domenica 16 luglio 2023

PIF, uno strano caso di immedesimazione.

Secondo me alla manifestazione culturale dell'altro giorno a Modica, PIF si é temporaneamente immedesimato nel personaggio del suo libro, Arturo, rimanendo intrappolato nell'app che l'amico Gianfranco sta ancora sperimentando. Secondo questa nuova app é possibile riconoscere le caratteristiche di una città inserendo alcuni dati sulle abitudini dei cittadini, sulle loro vocazioni, sui mestieri, sulle loro attitudini, ma a causa di un algoritmo sbagliato il programma scambia l'intelligenza con l'ignoranza fornendo risultati assolutamente inaffidabili costringendo, così, il suo ideatore a sorbirsi gli improperi dei cittadini malcapitati che da intelligenti passano per ignoranti. Povero Arturo, bisogna aspettare che Gianfranco modifichi l'app, solo allora PIF, ritornato se stesso, ci potrá spiegare come e perché i vittoriesi da intelligenti siano diventati ignoranti.

martedì 1 febbraio 2022

Morire di lavoro, non si deve.

Ha destato grande cordoglio la morte del giovane studente diciottenne mentre sperimentava il lavoro nel corso di uno stage in un’azienda privata. Altrettanto cordoglio e commozione ha suscitato la morte di un giovane precipitato, non si sa come, in una grande vasca di raccolta dell’acqua per l’irrigazione nei pressi di Acate appena qualche giorno fa. Il susseguirsi di questi infortuni che ha raggiunto un numero da bollettino di guerra nel corso del 2021, ben 1404, pone la necessità di un intervento urgente del governo con misure di contrasto al fenomeno di carattere straordinario. I dati mettono in risalto il fatto che la maggior parte degli infortuni riguardano le piccole e medie imprese, mentre nella grande impresa il fenomeno è quasi irrisorio. Gli infortuni si verificano di più al Sud e meno al Nord. I settori dove si registrano più infortuni riguardano l’agricoltura con il 30,22% del totale, l’edilizia con il 15%, l’autotrasporto con il 10,75%. Di questi molti lavoratori hanno oltre 60 anni, ma ci sono anche moltissimi ventenni, gli anziani pagano la durezza delle condizioni di lavoro, i giovani soprattutto la loro inesperienza. Questo quadro della situazione ci racconta che la maggiore vulnerabilità del sistema della sicurezza si registra soprattutto nelle imprese medio piccole dove più carente è il sistema organizzativo e dove l'attività sconta l'improvvisazione di imprenditori scarsamente professionalizzati a fronte di una complessità produttiva che reclama conoscenze e capacità organizzative. Non bastano solo i capitali per fare impresa, occorre anche competenza ed un certo livello di specializzazione. Queste carenze si notano a ben vedere nel settore delle costruzioni dove 9 imprese su 10 di quelle controllate risultano non in regola, ma anche in agricoltura la situazione non è certo migliore. Non è un problema di norme sulla sicurezza , il Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro raccoglie tutte le direttive europee e costituisce una normativa d'avanguardia, il problema attiene quasi esclusivamente al modo come si esercita l'attivitá d'impresa in questo Paese e al sistema dei controlli. Sarebbe quanto mai opportuno operare una rivoluzione nel sistema assicurativo-previdenziale ponendo a carico della collettività gli oneri della sicurezza per le piccole e piccolissime imprese, accorpando alcuni grandi Istituti, l’INPS, l’INAIL e l’Ispettorato del Lavoro, per realizzare economie, aumentare l’efficienza sia nel momento di raccolta degli oneri finanziari, sia nel momento della prevenzione e del controllo potendo disporre di una maggiore quantità di personale disponibile, e anche per investire in formazione cominciando ad abituare tutti i cittadini, fin da bambini, a coltivare l’attenzione per la propria sicurezza. Un discorso a parte meriterebbe il modo in cui regolare l’attività d’impresa in questo Paese.


 

lunedì 27 dicembre 2021

Senza auguri

 Piangono i bambini a Kabul,
si disperano i bambini a Kabul,
gridano i bambini a Kabul.
A Kabul le famiglie vendono i bambini
per fame, per disperazione.
A Kabul i bambini li squartano,
e vendono i loro cuori per sopravvivere.
Si tormentano le donne di Kabul,
si vergognano gli uomini di Kabul.
A Kabul il bambino Gesù invoca
il Padre piangendo: “Dio mio, Dio mio,
perché ci hai abbandonati?”

Una storia di braccianti

Fu sciopero a Vittoria un giorno
di gennaio di tanti anni fa.
Erano braccianti, erano tanti,
bramavano la terra, chiedevano
una casa. C’era freddo, splendeva
il sole. Mosse il popolo per la
Via dei Lumi. Sfilavano le donne
innalzando cartelli con scritte di
speranza. Poi si udì una tromba
e rotearono i manganelli,
fu gran tumulto e acre odore
si sparse nell’aria. Avanzò una
vecchia vestita di nero, m’avvolse
col suo scialle e disse a mio padre:
“lascialo e corri, vai dai compagni”.
A sera,nella sede affollata,
le donne in coro ricordarono
i nomi dei compagni carcerati.
Fu grave la sconfitta, non persero
la speranza. Con grande sacrificio
comprarono la terra, con sudore
e fatica alzarono le serre,
così conquistarono la libertà.
 
 
Il disegno è del maestro Arturo barbante

mercoledì 2 giugno 2021

                 I

Alla ricerca del significato  della parola Mafia

 

 

 Si può raccontare la Mafia a scuola? Penso di si, penso che qualunque mezzo sia utile per diffondere conoscenza, e se un fenomeno, terribile, non si conosce nelle sue dinamiche più complesse, allora è più difficile contrastarlo. La Mafia è come un virus, nasce e si sviluppa in determinate condizioni e come i virus, per i quali non esistono farmaci in grado di debellarli, si insinua negli anfratti più nascosti del corpo sociale. Si sconfigge solo favorendo lo sviluppo di anticorpi capaci di immunizzare il sistema, la conoscenza è “l’antivirale” più efficace contro la Mafia e ci aiuta anche nell’autodiagnosi, si perché tutti noi siamo impregnati di quello “spirito di mafiosità” del quale rimaniamo contaminati nel nostro agire quotidiano. Pensiamo a quando neghiamo il diritto di precedenza nel guidare un’auto o, quando, furbescamente, evitiamo di fare la fila dal fornaio. Nel raccontare la Mafia mi sono lasciato ispirare da Leonardo Sciascia e da Gesualdo Bufalino. Sciascia nel suo libro “La Storia della Mafia” ha dato della Mafia la seguente definizione: “la mafia è un’associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà ed il lavoro, tra la produzione ed il consumo, tra il cittadino e lo Stato”. Questa di Sciascia non è una semplice definizione, ma un modello interpretativo con il quale è possibile, in maniera scientifica, riconoscere le mafie. Gesualdo Bufalino ha sostenuto che “la mafia sarà sconfitta da un esercito di maestre”, esprimendo in questo modo una verità incontrovertibile, perché le maestre trasmettono conoscenza in una fase costitutiva dell’Io di ciascuna persona e, quindi, sono per definizione “produttrici di anticorpi”. Iniziamo con questa iniziativa una sperimentazione, non il solito racconto storico, bensì un viaggio nella Storia della Sicilia per mettere in risalto gli aspetti meno conosciuti della Mafia, per scovare le sue implicazioni sociali, giuridiche ed economiche, perché sono convinto che più e meglio conosciamo questo dannato fenomeno criminale, più forte sarà la nostra capacità di difendere la nostra società, noi stessi, le nostre famiglie da questo cancro che costituisce un impedimento all’ordinato sviluppo dei nostri territori.

Così come hanno fatto molti autori che hanno scritto sulla mafia, la prima cosa che viene spontaneo chiedersi è: che significa la parola mafia? Il termine sembra avere diverse origini etimologiche, ma nessuna può essere assunta con certezza. Mafia può derivare dalla parola araba Ma Hias, che significa "spacconeria", ciò può trovare una relazione con l’atteggiamento arrogante che caratterizza gli appartenenti all’ organizzazione. Ma sempre dall’arabo può avere origine dalla parola  mu'afak, che significa "protezione dei deboli. Oppure si può fare riferimento al toscano maffia che ha il significato di "miseria" oppure "ostentazione vistosa, spocchia". Questa origine araba del termine, però, non convince molto, stante che la dominazione araba in Sicilia terminò nel 1072 e perciò appare difficile pensare che il termine sia rimasto sotterraneo per otto secoli per apparire a metà dell’800

Altri autori la fanno derivare da un motto usato durante la rivolta dei Vespri siciliani  Morte Ai Francesi Indipendenza Anela” che ridotto in sigla da appunto la parola mafia. Si narra pure che durante la dominazione angioina un soldato francese di nome Droetto pare abbia abusato di una giovane ragazza e la madre, terrorizzata per quanto accaduto alla figlia, sia corsa per strada invocando aiuto al grido di “Ma, ffia” “Ma, ffia” (mia figlia, mia figlia), voce che corse ripetutamente lungo i quartieri e poi i paesi fino a coinvolgere l’intera Sicilia, lasciando così nell’immaginario collettivo la perpetrazione di una violenza, comunque di una prepotenza, nei confronti di una persona debole ed indifesa. Ma questa sembra piuttosto una versione romanzata più che il risultato di un’indagine filologica. Si racconta, altresì, che  nel 1897 lo storico William Heckethorn abbia collegato la parola mafia ad un soggiorno di Mazzini in Sicilia prima dell’Unità, il quale avrebbe lasciato un motto ai massoni siciliani “Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti” il cui acronimo sarebbe divenuto appunto la parola mafia. Il termine mafia, comunque, secondo molti autori, era da tempo in uso in Sicilia per significare  “eleganza, eccellenza, braveria”, ed anche in altre regioni italiane, come ad esempio in Toscana, la parola maffia veniva usata per indicare uno stato di indigenza, così come a Torino mafiu per indicare una persona rozza e ignorante, o il milanese brüt mafee per dire di una persona un ‘uomo brutto’. Lo stesso Gaetano Mosca, illustre politologo e storico delle dottrine politiche, nel suo libretto “Che cos’è la mafia” risalente al 1900, risultato di una conferenza che lo stesso ebbe a tenere in Milano che aveva per oggetto l’assassinio Notarbartolo, ad un certo punto, per dare significato allo spirito di mafiosità che costituisce il brodo di coltura che origina la mafia, fa riferimento al Manzoni e al suo libro, vi ricordate  “I promessi sposi”?  Io ne avevo uno di 850 pagine che già era un problema portarlo a scuola, una storia lunghissima che non finiva mai, e se non ti trovavi un professore di italiano capace di fartelo amare, allora erano noie mortali. A me è capitato un professore davvero bravo, ma non sempre è stato così nei 147 anni in cui questo romanzo è stato obbligatorio nell’insegnamento. Oggi ci si chiede se vale la pena ancora annoiare i ragazzi nelle scuole con la lettura delle vicende di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella . Io credo che ne valga ancora la pena e condivido il pensiero della docente Marisa Moles la quale ritiene I promessi sposi  il romanzo per antonomasia, perché racchiude in sé ogni aspetto tipico della narratologia, perché imparando a conoscerlo, ad analizzarlo e ad apprezzarlo ci si impossessa di una chiave di lettura universale, una specie di passepartout che permette poi di affrontare la lettura di qualsiasi altra opera narrativa.
Ma al di fuori degli schemi scolastici tradizionali, il romanzo "I promessi sposi" è  avvincente, con la sua galleria di personaggi e situazioni, con la descrizione, a volte garbatamente ironica, di caratteri differenti e debolezze umane che è possibile trovare, al di là della vicenda particolare, in ogni tempo e luogo.
 Seguendo le vicende di Renzo, Lucia e tutti i personaggi che animano il capolavoro manzoniano, abbiamo la possibilità di “metterci nei loro panni”, di prendere le parti di chi agisce nel modo a noi più congeniale, di pensare a cosa avremmo fatto noi in una certa situazione. Forse sarà stato questo il motivo per cui Gaetano Mosca, volendo esplicitare il suo concetto di spirito di mafiosità ha voluto fare riferimento al Manzoni proprio nella parte in cui descrive la figura di Renzo, caratterizzato, dice il Manzoni, ”da una certa aria di braveria comune allora anche agli uomini più quieti” i quali nel non volere sottostare alla soperchieria dei potenti, magari si lasciavano andare in atteggiamenti boriosi. E chi erano i bravi che abbiamo conosciuto ne “I promessi sposi se non dei mafiosi, dei prepotenti  al soldo del potente di turno per affliggere le persone per bene. Lo stesso Mosca, però, ritiene un’esagerazione il paragone della Lombardia dell’epoca descritta dal Manzoni con la Sicilia post unitaria, però alla fine conviene che quella braveria descritta dal Manzoni un po’ il profumo dello spirito di mafia siciliana ce l’ha.

La parola mafia, sebbene risulta usata anche in alcuni rapporti di polizia ancora prima del compimento dell’Unità d’Italia, fa il suo ingresso ufficiale nella letteratura nel 1863 attraverso un’opera teatrale intitolata “I mafiusi de la Vicaria”, di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, dapprima rappresentata sotto forme di scene che venivano rappresentate nelle strade e nei quartieri popolari di Palermo, successivamente raccolte in una commedia composta di tre atti che venne rappresentata a Palermo con grande successo a partire dal 1875, dopodiché  l'opera venne rappresentata con discreto successo in quasi tutte le maggiori città italiane. Nella sola Palermo furono oltre trecento le repliche, e tantissime rappresentazioni si svolsero in molte città d’Italia con grande partecipazione di pubblico, a Napoli alla rappresentazione partecipò, pensate,  anche Umberto I, re d'Italia. Rizzotto non fu certamente l’inventore della parola mafia, termine già usato da tempo nei quartieri popolari di Palermo. Lo sostenne l'etnologo Giuseppe Pitrè, nato nel quartiere popolare di Santa Lucia a Palermo, nel suo libro “Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano” evidenziando che la parola mafia era stata sentita da lui fin dalla sua infanzia. Nello stesso libro il Pitrè rileva testualmente:

"La voce mafia all'epoca valeva bellezza, grandiosità, sicurtà d'animo ed in eccesso di questa, baldezza, ma non mai braveria in cattivo senso, non mai arroganza, non mai tracotanza. L'uomo di mafia o mafioso, intesi in questo senso ottocentesco, non dovrebbe metter paura a nessuno perché pochi quanto lui sono creanzati e rispettosi".

Ma nella commedia i personaggi assumono contorni alquanto diversi. I personaggi si esprimono con semplicità, Gioacchino Funciazza, protagonista della narrazione, segue il modello suggerito agli autori dal camorrista Gioacchino D'Angelo il quale conosceva bene il carcere della Vicaria di Palermo per esserne stato ospite per qualche anno. Lui è il capo, ed in queste veste domina tutti i compagni di cella, dotato di un certo carisma impone le regole e si fa pagare il “pizzo”, una sorta di tassa per potere dormire su un letto accomodato alla meglio.

Funciazza è il prototipo dell’uomo d’onore e si fa carico di difendere i più deboli dalle vessazioni dei potenti, e di buon grado offre la sua protezione; tiene a battesimo i nuovi adepti accogliendoli come fratelli principiandoli alle regole dell’associazione; riconosce le qualità degli affiliati più furbi e abili preparandoli a far carriera nella “cosca”. Il capo  è il  mafioso”, come dire, come si usa da noi, è “u spertu”. In questa commedia la parola Mafia non compare mai, viene, però, usata spesso la parola “mafiusu”. I due autori non hanno idea dell’esistenza di un’organizzazione criminale e il mafioso viene piuttosto visto secondo canoni camorristici; l’autore Rizzotto rileva le caratteristiche comportamentali, il tipo di relazione sociale, il linguaggio, le attitudini, in modo particolare la teatralità tipica di certi atteggiamenti popolareschi inclini alla “guapperia”, senza quegli approfondimenti che potessero rilevare l’emergere di un nuovo ceto criminale.

Ma se queste sono le premesse, la parola mafia allora quando assunse il significato che oggi abitualmente gli viene attribuito e quali sono le ragioni che hanno determinato tali cambiamenti. Per capirlo abbiamo bisogno di conoscere meglio la Sicilia pre-unitaria. E quale migliore testimone dell’epoca se non Johann Wolfgang von Goethe, uno dei più grandi letterati tedeschi. Goethe scrisse “Viaggio in Italia”, una sorta di diario nel quale non mancano considerazioni e giudizi, sul viaggio da lui compiuto in Italia, e segnatamente in Sicilia, nel 1787.

L’espressione più conosciuta di Goethe sulla Sicilia, che più colpisce l’immaginazione delle persone, è questa:L'Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto […] La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l'unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra… chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita“.

E qui è il Goethe poeta che racconta, affascinato dai colori, dall’asprezza dei luoghi, dalla bellezza dei paesaggi. Ma c’è anche un Goethe cronista che non manca di osservare i costumi e i comportamenti della gente. Ed è in questo dialogo che lui riporta nei suoi appunti di viaggio che possiamo cogliere alcune peculiarità del carattere e del comportamento dei siciliani su cui, poi, ritorneremo più avanti. Ecco cosa racconta il grande scrittore tedesco: “Verso sera faccio la divertente conoscenza di un piccolo commerciante sulla strada lunga, dal quale ero entrato per fare alcuni piccoli acquisti. Mentre stavo guardando la merce davanti al negozio c’è stato un colpo di vento che, lungo la trada, ha distribuito polvere in egual misura tra banchi e finestre.“Per tutti i santi, ditemi”, esclamai, “da dove viene la sporcizia della vostra città? Non c'è rimedio? Questa strada concorre in lunghezza e bellezza con il Corso di Roma. Su ambedue i lati i proprietari di negozi e botteghe tengono puliti i marciapiedi spazzando continuamente e spingendo tutto in mezzo alla strada, dove lo sporco si accumula e da dove viene però mandato indietro a ogni brezza di vento. A Napoli i muli operosi trasportano la spazzatura nei giardini e sui campi; è mai possibile che qui da voi non si possa creare o decidere una simile procedura?” “Qui da noi è così com'è”, replicò l'uomo, “quel che buttiamo fuori di casa, va a male tutto insieme davanti alla porta. Vedete qui degli strati di paglia e di canne, resti della cucina e varia sporcizia; si secca tutto insieme e torna da noi come polvere. Tutto il giorno ce ne difendiamo. Ma come vedete, alla fine le nostre scopette carine non fanno che aumentare lo sporco davanti alle nostre case ”. E la cosa, presa dal lato comico, stava proprio così. Hanno delle scope carine fatte di palme nane che con una piccola modifica potrebbero servire come ventagli; si logorano facilmente, e quelle consumate giacciono a migliaia nella strada.

Alla mia domanda ripetuta se non si potesse trovare un rimedio, ha risposto che tra la gente si dice che proprio i responsabili della pulizia non possono, per la grande influenza che hanno, essere costretti ad usare i fondi nel modo dovuto; inoltre, curiosamente si teme che, una volta rimossa tutta la paglia stallatica, uscirebbe fuori come il pavimento sotto sia stato fatto male, e verrebbe a galla l’amministrazione disonesta di un'altra cassa. Tutto ciò però, ha aggiunto con espressione scherzosa, è solo un'interpretazione di chi pensa male, lui invece la pensa come tutti quelli che dicono che la nobiltà conserva questo morbido substrato per le carrozze in modo che queste la sera possano farsi comodamente la loro gita di piacere su uno sfondo elastico. E, una volta partito, l'uomo ha preso in giro alcuni abusi della polizia, prova consolante secondo me che l'essere umano possiede sempre abbastanza senso dell'umorismo per scherzare anche sull'inevitabile”.

Tra la visita di Goethe in Sicilia e la rappresentazione dei “Mafiusi de la Vicaria” passa poco più di mezzo secolo, un tempo lungo il quale sembra svilupparsi e consolidarsi lo spirito di mafia come inteso dallo scienziato della politica Gaetano Mosca, E’ già Goethe, l’illustre scrittore tedesco, a rilevare nel racconto del commerciante elementi della vita pubblica siciliana come la corruzione, la distrazione del denaro pubblico che impediva di fare a Palermo ciò che sembrava più naturale accadere a Napoli dove, con l’uso dei muli, si provvedeva giornalmente alla rimozione dei rifiuti dalle strade. E pure l’arroganza ed il malcostume dei nobili ai quali era permesso di viaggiare con le loro carrozze sulla paglia secca mista al letame in modo da non avvertire la durezza del rotolamento delle ruote sulla pietra, come se la sporcizia potesse  fungere da ammortizzatore. Ed il commerciante, che tra il serio ed il faceto, confessa che forse il motivo vero consisteva nel fatto che effettuata la pulizia ci si sarebbe accorti che i lavori del manto stradale non erano stati eseguiti a perfetta regola d’arte, magari perché i soldi del Comune erano serviti ad altri scopi poco leciti, ed era il 1785. E la stessa narrazione della commedia “I mafiosi della Vicaria”, ci racconta che all’epoca accanto alla prepotenza dei nobili c’era un’altra prepotenza, quella dei mafiosi che maturata  nell’ambiente popolare, non esitava a rivolgersi proprio verso gli ultimi già afflitti dalla disperazione, dalle privazioni,  per cui alla fine i miserabili si ritrovavano a subire ogni sorta di angheria, prima da parte dei nobili, poi da parte della criminalità maturata e sviluppata proprio dentro il proprio ambiente. La prepotenza, dunque, come elemento caratterizzante di individui ostili ad ogni tipo di regola, pronti perfino ad uccidere, per ottenere ciò a cui ambiscono. Questo sentimento di prepotenza è presente nella letteratura di ogni epoca. Come non ricordare la favola di Fedro, il Lupo e l’agnello, presente negli studi di latino che iniziavano già in scuola media e che voglio ricordare a chi l’ha dimenticata e magari  a chi non l’ha mai sentita, proprio per il suo contenuto morale e per l’esplicita rappresentazione del concetto di prepotenza.

Presso lo stesso ruscello erano giunti un lupo e un agnello
spinti dalla sete; di sopra stava il lupo
e di gran lunga più in basso l'agnello. Il birbante,allora,mosso dall'insaziabile gola,
cercò un pretesto di litigio.
"Perchè" disse " hai reso torbida
l'acqua a me che bevo?" Il lanuto di rimando, timoroso:
"Come posso , di grazia,far ciò io, lupo?
l'acqua scorre da te ai miei sorsi"
Infastidito dalla forza della verità, quello ribattè:
"Sei mesi fa hai detto male di me."
Rispose l'agnello:"Per la verità non ero nato."
"Tuo padre, per Ercole,-disse quello- ha parlato male di me"
E così, afferratolo, lo fa fuori con ingiusta uccisione.
 Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti con falsi pretesti.

Scriveva Gaetano Mosca: “ La mafia, o meglio lo spirito di mafia, è una maniera di sentire, che, come la superbia, come l’orgoglio, come la prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di rapporti sociali, e colla stessa parola viene indicata in Sicilia non uno speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che si propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai membri dell’associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente delittuosi. Era il luglio del 1901.

Dunque mafia come coacervo di sentimenti, di atteggiamenti, di comportamenti.

 (Continua)

 

Riferimenti bibliografici

Gaetano Mosca, Che cosa è la Mafia, Millelire Stampa Alternativa, Viterbo 1994

Leonardo Sciascia, La Storia della mafia, Barion, Palermo 2013

Henner Hess, Mafia, Laterza, Roma-Bari, 1973

Michele Pantaleone, Mafia e politica, alla ricerca di “Cosa Nostra”, Res Gestae, Milano 2013

Saverio Di Bella, Risorgimento e mafia in Sicilia: I mafiosi della vicaria di Palermo, Pellegrini Editore, Cosenza 1991

John Dickie, Cosa Nostra Storia della mafia siciliana, Laterza, 2008

Giovanni Falcone -  Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano 2018

Franco Di Maria Gioacchino Lavanco, A un passo dall’inferno sentire mafioso e obbedienza criminale, Giunti, Firenze 1995

Marcelle Padovani, Mafia, mafie, Gremese, Roma 2010

Marco Santoro, Riconoscere le mafie, Il Mulino, Bologna 2015

Michele Pantaleone, Mafia e droga, Einaudi, Torino 1966

Mario Siragusa, Baroni e briganti, classi dirigenti e mafia nella Sicilia del latifondo, Franco Angeli, Milano 2004

Rosario Minna, Breve storia della mafia, Editori Riuniti, Roma 1984

Umberto Santino, Dalla Mafia alle mafie, Rubbettino, 2006

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Mondadori, 1964

Santo Giardina, Tutte le favole di Fedro, Armenio 2014

Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia , Mondadori 2017

 G.Capraro A.M. Ferraro G. Lo Verso, Mafia e psicopatologia. Crimini, vittime e storie di straordinaria follia, Franco Angeli 2017

Salvatore Lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni, Donzelli 2016

Carmelo Sardo, Cani senza padrone, Melampo 2017

AA.VV., Storia della Sicilia, Società Editrice Storia di Napoli, del Mezzogiorno Continentale e della Sicilia 1981

 

 


 

domenica 14 giugno 2020

Pensare il futuro, una generazione alla prova.


Di tutto si parla in questi terribili giorni, di economia, di salute, soprattutto di soldi. Poca attenzione è riservata dai media ai giovani, agli anziani, alla società che cambia velocemente. Di questo mi voglio occupare con questa riflessione. Il mio pensiero è rivolto subito ai giovani, alla Generazione C, quella del Coronavirus, per intenderci, che segue i Millenials, la generazione perduta. Sono i giovani cresciuti nel corso della recessione economica più terribile dal dopoguerra ad oggi; entrano a far parte di un Paese con il debito pubblico più alto al Mondo e, quindi, sono già carichi di un fardello che nessuna generazione aveva dovuto sopportare prima di loro. Una generazione bloccata non solo dai debiti, ma senza nessuna realistica prospettiva di fare carriera, e non significa nulla essere un medico in una sanità depauperata da anni di scandali e privatizzazioni selvagge; essere un ingegnere in assenza di investimenti infrastrutturali; essere imprenditori senza un piano di sviluppo economico; essere un ricercatore senza finanziamenti alla ricerca. Oggi quando i giovani affrontano il problema del lavoro si devono confrontare con il reddito di cittadinanza, nella prospettiva di trovarsi in una condizione di assistenza permanente, poco sopra della soglia di sopravvivenza, perché il lavoro semplicemente non c’è ed è pure difficile inventarlo. Perché, come sostiene l’economista Jeremy Rifkin, la tecnologia taglia i posti di lavoro che non ricrescono più, come gli alberi della foresta amazzonica. Un destino tragico, quello di passare alla storia come la generazione più povera seguita ai loro genitori, quella con meno diritti e più precarietà, quella che si dovrà fare carico di rimborsare l’enorme debito che ci accingiamo a negoziare per uscire indenni dalla pandemia, la generazione che ha studiato più di qualunque altra per ambire ad un lavoro di pizzaiolo, netturbino o rider, il fattorino pedalante che mentre consegna cibo scadente a domicilio, inala quintali di polveri sottili nelle città metropolitane, ciò che gli garantisce più vulnerabilità agli effetti del Covid-19 rispetto ad un giovane, altrettanto morto di fame, che vive in Africa. E mentre l’economia dei consumi si ferma a causa dell’epidemia, per una strana congiunzione astrale, questi giovani lavorano di meno e sono più esposti al rischio di contrarre la malattia. E parliamo dei giovani che per natura dovrebbero essere i più avvantaggiati, perché dei vecchi sembra non importare più a nessuno. Rottamati. E come rottami, in silenzio, la malattia ne fa scarti da smaltire di notte, a umma a umma, con discrezione, senza un cenno di commiato, esclusi da una forma qualsiasi di pietas, presto dimenticati. Numeri che non fanno impressione a nessuno, 100, mille, diecimila, centomila, numeri e non più storie. Sono lontani ormai i tempi in cui le storie dei vecchi coltivavano la mente di noi ragazzi. Oggi i nonni non esistono più nemmeno nelle fiabe per i più piccoli. Le loro fantasie sono permeate da giganti tecnologici, macchine parlanti, niente più principi né principesse, niente più Pinocchio, non c’è Coretti e nemmeno Precossi, i personaggi che riuscivano a commuovere quelli come me nel mentre ci mettevano a contatto con una realtà fatta di sacrifici, di emozioni, di fatica, ma anche di sentimenti quali l’amicizia, l’amore, la condivisione.  E allora? Allora è chiaro che bisogna ricominciare. Da dove? Ricominciare da noi stessi, con un’opera di demolizione, per rimodellare quell’Io gigantesco che abbiamo fatto crescere dentro di noi e trovare nuovo spazio per tutto ciò che è stato perso. Scopriremo così l’altro che non abbiamo più voluto vedere, dagli affetti familiari, a partire dagli anziani, al tempo da dedicare ai nostri figli. Ricominciare a guardare la nostra comunità predisponendoci all’accoglienza e all’ascolto dei bisogni individuali e collettivi, ripensando il nostro sviluppo rifuggendo dall’individualismo inconcludente degli ultimi anni per avviare una fase di ricostituzione solidale delle categorie produttive. Pensare globale e agire locale, può essere una parola d’ordine per promuovere nuove  opportunità per la nostra economia, per il nostro territorio. La nostra è la storia di un popolo che si è saputo organizzare. Intuito, tenacia, intelligenza, coraggio, sono ingredienti fondamentali per affrontare un nuovo processo di cambiamento. Per noi la resilienza è non piegarci agli effetti dell’emergenza, ma trarne opportunità per ripartire. Abbiamo esperienza, coltiviamo saperi oltre a cetrioli e pomodori, abbiamo risorse materiali, ci dobbiamo organizzare. Partiamo dal Comune. Il Comune ha oggi l’opportunità storica di assumere su di sé il compito di sostenere i propri cittadini  nelle varie articolazioni produttive, intellettive, sociali, entro la nuova dimensione globale per competere empaticamente. Per il raggiungimento di questo obiettivo la nuova istituzione dovrà necessariamente ristrutturarsi secondo logiche organizzative adeguate alle nuove esigenze. Attardarsi nella riorganizzazione degli uffici e dei servizi estende ulteriormente il gap che divide  le aree più depresse dalle aree più sviluppate. Nell’era della conoscenza,  una nuova leva di impiegati, espressione delle nuove generazioni, dovrà essere capace di progettare e realizzare servizi capaci di rispondere ai nuovi bisogni del territorio. Molti uffici, ormai residui del vecchio Stato ottocentesco, preposti più al controllo sociale che non alla promozione delle libere attività umane, vanno soppressi o accorpati, per dare spazio ad uffici in grado di promuovere più capacità organizzativa, nuove forme associative, idee di sviluppo, cooperazione con altri territori, impulso alla conoscenza, inclusione sociale, collaborazione intergenerazionale, nuova logistica, ricerca scientifica e tecnologica, nuove attività produttive, formazione culturale e professionale. L’Ente Locale deve diventare  il centro propulsore di tutte le attività umane del territorio ove il governo si identifica con la partecipazione attiva dei cittadini. Il  Comune dovrà fornire l’impulso per una nuova riconversione produttiva. Terra, mare, cultura costituiscono le direttrici verso le quali muovere un nuovo modo di fare economia. Nelle campagne occorre portare più conoscenza, più tecnologia, più cooperazione, nel pieno rispetto della tradizione e della salvaguardia ambientale . L’individualismo è stato considerato il peggior difetto dei nostri contadini, ma non è vero. L’unità produttiva familiare nel nostro comprensorio è stata capace di coniugare solidarietà e spirito di sacrificio, dedizione al lavoro e voglia di crescere, conservazione dei propri valori identificativi. Oggi questa realtà familiare va tutelata e salvaguardata, ma va dotata di strumenti che l’aiutino ad essere competitiva entro un contesto molto più vasto come quello globale, ciò significa che va accorciata la filiera produttiva per ricondurre tutte le attività entro i confini territoriali:  ricerca, produzione, trasformazione, marketing, logistica, nuove rotte commerciali. Il prodotto deve potersi identificare con il territorio ed il territorio deve garantire qualità, salubrità, benessere alimentare, giusto valore per chi vende e per chi acquista. La nuova occupazione nasce e si sviluppa entro questa visione della realtà che ci circonda. Il  Comune dovrà diventare il centro propulsore per la nuova riconversione produttiva che segue quella serricola, offrendo  nuovi servizi, coordinando tutti gli attori della filiera, contrattando con la Regione nuovi livelli di intervento nell’ambito della programmazione regionale e comunitaria, rappresentando il territorio ed interloquendo con soggetti istituzionali di altri territori interni ed esterni all’Europa. L’agricoltura rimane l’asse portante dell’economia, ma interagisce con attività industriali per la trasformazione dei prodotti, promuove il commercio, sostiene la ricerca e la formazione nell’ambito di una programmazione partecipata da tutte le forze produttive. Le attività industriali, nell’ottica di uno sviluppo multicentrico, debbono trarre dall’agricoltura la materia prima per le necessarie trasformazioni, la produzione di licopene dal pomodoro e la coltivazione di altre varietà  vegetali, ad esempio, possono segnare l’inizio di un nuovo processo di sviluppo, stabilendo inediti rapporti tra agricoltura ed industria di trasformazione.  Per raggiungere questi obiettivi non è sufficiente aspirare agli aiuti comunitari, occorre reperire nuove risorse finanziarie nel mercato dei capitali, ma per riuscirci è necessario che il territorio diventi attrattivo. Un territorio attrattivo è un’area a criminalità zero, è un’area dove i servizi funzionano,  dove la pubblica amministrazione è trasparente,  dove i cittadini sviluppano e difendono un alto grado di civiltà. Se i cittadini pretendono il lavoro, allora devono curare il decoro delle loro città, devono combattere il crimine denunciando ed isolando i criminali, devono mandare i figli a scuola, non devono mai smettere di acculturarsi e di migliorare la propria professionalità, devono partecipare alla vita politica della propria comunità, devono contribuire con le proprie azioni al benessere collettivo. E' questa la nuova sfida. Il Comune dovrà favorire la crescita civile dei propri rappresentati pretendendo dai più abbienti il giusto tributo ed aiutando i più deboli a recuperare i propri ritardi materiali e culturali, nello stesso tempo esercita con rigore l’applicazione delle norme. Un territorio attrattivo, anche per un ipotesi di sviluppo turistico, necessita di servizi che funzionano, dall’igiene e pulizia urbana ai trasporti, dall’accoglienza agli eventi culturali, dagli spazi ricreativi alla valorizzazione delle risorse naturali ed ambientali. Nell’ epoca attuale nel Comune  i processi risultano invertiti: il Comune non è il luogo dove una classe dirigente esercita il proprio potere sui cittadini, bensì il luogo dove i cittadini utilizzano gli strumenti della partecipazione per raggiungere i propri obiettivi di crescita materiale e culturale servendosi di una classe dirigente esperta, dotata di competenze culturali e professionali, capace di agire in maniera efficace ed efficiente. Non solo, il Comune non considera la partecipazione ed il confronto  una perdita di tempo. Tutto questo è resilienza, lo sanno bene i vittoriesi che nei secoli hanno fatto dell'innovazione una loro peculiare prerogativa.