campi; è mai possibile che qui da voi non si possa creare o decidere una simile procedura?” “Qui da noi è così com'è”, replicò l'uomo, “quel che buttiamo fuori di casa, va a male tutto insieme davanti alla porta. Vedete qui degli strati di paglia e di canne, resti della cucina e varia sporcizia; si secca tutto insieme e torna da noi come polvere. Tutto il giorno ce ne difendiamo. Ma come vedete, alla fine le nostre scopette carine non fanno che aumentare lo sporco davanti alle nostre case ”. E la cosa, presa dal lato comico, stava proprio così. Hanno delle scope carine fatte di palme nane che con una piccola modifica potrebbero servire come ventagli; si logorano facilmente, e quelle consumate giacciono a migliaia nella strada.Alla mia domanda ripetuta se non si potesse trovare un rimedio, ha risposto che tra la gente si dice che proprio i responsabili della pulizia non possono, per la grande influenza che hanno, essere costretti ad usare i fondi nel modo dovuto; inoltre, curiosamente si teme che, una volta rimossa tutta la paglia stallatica, uscirebbe fuori come il pavimento sotto sia stato fatto male, e verrebbe a galla l’amministrazione disonesta di un'altra cassa. Tutto ciò però, ha aggiunto con espressione scherzosa, è solo un'interpretazione di chi pensa male, lui invece la pensa come tutti quelli che dicono che la nobiltà conserva questo morbido substrato per le carrozze in modo che queste la sera possano farsi comodamente la loro gita di piacere su uno sfondo elastico. E, una volta partito, l'uomo ha preso in giro alcuni abusi della polizia, prova consolante secondo me che l'essere umano possiede sempre abbastanza senso dell'umorismo per scherzare anche sull'inevitabile”.Tra la visita di Goethe in Sicilia e la rappresentazione dei “Mafiusi de la Vicaria” passa poco più di mezzo secolo, un tempo lungo il quale sembra svilupparsi e consolidarsi lo spirito di mafia come inteso dallo scienziato della politica Gaetano Mosca, E’ già Goethe, l’illustre scrittore tedesco, a rilevare nel racconto del commerciante elementi della vita pubblica siciliana come la corruzione, la distrazione del denaro pubblico che impediva di fare a Palermo ciò che sembrava più naturale accadere a Napoli dove, con l’uso dei muli, si provvedeva giornalmente alla rimozione dei rifiuti dalle strade. E pure l’arroganza ed il malcostume dei nobili ai quali era permesso di viaggiare con le loro carrozze sulla paglia secca mista al letame in modo da non avvertire la durezza del rotolamento delle ruote sulla pietra, come se la sporcizia potesse fungere da ammortizzatore. Ed il commerciante, che tra il serio ed il faceto, confessa che forse il motivo vero consisteva nel fatto che effettuata la pulizia ci si sarebbe accorti che i lavori del manto stradale non erano stati eseguiti a perfetta regola d’arte, magari perché i soldi del Comune erano serviti ad altri scopi poco leciti, ed era il 1785. E la stessa narrazione della commedia “I mafiosi della Vicaria”, ci racconta che all’epoca accanto alla prepotenza dei nobili c’era un’altra prepotenza, quella dei mafiosi che maturata nell’ambiente popolare, non esitava a rivolgersi proprio verso gli ultimi già afflitti dalla disperazione, dalle privazioni, per cui alla fine i miserabili si ritrovavano a subire ogni sorta di angheria, prima da parte dei nobili, poi da parte della criminalità maturata e sviluppata proprio dentro il proprio ambiente. La prepotenza, dunque, come elemento caratterizzante di individui ostili ad ogni tipo di regola, pronti perfino ad uccidere, per ottenere ciò a cui ambiscono. Questo sentimento di prepotenza è presente nella letteratura di ogni epoca. Come non ricordare la favola di Fedro, il Lupo e l’agnello, presente negli studi di latino che iniziavano già in scuola media e che voglio ricordare a chi l’ha dimenticata e magari a chi non l’ha mai sentita, proprio per il suo contenuto morale e per l’esplicita rappresentazione del concetto di prepotenza.Presso lo stesso ruscello erano giunti un lupo e un agnello
|
|